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Riflessioni Filosofiche

Riflessioni Filosofiche   a cura di Carlo Vespa   Indice


L'estetica negli scritti giovanili di Simone Weil

di Roberto Taioli - agosto 2013

 

In principio Amore sorse,

la primitiva cellula germinale della mente.

I Veggenti, indagando nei loro cuori con saggezza,

scoprirono la connessione dell’Essere nel Nonessere.
                                                                Nasadiya Sukta, RV X, 129

 

 

Lo scritto giovanile di Simone Weil Il bello e il bene (1), risalente al febbraio 1926, composto dalla autrice quando ancora era studentessaal liceo, costituisce il primo documento in cui la futura filosofa affronta di petto il problema estetico, con intuizioni e argomentazioni che troveremo ampliati e sviluppati nelle opere maggiori. E tuttavia questo scritto, per la problematicità che lo pervade, non può essere letto come un mero tramite alla riflessione maggiore della Weil, ma ricco in sé di una tessitura filosofica che ha da essere esaminata calandoci al suo interno, evitando il superficiale atteggiamento del sorvolo.

Vengono infatti nello scritto weiliano focalizzati alcuni elementi chiave dell’estetica della Weil (premesso in via preliminare che non esiste una estetica compiutamente sistematica e conchiusa elaborata dalla pensatrice), connessi tuttavia ad altre considerazione sul tema del bene, dell’utile e della morale. Non potremo perciò leggere le riflessioni sul bello e sul bene come continenti separati e incomunicabili ma disponibili ad una profonda intersezione, in modo che dall’unità separata si riacceda alla sua ricomposizione.

L’autrice esordisce con una tripartizione tipicamente kantiana, in quanto fa riferimento a i tre modi del vivere dell’uomo, il pensare, l’agire e il contemplare (le tre Critiche di Kant), come modalità scisse, ognuna di sé ascrivibile a regioni indipendenti. Ragion Pura, Ragion pratica, Ragione contemplante, sembrerebbero entità statiche, dotate di ferree leggi interne, per cui entrare nell’uno non necessità di transitare all’altra.

Ma l’assunto kantiano classico non è il punto di vista della Weil, in quanto essa subito percepisce la necessità di indagare i nessi che si danno tra l’opera d’arte e il giudizio morale. Sono davvero essi indipendenti, indifferenti l’uno all’altro? La bellezza e la virtù sono in qualche modo intrecciabili, quali le vie del loro incontrarsi? Seguiamo l’itinerario weiliano secondo le grandi figure che essa introduce per articolare il suo discorso:

 

Cammino guardandomi intorno e vedo un tempio: per effetto immediato mi fermo. Il mucchio di pietre incontrato con lo sguardo prima non mi aveva arrestato, ma avevo continuato a camminare senza pensarci; oppure sì, ci avevo pensato, ma per chiedermi chi l’avesse messo lì e per cosa servisse; oppure per ricordarmi di altri mucchi di pietre: l’avevo contemplato un momento perché mi rammentava un mucchio di pietre in un quadro. Insomma, mi aveva fatto pensare a tutt’altro.(2)

 

l tempio non è la somma di tutte le pietre che lo costituiscono, ma una totalità che emerge e s’impone con una forza d’attrazione e di coesione che è superiore alle leggi meccaniche necessarie per la sua edificazione. Entriamo in un altro ordine rispetto a quello determinato dalla necessità fisica. L’ordine delle pietre sapientemente disposte in un codice geometrico e dinamico, si trascende in un ordine estetico che è esterno al mucchio di pietre necessarie per la costruzione dell’edificio. E’ esterno ma anche interno, perché ogni pietra del tempio è in qualche modo il tempio, al quale si connette per partecipazione.

