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Riflessioni Filosofiche

Riflessioni Filosofiche   a cura di Carlo Vespa   Indice

 

Chi sei tu?

La domanda di Arjuna la notte prima della battaglia
di Mario Cialfi
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...ma una religione è, nel sentimento comune, il baluardo della moralità, l'elevazione a ciò che una volta si diceva lo "spirito", quasi che senza di essa l'uomo non saprebbe concepire un senso al suo trovarsi gettato nell'esistenza, ignorando la voce di chi può illuminare e dare una regola a quest'esistenza.
Ma ciascun dio bandisce la sua propria legge: e anche immaginando che dietro la cortina di nubi un unico spirito impugni il vessillo di un unico bene, o che il nostro dio sia l'unico vero, questo non basta a dimostrare il valore di una morale che viene dall'alto. Non basta lo spavento o l'osanna di un popolo, il furore profetico o un’improvvisa passione a conferire a una bibbia una sacralità perpetua. Le sue pagine sono impregnate d'umano, spasimante e orgoglioso, le sue norme promettono un inferno ai ribelli e agli obbedienti un fruttifero paradiso. E se la religione usa maniere più morbide, anche solo un consiglio amichevole, è questa una strategia più sottile ma non meno mortificante, che fa leva sull’ignoranza e la fiducia degli umili. Ma non sta neanche qui la ragione del dubbio che può afferrarci davanti alle religioni del mondo, poiché è il concetto stesso di una moralità divina che non si può accettare se non degradando dio, cioè separandolo dall'assoluto. E' qui il momento fatale, la questione decisiva per tutto il tempo passato e futuro.
Una perversione vizia fin dal principio la religiosità, che è impulso verso l'assoluto e fissazione istrionica dell'assoluto,  consacrazione abusiva di sentimenti, maschera di umane paure e piaceri, mentre, a mano a mano che la religiosità vive, si arrende alla storia degli uomini, di cui assume i moventi, voracità, voluttà, ipocrisie lasciando gli increduli  nelle fosse mentre si avvinghia al bruto potere, innalzando dio per innalzare l'uomo - un popolo una chiesa una persona - e ove cerca pateticamente di riformarsi e tornare alle origini, ricade nello stesso scandalo o produce religioni nuove che non si differenziano dalle antiche se non per i nomi che danno al divino e per il profluvio di inni e complicità, tingendo le anime dei fedeli con gli spruzzi del sangue versato nelle lotte contro una fede diversa. Vuol dire questo che la religione è da abolire perché non è mai pura?
Ma solo in tal modo, cioè col suo carico di colpe e finzioni, una religione può esistere: non solo, ma serve alla storia e alimenta coi suoi magnifici miti la cultura e l'ethos degli uomini, quasi che soltanto rivestendosi di quella materia fosse in grado di portarla avanti e la sua corruzione, come quella della sostanza organica, fosse necessaria alla vita del mondo. Dunque non c'è alternativa a questa profanazione: può una religione prescindere dalla storia e negare il proprio bisogno di esistere, chiudendo gli occhi a un chiarore che le viene incontro e le mostra il cammino? Eppure, qualcosa mi spinge ad insistere, a porre la religione di fronte a un dilemma più aspro: poiché non si tratta di scoprire le deviazioni da un sublime ideale, né i singoli errori, le infamie mascherate d'amore, ma, più profondamente, dell'illusione o della pretesa di scolpire su lastre di pietra la Legge, quello che dovrebbe essere giusto per tutti i tempi ed i luoghi e che di fronte all'assoluto potrebbe essere nulla.
Allora mi pare che sia questo il punto dove dovrebbe effettuarsi la scelta suprema fra condanna e salvezza: se la religione avesse il coraggio di staccarsi da tutto, da tutte le ambiguità di una sapienza teologica, da ogni simulacro idolatrico e dalla pretesa di avere le chiavi del vero e del bene, in una parola dalla sua apparenza di religione, lasciando dio al suo mistero e il mondo libero di svolgersi con le sue capacità, cioè di vivere e di morire, creare la sua arte, la sua scienza, la sua moralità e i suoi stessi fini - poiché solo la storia può aspirare alla verità, solo essa ha il potere di dannarsi o redimersi, solo essa ha il diritto di cercare dio - e solo la storia, pienamente accettata e sofferta, non contamina quella purezza. Sì, la moralità è cosa nostra, liberamente inventata, demolita e mutata, mentre dio scuote questa polvere dalle sue ali.
Forse, nella nostra incoscienza siamo posti di fronte a una scelta cruciale, che potrebbe portarci fuori dall'età mitologica o farci ricadere nelle sue spire. Oggi la religione è una droga, una magia bianca e nera, una moina infantile e una pseudo-illuminazione per certi filosofi che sanno mescolare il sacro e il profano: una superstizione da cui siamo tutti adescati, per lo meno ogni volta che ci sentiamo angosciati o sconfitti e rinunciamo sospirando alla ragione terrestre - mentre è questa che dovremmo allora seguire imbrattandoci nelle fangosità della strada, come hanno fatto da sempre  gli uomini di questa terra e perfino pontefici e asceti, cioè la via della storia, che diventa d'altra parte la via della fede, in quanto non pretende di impadronirsi dell'assoluto e in suo nome consacrare le vergogne del mondo, ma prosegue in una sorta di confessione profana o di ascesi affidata ai nostri corpi più che agli spiriti, quasi che solo in tal modo fosse dato di mondare la religione dal vizio d'origine. E forse questo non è lontano da ciò che pulsa in ogni cuore devoto, e che è il mistero della fede di tutti, se quella dialettica di trascendente e immanente che adesso mi ha avvinto porta all'estremo ciò che si torce pur sempre dentro di loro quando, sollevando gli occhi nel cielo si piegano ad arare la terra.
Allora mi è sembrato di poter abbozzare questo fantastico paradosso, che la religione debba perdersi per salvarsi, sciogliendosi dall'abbraccio soffocante di dio e lasciando che la storia si svolga nella sua continuità incensurata. Ma forse non è un paradosso, è una realtà che sta maturando fra noi e che il tempo fabbrica con la sua forza e la sua intelligenza superiore a ogni individuo: una trasformazione, dopo tutto, meno traumatica di quello che può esteriormente apparire, e che scioglie il nodo che da sempre è chiuso dentro di noi. Si pensa che questa non sarebbe più religione, e che equivarrebbe a toglierla dal nostro pianeta? O sarebbe un portarla alla sua purezza, e un riavvicinare il mondo alla religione se proprio lasciando la storia immune da anatemi e favori celesti, essa non può non nutrire la fede  nel suo silenzio - come un respiro che viene da lungi e sorpassa corpi e nazioni e non conosce confini divenendo la religiosità del tutto, ossia la disperata speranza - se la fede consiste in questa verissima assurdità, cioè in quella divinità senza dio che mi appare sempre più come l'essenza del mistico e forse come il suo ultimo grido. Mi sembra, allora, che questa sia l'unica chance per una religiosità del futuro e una sua sopravvivenza nella secolarizzazione compiuta, ossia nella storia infinita: quasi che questa, e soltanto questa, sia lo specchio dell'assoluto.
Ma allora è inutile e perfino blasfemo anche conservare il nome di dio, se la vita intera, e non solo un linguaggio, deve giungere là, mentre in quello spiegamento degli esseri - esperienze piccole e grandi, individui e popoli dell'evoluzione cosmica - scorre una lievissima arguzia.
Vivere nella storia, morire nella storia, aprirci alla storia - quella che ci fa abbracciare le religioni mentre ci allontaniamo da esse - ed è come se Uno sorridesse di queste caricature di sé e suggerisse che non c'è bisogno di credere nella sua esistenza perché egli è noi, l'universo degli universi nella sua oscura immanenza e in quell'arcuarsi dell'assoluto nell'infinito che è come il segno della pacificazione su uno sterminato mare e la vera prova di dio. Vibrazione di un cuore instancabile, che ci fa vivere per morire mentre tutto è, fin dall'inizio, compiuto come un passare da circolo a circolo, rotolando verso un circolo ultimo che è il circolo primo. Forse in quell'arguzia è una delicata armonia o, forse, un'ultima tentazione, se in nessuna figura quell'Uno può esistere, in nessuna lingua e in nessuna dottrina, e alla fine neppure in ciò che ho chiamato infinito, ma nella sola fede: che ignora ciò che è diverso da sé serrando le due guance della terribile gorgone - il dubbio e la verità. Fede che non esige prove, quale è sempre stata e sarà la fede più vera e che è fede nell'assoluto qualunque nome esso possa portare, e forse non è neppure fede nell'assoluto, perché è l'assoluto.