Questa trascendenza del materiale inerte nell’immateriale dell’idea estetica è però reso possibile dal fatto che un paradigma architettonico formalizzato secondo rigorose leggi di equilibrio, precede l’emersione dell’idea. La contemplazione del tempio, il suo fascino senza tempo, il suo permanere allo sguardo come identità e totalità, richiedono la comparsa in scena di una finalità che solo l’insieme può conferire:

 

Dal momento che esiste una tendenza, va detto dunque, che l’ordine del tempio – non posseduto dal mucchio di pietre – è finalità. […] del resto quell’unità e, per così dire, la volontà delle pietre di rimanere nel posto che esse occupano nel tempio, sono una sola e medesima cosa. Dunque il tempio, in quanto tempio, è finalità.(3)

 

Sulla natura di questa finalità che rende il tempio un oggetto estetico e non solo un mero manufatto, la Weil osserva che il tempio come oggetto estetico è tale in quanto non determinato da un fine utilitaristico esterno a se stesso. Certo il tempio è anche uno spazio religioso e teologico, sede di un culto sacro, il senso del suo esistere non si trova nell’uso, seppur nobilissimo, ma nel suo apparire, essere, rimanere oggetto estetico. Questa esteticità del tempio abita la totalità e si travasa anche nelle sue parti, cosicché ogni singola pietra, nell’ordine che le è stata dato, partecipa in qualche modo di quella bellezza.

L’azione estetica registra uno scarto rispetto all’azione abitudinaria e pragmatica mediante la quale normalmente operiamo, come quando, vedendo il martello, scrive la Weil, “il corpo intero si dispone e contemporaneamente lo spirito forma il concetto dello specifico uso del martello. Vedo il martello in quanto unità perché lo confronto col suo utilizzo”.(4)

Il tempio evoca, come per una sua interna intenzionalità (la Weil matura parlerà di attenzione creatrice (5)), la domanda di essere guardato, contemplato non in virtù di una necessità esterna ma di una finalità interiore. Il pulchrum, il terzo trascendente, usando la terminologia di Balthasar (6), è il fine e il modello del tempio, disegna un territorio percettivo ove sono messi fuori gioco, sospesi i concetti di causa e di uso. Questo territorio è abitato dal logos immanente che è la forma resa pura dai contorni della contingenza e che disegna una nuova geometria delle proporzioni:

 

… il tempio mi conduce solamente verso di sé: non è regolato da nessun fine esistente o astratto che sia al di fuori; non è regolato su nessun fine esistente o astratto che sia al di fuori; è regolato solo su se stesso e può essere confrontato solo con se stesso […] ciascuna parte è ugualmente bella in rapporto al tempio e presa come simbolo del tempio intero, così come è sprovvista di qualunque bellezza se considerata al di fuori del tempio. Il tempio nella sua interezza è fine e modello del tempio nella sua interezza.(7)

 

In questo intreccio donazione/privazione, che non è una mera dialettica oppositiva, il tempio si pone come logos ascensionale, polo del conferimento di senso e quindi generatore di totalità. Il suo essere sempiterno, come direbbe Raimon Panikkar, lo stacca dalla temporalità causale, come oggetto/soggetto, in una ambivalenza che va indagata. La sua oggettualità non può prescindere dalle leggi meccaniche e fisiche che hanno presieduto alla sua edificazione, per cui esso è e si installa in un tempo ed in uno spazio orizzontali, ma al contempo, come logos estetico, non ha più bisogno del tempo e dello spazio definiti in quanto “è in sé perfetto, un assoluto nell’universo” (8). Anche se venisse distrutto, la sua bellezza rimarrebbe inalterata, scrive la Weil, in quanto il suo essere è già compiuto, astratto dalle forme della necessità.

Il logos del tempio, assunto nella trascendenza dell’idea, permane al di là di ogni devastazione compiuta dalla ragione umana. Il logos è infatti irriducibile, non può essere confrontato, comparato, né distrutto, in quanto incarna l’istante della folgorazione estetica che è in sé, paradossalmente infondato. Tale dimensione di irriducibilità è presente, per la Weil, in genere nell’architettura ma massimamente nella musica, in quanto “ogni nota e ogni silenzio, per quanto imprevedibili, sono necessari, e se venissero cambiati scomparirebbe tutta la bellezza” (9), note della sinfonia e pietre del tempio sono consustanziali alla totalità che vanno a costruire e a comporre, mezzi e fini di una impresa estetica.