 

...penso davvero quello che penso? o questo aggrapparmi alla fede è solo atavismo e il mio inginocchiarmi alla storia non è che una nuova forma d'idolatria? Forse è così, anche se mi sembra che la storia giustifichi questa ambigua passione perché, se pur induce a respingere ogni prescrizione divina, crea e trasforma le religioni e le porta alla fine non perché religioni, ma perché religioni immature di fronte a ciò che arde come la religione vera, tanto che nessuna credenza, neppure la più cieca ed elementare, nessuna superstizione e teologia,  nessun crimine compiuto in nome di dio, nessuna estasi o umiliazione è esclusa da quei grandiosi volumi - tutto il religioso è immancabilmente storico, preso da una potenza che distrugge qualunque fede di fronte a sé stessa. Ed è qui che ritorna la domanda suprema: c'è bisogno di un dio per credere nell'assoluto? c'è bisogno di un dio per ritrovare la grande emozione e l'armonia dei padri? O è solo su di sé che si regge la fede, perché - come fu per me negli anni dell'adolescenza -  essa è sempre e solo fede nell'assoluto?
Ma io ho scelto la storia, e la storia è assoluta se si lancia nell'infinito e nessun verbo l'arresta. Bellezza, verità, perfezione -  balbettio delle epoche d'oro; oppure la rivoluzione del mondo, la trasformazione di tutti i valori: sembra che l'umanità si protenda verso parole ultime, e che siano queste le scelte autentiche della fede, attraverso o al di là delle religioni canoniche. Ma no, nessuna risposta, nessuna definitiva conferma, neppure il sacrificarsi in un simbolo può dare la pace. E noi dobbiamo affrancarci da questi miseri incanti e affrontare l'oceano dell'immanenza. E' un’onda, un'ombra di luce, che diviene un'accusa al tuo non saper proseguire e non saper obliare i cantici del paradiso, al tuo non sapere da solo morire. E' stato questo che mi ha portato avanti? La mia vita si è formata sull'epica e sulla tragedia greca, è cresciuta con Shakespeare e si è esaltata nel romanticismo - avrei voluto essere nato in quei tempi, ma per seguire i veri maestri, portando il romanticismo oltre sé stesso e le sue infatuazioni, in cerca di quel romanticismo infinito che sentivo incarnato in Goethe, Beethoven e nel grande romanzo, in ciò che trapassa deliri e languori, ossessioni e malinconie, sconfessando qualunque egoismo e risolvendosi nella totalità delle cose... Eppure neanche questo oggi mi basta, in un'epoca che non conosce divieti  e dove nessuna parola è una definitiva parola. E che rimane di una cultura che anche se tanto allargata è ancora inquinata dal mito e dalla superbia dell'uomo?
Così, dopo molti anni, io mi trovo ancora davanti a una sola certezza: la certezza dell'assoluto, senza poter vietarmi di chiedere: "Chi sei tu?" - all'ombra che vedo scivolare sulla mia strada. Qual è la tua verità,  sei in qualche modo simile a  un dio? o assoluto e null'altro?  
Potrebbe essere l'opposto di quanto pensiamo e vogliamo, fino a smentire o annullare tutto quello che ho scritto, e se è un dio, questo dio potrebbe essere un mostro, un giocatore, un pagliaccio….eppure questo non basta a far scomparire la fede, se essa è l'invincibile logica, cioè è un credere nell'assoluto qualunque esso sia. C'è una forza nella verità che ce la fa sentire divina, persino se fosse una condanna dei nostri più alti ideali, se fosse lo strazio dell'intelligenza e la maledizione dell'essere. Persino se la verità non c'è. Che cosa valgono i nomi? La mia fede nell'assoluto è l'antica fede del mondo, e al di là di essa non potremo mai giungere, mentre la tenebra è il solo conforto nella nostra sventura.
Sono così tornato all'inizio, a quella cosa incontestabile e impossibile da concepire, a quel pregiudizio che non si può scansare e che rappresenta l'unica logica e l'unica fede. A questo ho dovuto giungere al fine: dio non è che assoluto, anche se questo esclude l'esistenza di dio, il pensiero stesso di dio - ed è qui il suo mistero, che la religione ha sintetizzato nel nodo cristiano di crocifissione ed eternità. E se sorgesse il dubbio che questa non è religione, ebbene, dovrei avere il coraggio di trascurare questo ultimo attacco, perché neppure questo è importante, perché l'assoluto basta a sé stesso, indipendentemente dalle mie emozioni, dall'essere e dal non essere, dalle parole e dalle pietà del mondo - se ancora oggi la religione è soltanto fede.
Fede e assoluto: un rapporto che è nel cuore, o nel cuore del cuore di tutte le religioni, in questo o in un altro universo, e che ce le fa, anche repugnando, comprendere e lottando abbracciare.

 

 

Mario Cialfi

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