Musica e architettura si incontrano tra l’altro nel rigore matematico che le sottendono e nella forma vivente e mobile di architettura che è la danza. Qui il movimento diventa umano, in quanto le forme cinestetiche particolari che innervano il gesto, sono trascese nella totalità di una figura che permane oltre il tempo e lo spazio, come le pietre del tempio sopravvivono sublimate nella universalità. “Gli uomini che danzano, dunque, realizzano danzando la loro vocazione di uomini” (10), in quanto il loro evento si pone e si esalta come forma di una cerimonia, che è simbolismo del vivere, codice sublimato e magnificato dell’accadimento quotidiano. La cerimonia infatti trasforma l’utile in eterno, conferisce un’eccedenza di senso al banale e anonimo ripetersi dell’azione.

Ma anche il bene, secondo la Weil, rappresenta un superamento dell’utile e si affianca al bello come altra parte di uno stesso foglio. Anche la moralità è per la Weil finalità tesa a trascendere le leggi meccaniche ed utilitaristiche, operando quale legge universale. Insieme alla ripresa dell’etica kantiana (“Agisci sempre in modo che la massima del tuo atto possa essere eretta a legge universale”) si avverte nella giovane Weil la presenza di un’altra e ulteriore modalità tesa a connotare l’azione morale che essa indica come la volontà:

 

Il vero bene, che implica questo rapporto come il superiore implica l’inferiore, è il libero atto di volontà: esso determina l’obbligazione di conformarsi alle legge morale. Senza la volontà che afferri la legge e la voglia realizzare nell’azione, la moralità non è niente. Il bene non è una condizione di non-peccato, ma una perpetua azione.(11)

 

E la volontà quindi che designa il farsi dell’azione morale come dinamismo e intenzionalità, nell’effort, tema ricorrente nel linguaggio di Maine de Biran, autore che insieme ad Alain e a Jules Lagneau, influirà non poco sulla formazione filosofica della Weil.

Scriveva Jules Lagneau a proposito di Maine de Biran:

 

Il mondo a ogni istante è realmente per noi ciò che lo spirito, a seconda della sua decisione, in qualsiasi momento, vuole in noi. Maine de Biran diceva che non siamo certi della realtà del mondo esteriore se non attraverso lo sforzo muscolare, con il quale modifichiamo questo mondo. Lì è il cominciamento della verità. Noi non sapremmo che il mondo esiste, sia pure come apparenza, se non cominciassimo ad agire su questo mondo; cosicché, a ogni istante, il mondo è fisicamente tale quale noi lo disegniano” (12)

 

La giovane Weil respira a pieni polmoni i temi e la sensibilità dello spiritualismo francese che insisteva sulla ripresa di una filosofia valoriale, esaltando l’azione volitiva del soggetto. La verità è sempre oltrepassamento che lo spirito compie in un peregrinare senza sosta, tensione, cammino.

Reboul parla a questo proposito di una “logica dello scarto” (13) che mette in crisi e annulla le posizioni precostituite, bruciando ogni verità parziale come nel rito di un sacrificio. E’ solo nell’effort che l’uomo dà luogo alla fondazione dei valori evitando la deriva nichilistica o il fragile frammnetarismo della verità. L’effort coglie insieme l’azione dello scarto ma anche della nuova sintesi che si realizza e quindi opera come principio di unità delle opposizioni.(14)

Qui la Weil introduce un’altra grande figura idealtipica (nel senso usato da Max Weber) per declinare il nocciolo del bene morale come assoluto. L’autrice ricorre al noto passo di Plutarco ove l’imperatore Alessandro assetato e stremato nel deserto, rifiuta di bere l’acqua dentro l’elmo offerta da un soldato. Vediamo innazitutto il passo di Plutarco che fa da sfondo alla riflessione di Simone Weil:

 

Era allora in marcia contro Dario per combattere di nuovo contro di lui; ma non appena seppi che Dario era stato catturato da Besso, rimandò a casa i Tessali, assegnando loro duemila talenti di donativo oltre la paga. Durante l’inseguimento, che fu lungo e difficile, (rimase a cavallo per undici giorni per tremila e trecento stadi) la maggior parte dei cavalieri cedette, soprattutto per la mancanza d’acqua. Fu in quell’occasione che si incrociarono con lui alcuni Macedoni che portavano a dorso di mulo, in otri, dell’acqua attinta al fiume, e visto Alessandro, verso mezzogiorno, sfinito per la sete, subito colmarono d’acqua un elmo e gliela portarono. Egli chiese a chi portassero quell’acqua, ed essi: “Ai nostri figli – dissero – ma ne avremo degli altri, se tu vivi, anche se dovessimo perdere questi che abbiamo”.
Quando ebbe udito questi, egli prese tra le sue mani l’elmo; ma guardandosi attorno vide tutti i suoi cavalieri che volgevano la testa a guardar lui; allora non bevve, ridiede l’elmo, e lodati i donatori, disse: “Se bevo solo io, si perderanno d’animo tutti”. Perciò i cavalieri, vista la sua magnanimità e il suo autocontrollo, gridarono che li conducesse innanzi fiduciosamente, e sferzarono i cavalli: fino a quando avevano un tale re non sentivano la stanchezza, non avevano sete, neppure si consideravano mortali.
(15)

 

La narrazione dell’episodio di Alessandro raccontato da Plutarco agisce come un altro versante e un’altra faccia per Simone Weil della riflessione sul tempio. Lì come qui è in gioco l’enucleazione del nocciolo veritativo sotteso alle apparenze. Bello e bene si confrontano non per stabilire tra di essi una supremazia dell’uno sull’altro, ma piuttosto per incarnarsi ed incardinarsi in un unico valore. Nella filosofia riflessiva (16) di Jules Lagneau, di cui la Weil fu estimatrice, l’esercizio della riflessione è un atto necessario che consente ad essa di non farsi rappresentare come una cosa tra le altre ma come leva che s’apre e disocculta il valore, come porta d’accesso al valore. Lo spirito scriveva Alain, è Una eademque res, non dietro né davanti alla cosa ma dentro alla cosa.

Il bello, nell’azione come nell’opera d’arte, ha fine solamente in sé, infatti noi ammiriamo l’atto di Alessandro non sulla scala di una morale comune (sarebbe ridicolo rifiutare l’acqua quando si è assetati) ma in quanto sovvertitrice di quella logica. E in più, scrive la Weil, la scena che vede compiersi l’atto di Alessandro, svolge la funzione di un proscenio, ove anche altri personaggi sono attivi. Nel proskenion si attua un’azione a suo modo drammaturgica in quanto funge tra gli attori una intesa, il realizzarsi di una partitura, il dispiegarsi di una cerimonia.

La bellezza dell’atto non è, quindi, solo in Alessandro. E in realtà anche il soldato che porta l’acqua e l’esercito che osserva rinunciano a quell’acqua. Ci rinunciano per Alessandro; Alessandro rinuncia per loro: ogni uomo è come le pietre del tempio, al contempo fine.(17)

 

La distinzione che Simone Weil adombra è quella tra cerimonia ed azione;  la cerimonia è tale in quanto sempre si ripete come in un’ identità, si rifrange nel suo specchio, si organizza in una liturgia; essa è bella in se stessa, mentre l’azione è movimento, spostamento, spaziamento, distrazione. Ma in Alessandro l’azione è divenuta Sfinge, eternità, perfezione. Come è avvenuto questo trasferimento di senso?

 

Eppure l’azione è l’esatto opposto della Sfinge: sempre presente, sempre cangiante, sempre si rifà ad altra cosa e interroga l’oggetto. Ammiro l’azione di Alessandro, allora, non in quanto azione, ma in quanto spettacolo. In realtà non mi immedesimo in Alessandro, lo osservo dallo stesso piano dei soldati. Non penso ad Alessandro come spirito, ma come corpo: corpo umano, vale a dire materia che ha ricevuto la forma dello spirito umano, proprio come il tempio.(18)

 

L’arrestarsi del tempo ordinario preforma un metatempo nel quale le comparse dell’azione (come le pietre del tempio) si subordinano alla nuova totalità di senso emergente, ognuna di esse necessaria al disegno complessivo. In tal caso, similmente al tempio classico, l’atto di Alessandro si fa vedere, sussiste e permane nelle pagine di Plutarco, come spazio estetico, parimenti allo spazio estetico generato dal tempio.

In questo neutralizzarsi dell’azione, del pragma e delle sue sequele meccaniche, Alessandro è simile al tempio greco, le cui pietre non sono meri accessori edilizi ma forme attraversate dall’eterno. Non occorre essere presenti davanti al tempio, come non è possibile ritrovare Alessandro se non nelle pagine di Plutarco. L’azione si è depotenziata, come nel bloccarsi di un fotogramma che perdendo mobilità si stabilizza e si costituisce, in un processo di perdita/acquisizione, rallentamento e messa a fuoco. Ciò che va perduto nel senso del movimento acceleratorio che inevitabilmente trascina e sorpassa, l’istante fissa in un’icona autosufficiente come un guadagno non precario:

 

A nessuno può sfuggire che sia questo momento di immobilità, di cerimonia, il momento decisivo dell’azione. La vera azione non è il gesto del versare, meccanico e privo di pensiero, come dimostrato dalla sua stessa eleganza. L’azione è quel rifiuto di ogni movimento animale, l’immobilità scultorea e la meditazione senza parole, attraverso il solo governo dei muscoli.(19)

 

La riflessione che Alessandro compie silenziosamente dentro di sé e che lo condurrà alla rinuncia di bere l’acqua dall’elmo davanti ai suoi soldati, lo sottrae all’animalità che pure vive in esso nella forma degli stimoli e dei bisogni, riconnettendolo all’orizzonte dell’intersoggettività e dell’umanità. E’ fuor di dubbio che Alessandro veda in questo momento i suoi soldati non come tasselli del suo esercito, ma uomini, soggetti, individui a lui accomunati. Si cancella su questo piano la distanza tra comandante e comandati, in quanto il bisogno (la sete) unifica i loro destini.

Il bene, scrive Simone Weil, è “quel movimento con cui ci si strappa da se stessi in quanto individui, in quanto animali, per affermarsi uomini, partecipi di Dio”(20), ma proprio in quanto atto di rinuncia e di sacrificio che diminuendosi accede all’universale, il bene incontra il bello, non come alternativa e scelta tra possibili; essi si compenetrano in una unità che assorbe e consuma i loro caratteri particolari. Il giusto si fa bello ma il bello è il giusto.

Bisogna allora entrare nella caverna evocata da Pascal, che la Weil riprende, per avvertire questa consumazione:

 

Entrate allora nel mio cuore nella mia anima – dice Pascal invocando Gesù Cristo – per sostenervi le mie sofferenze e per continuare a sopportare in me ciò che vi resta da soffrire alla vostra passione…(21)

 

Come la legge morale kantiana impone l’affermazione dell’uomo in sé, spogliato delle determinazioni particolari, in modo che il bene sia necessario e non utile, così il bello è ciò che è sempre perfetto e concluso, “materia morta che ha ricevuto l’impronta dello spirito vivente” (22) e che è andato depurandosi e purgandosi delle scorie dell’accidentale.

La forma del Cristo/Logos che la Weil sente presente anche nelle religioni precristiane, per esempio nello stoicismo (23), compenetra e irrora la sua visione della bellezza. Tutto è sacrificio, ma di un ardore che lascia vivo l’essenziale. In questa trasparenza che sospinge sullo sfondo l’inessenziale per portare in piena luce l’essenziale, si compie l’atto estetico. Esso ha dovuto, prima del suo vertice, lasciar cadere da sé le parti che appesantivano e sviavano il cammino verso la bellezza. Non c’è bellezza che nell’atto del morire e svuotarsi, spezzarsi e poi risorgere.

E’ questo il senso del sacrificio estetico che ha radici nell’atto sacrale e nella dialettica della perdita e della rinascita, del partire e del tornare. In questa direzione leggiamo il seguente passo della Weil:

 

Da un lato dunque il bello ci invita a essere liberi e, poiché ci rifiuta, ci invita a rifiutarlo. Ma, dall’altro lato, noi osserviamo il bello con l’azione di staccarci dall’oggetto. Rifiutiamo l’oggetto e ciò ci insegna a rifiutare l’intero oggetto, a rifiutare l’oggetto in noi, cioè le nostre passioni, i nostri sentimenti, i nostri pensieri.

Con questo la nostra vita diventa bella e simbolo di Dio, anche le nostre stesse passioni e i nostri stessi peccati, come ha intuito con forza il cattolicesimo. Perciò dorme l’uomo che non percepisce le proprie passioni come belle. Sempre ci avviciniamo a Dio rifiutando e lasciando indietro la materia da noi plasmata in questo movimento di rifiuto, perfetta perché ha ricevuto la forma dello spirito umano, immobile e simbolo del movimento. Questo rifiuto fa sì che la materia sia l’oggetto – detto altrimenti: la rende bella. Vedere, infatti, qualcosa come bello è vederla immutabile ed eterna, invece di vedere l’essenza secondo l’esistenza. Ma il bene è rifiuto della stessa essenza e affermazione che l’essenza è determinata da qualcosa di superiore: la libertà.(24)

 

Questa sintesi tra esistenza ed essenza si attua in Dio che scioglie le antitesi e le opposizioni cosicché anche bello e bene (apparentemente separati e distinti) ascendono alla cifra dell’Uno, diventano una cosa sola. Il caduco che muore è necessario alla nascita dell’eterno che ha in sé trascesi e trasfigurati gli atti contingenti (come il tempio interiorizza le pietre le che lo costituiscono). Colui che dorme perde la dimensione estetica, affidandosi alla ragione strumentale che associa azione ed uso, atto e singolo movimento. L’anestesia dell’alto e del profondo sono come l’infanzia della ragione estetica che ancora ha da compiere il risveglio, guadagnando il tempo della totalità.  Prima, come confuso, l’uomo  vede le singole pietre del tempio, ma il tempio gli sfugge, rimosso e strappato al vero sguardo. Il tempio gli è rubato e sottratto, così come nella figura di Alessandro l’osservatore ingenuo vede i singoli atti cinestetici del suo comparire, ma non l’azione che lo solleva e redime. C’è un viaggio da compiere e un salto da operare, come problematicamente a aporeticamente scrive la Weil:

 

Al di fuori di questa azione che pone l’unità del bello e del bene volendola, tutto è sonno. “Essere o non essere, sé e ogni cosa, si deve scegliere” (25).

 

Dio ha creato la bellezza ma ha lasciato all’uomo l’onere di contemplarla, come in atto di rinuncia che prefigura la rinuncia dell’uomo estetico, che deve liberarsi della pesanteur che cerca di incardinarlo nel mondano, di inibirgli la visione. Bisogna quindi imparare ad essere disponibili, ad educarci alla visione, liberando il pensiero, purgandolo e purificandolo, come in una veglia e in una attesa. Nella sua nudità estrema, nella sua vacuità, esso sarà in grado di accogliere e di dare dimora all’oggetto che sta per penetrarvi.(26)

 

   Roberto Taioli

Roberto Taioli
nato a Milano nel 1949 ha studiato filosofia con Enzo Paci.
Membro della SIE- Società Italiana di Estetica, è cultore di Estetica presso l'Università Cattolica di Milano.
Il suo campo di ricerca si situa all'interno dell'orizzonte fenomenologico.
Ha pubblicato saggi su Merleau-Ponty, Husserl, Kant, Paci e altri autori significativi del '900.
Negli ultimi tempi ha orientato la sua ricerca verso la fenomenologia del sacro e del religioso e dell'estetica. Risalgono a questo versante i saggi su Raimon Panikkar e Cristina Campo.


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NOTE

1) S. Weil, Il Bello e Il bene, Mimesis, Milano, 2013, titolo originale Le Beau et le bien proviene dal “Fonds Simone Weil ed è presente nelle OEuvres complètes della Edizione Gallimard, che pubblica tutti gli scritti di Simone Weil, a cura di André A. Devaux e Florence de Lussy. Il testo in questione trovasi nel primo volume, Premiers écrits phlilosophiques (a cura di Gilbert Kahn e Rolf Khun, Parigi 1988, pp. 60-73). D’ora in poi sarà riportato con la sigla BEB.

2) BEB, p. 10.

3) P. 11.

4) p. 12.

5) “L’attenzione creatrice consiste nel fare realmente attenzione a ciò che non esiste. Nella carne anonima che giace inerte all’orlo della strada non c’è umanità. Eppure, il samaritano che si ferma e guarda, fa attenzione a quella umanità assente, e gli atti che eseguono confermano che si tratta di un’attenzione reale”, in S. Weil, Attesa di Dio, a cura di J.- M. Perrin, Prefazione di Laura Boella, tradizione dal francese di Orsola Nemi, Rusconi, Milano, 1972, p. 112.

6) H. U. von Balthasar, La percezione della forma, introduzione e traduzione di Giuseppe Ruggieri, Jaca Book, Milano, 1971. Ci si riferisce al tentativo di Balthasar di completare una teologia cristiana alla luce del terzo trascendente, il pulchrum, dopo aver trattato del verum e del bonum.

7) BEB, p, 12.

8) p. 13.

9) p. 13.

10) p. 14.

11) p. 20.

12) J. Lagneau, Cèlèbres lecons e fragments, cit. in R. Revello, Postfazione, in BEB, p. 42.

13) Della “logica dello scarto” ne parla O. Reboul nel suo libro su Alain L’homme et ses passions d’après Alain, PUF, Paris 1968, I, pp. 25-51. Alain, al secolo Emile-Auguste Chartier - 1868- 1951 - (detto Alain, come firmerà i suoi scritti), determinò una feconda influenza intellettuale sui suoi allievi, tra i quali Raymond Aron, Georges Canguillhem e la stessa Simone Weil; si fece portatore di una visione filosofica ispirata ad un umanesimo nutrito dalla presenza del dubbio. In questo senso fu un “cartesiano”, pur non pervenendo mai ad una rigida dicotomia tra res cogitans e res extensa. Utilizzò un genere di comunicazione e di scrittura filosofica chiamati Propos, consistenti in brevi articoli, quasi registri diaristici quotidiani, tesi a proporre un metodo ed un atteggiamento volti ad aiutare a riflettere e a pensare razionalmente. Il senso dell’effort potrebbe essere accostato al principio del Daimon, come viene letto da James Hillman per il quale il Daimon è una personificazione del destino, “ma quella di di Daimon è un’idea mitologica e psicologica. Sarebbe difficile trasformarla in un concetto ontologico, a meno di non essere un neoplatonico dogmatico. Se vogliamo, là dove Socrate e in seguito Plutarco, come dicevo prima, usano la parola Daimon, oggi potremmo parlare di Spirito Guida o di Voce Interiore, o, in un contesto religioso, di Angelo Custode”, in G. Hillman, L’anima del mondo. Conversazione con Silvia Ronchey, BUR, Milano, 1999,p. 15.

14) Il movimento dialettico dello scarto viene in qualche modo raffigurato da Simone Weil nel racconto di un personaggio da lei incontrato nella sua vita. Si tratta di Léon Letellier, allievo di Jules Lagneau, il cui figlio Pierre frequenta con Simone la classe di Alain. Si tratta di un caso esemplare ove vediamo all’opera la tensione dell’effort; il giovane Letellier, normanno di origine contadina, perde precocemente il padre incontrando sulla sua strada l’avversità delle ristrettezze economiche. Preda della disperazione, a soli sedici anni si imbarca su un peschereccio diretto a Terranova. Gettatosi in questa condizione, conosce per lunghi anni la fatica e l’abbruttimento nella lotta contro le grandi forze della natura. Nella dura esperienza sui mari Letellier, scrive la Weil, aveva imparato a “conoscere la potenza umana fronteggiando tutti i giorni fatiche e sofferenze in apparenza insormontabili”. Solo verso i trent’ anni d’età decide di darsi agli studi filosofici, illuminato dal magistero di Jules Lagneau, superando lo stato di stagnazione morale in cui versava. Letellier che combatte contro la dura legge della necessità e della realtà ostile prefigura quell’ideale ascetico che la Weil vivrà nella dura esperienza della fabbrica della Renault, raccontata ed esaminata in La condizione operaia, Edizioni di comunità, Milano, 1952 , ora in Adelphi.

15) Plutarco, Vite parallele. Alessandro e Cesare, introduzione di Antonio La Penna, traduzione e note di Antonio Magnino, vol. IV, 42, Rizzoli, Milano, 1997, pp.139-141.

16) Per approfondire la problematica della” filosofia riflessiva” si veda lo scritto di J. Nabert, La philosophie réflexive, in Encyclopedie francaise, XIX , Paris 1957, pp. 19.04.14, 10.06.3.

17) BEB, p. 23.
Jean-Luc Nancy ha bene insistito su questa pragmatica del corpo: “Le mie mani, le mie gambe, il mio collo, la mia postura, la mia andatura, i miei gesti, la mia mimica e la mia aria, il timbro della mia voce, tutto quello che si potrebbe chiamare la pragmatica del corpo, tutto, tutto quanto, su tuttala superficie della mia pelle e di tutto ciò di cui potrei ricoprirla e ornarla, tutto espone, annuncia, dichiara, rivolge qualcosa: modi di accostarsi o di allontanarsi, forze di attrazione o di repulsione, tensioni per prendere o lasciare, per inghiottire o vomitare” (vedasi J.-L. Nancy ,Corpo teatro, traduzione italiana di Antonella Moscati, Edizioni Cronopio, Napoli, 2011, p. 24.

18) BEB, p. 24.

19) P. 25.

20)p. 27.

21) Citato dalla Weil in BEB, p. 27; la giovanissima pensatrice si riferisce a Blaise Pascal, Prière pour demander à Dieu le bon usage des maladies, in OEuvres complètes, Gallimard, Bibl. De la Pléiade, Paris, 1969, p. 614 (Il buon uso delle malattie, a cura di L. Corsi, trad. it. di Eva Casciello, La Vita Felice, Milano 2007).

22) BEB, p. 28.

23) Sul presunto sincretismo della Weil, che metterebbe insieme esperienze religiose e mistiche diverse, ne ha parlato Charles Moelller nel suo libro Letteratura e cristianesimo. Il silenzio di Dio, I, Vita e Pensiero, Milano, 1961 , pp. 205-240. Le considerazioni dell’autore non ci sembrano tuttavia capaci di rendere visibile il complesso e tormentato itinerario spirituale seguito da Simone Weil fino alla scoperta del cristianesimo e del suo particolare modo di sentirsi cristiana. Il termine sincretismo è da usarsi in modo creativo e non cumulativo, in tale accezione la Weil fu sincretista in quanto si dissetò a fonti spirituali diverse viste confluire nel cristianesimo e talora precederlo. Si può, con le dovute cautele, parlare di una cristofania occulta ma fungente anche in altre religioni.

24) BEB, pp. 29-30.

25) P. 30. Il virgolettato è citato dalla stessa Weil da J. Lagneau, Célèbres lecons et fragments, PUF, Paris 1964, p. 94.

26) S. Weil, Attesa di Dio, cit.. p.81.


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