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Riflessioni Filosofiche

Riflessioni Filosofiche   a cura di Carlo Vespa   Indice

 

Credo credo

L'unico, il solo onnisciente, vuole e non vuole essere chiamato Zeus
di Mario Cialfi
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Ilarità del cosmo

...non mi rinfacciare il gusto delle cose oscure: oggi sono stranamente lieto, ho un attacco di vero ottimismo, almeno per quanto riguarda, più che l’umanità, la grande natura – quasi che non bastasse la violenza insita in essa, quel suo divorare sé stessa, quell’evoluzionismo crudele, e neppure una catastrofe cosmica a togliere la speranza di una salvezza dell’essere anzi di un’ascesa dell’essere.
Devo riconoscere che la moralità è qualcosa di simile a una fede mistica: si crede anche se dio non c’è, si è morali anche se si vuole essere empi, anche se la natura sembra negare questo ideale e se la storia è solo un poco più astuta della natura.
Così dobbiamo forse ricrederci: noi viviamo in quella che si definisce un’epoca democratica, siamo sufficientemente fidenti che il nostro è il meno imperfetto dei modi di vivere insieme, e la democrazia presuppone non solo una fede nell’intelligenza ma nella moralità degli altri, senza di che sarebbe solo un inganno. Dunque il popolo è, nonostante tutto, affidabile o, tanto per non sopravvalutare il suo ruolo, può sorgere di quanto in quando un tiranno meno vile degli altri, un politico meno arcaico e più umano.
Ma, anche al di fuori dei nostri temporali giudizi, sembra di intuire che un potere guida la storia verso decisioni che sorpassano i più efferati disegni: dopo tutto né individui né popoli riescono a realizzare il loro eroismo demonico e sembrano condotti contro sé stessi in un altro sentiero, fino a farci sognare di un’ironica provvidenza e di una arcana mitezza. Il male, dopo tutto, si distrugge da sé.
E, portando lo sguardo al di là degli aneddoti della storia, la stessa natura sembra spinta a farsi più grande, a cercare il tutto per un irresistibile bisogno di giungere alla verità – poiché, se anche tutto fosse il contrario di come ci appare, se il tutto non fosse che il nulla (lo posso pensare, dunque è possibile), il nulla sarebbe allora la verità, l’inconfutabile “è” per una logica che non dipende dalla nostra mente ma che si impone da sé. La notte dell’universo sarebbe la luce dell’assoluto, la stessa, forse, che incantava Parmenide e che si irradia dai fantastici buchi neri. Si spiega forse così il senso di perfezione che dona la morte: quella involontaria effusione e quell’impercettibile sì.
E’ come se una moralità trasognata animasse l’intera materia e quel bisogno di uccidere e di comprendere tutto assomigliasse a un inconfessabile amore: è questo che dà al cosmo la sua vibrazione divina? Forse l’assoluto è al di là del bene e del male e la mia è una stupida infatuazione, forse quell’elevazione è soltanto un’evenienza fisica – sì, nessuna salvezza per la nostra ideale figura, nessuna salvezza per civiltà, chiese e universi. Eppure un sorriso ci tocca se pensiamo al tutto. E’ un conforto troppo leggero? troppo lontano da noi? Ma se è l’unico raggio, perché disperare?

 

Oriente e Grecia

...quanto alla tua osservazione, che io ricorro alla Grecia e mai al pensiero orientale, che pure ti sembra “abbia avuto un posto nella mia formazione”, potrei risponderti con questa ragione paradossale: che ciò che rende una religione più prossima al vero è la dialettica che la travolge, quella dialettica che è nata in Grecia e nutre la storia, disturba e trafigge la nostra fede – mentre in altre parti del mondo non si è accettato il confronto ed è come se la religione non osasse provare la sua verità, a rischio dell’estinzione. Sembra che quelle religioni sfiorino una moralità più elevata, ma il non aprirsi alla storia è il loro oscuro peccato ed è la loro certa condanna, se proprio grazie alla storia noi possiamo sperare di vincere i dubbi e di sollevarci a un più alto grado di spiritualità: mentre l’Oriente sembra incapace di rinunciare alle vecchie magie e sfalda il suo sogno – quando non soccombe al fascino dell’Occidente – nell’inerzia di un rito biologico. Ma c’è il misticismo, che si dice accomuni le religioni e che ne è, d’altra parte, il punto nevralgico. Potrei chiedere infatti: se (come nelle vostre altissime concezioni) l’essere è identico al nulla, perché cercare di raggiungere il nulla? perché percorrere un’inutile ascesa e approdare a un paradiso che si trova già qui?
Ma non è una questione di logica più o meno astrale. Ho detto che l’Oriente è restio o sdegna di affrontare la storia: in realtà è costretto a scendere nell’arena subendo l’oscuro travaglio di tutte le religioni, forse con un più acuto e sublime distacco, finché sopraggiunge la conversione fatale. Ogni religione va contro il suo anelito d’assoluto: una volta nata si piega al passato, alla terra, al potere, smarrisce lo slancio rivelatore, si impregna di una storia irriconosciuta che la snatura e alla fine l’uccide: certo in tal modo si storicizza, ma contro sé stessa, cioè si falsifica, mentre solo una religione che rinuncia al suo impero e lascia libero il mondo sarebbe una religione vera: verificata e provata dalla sua irrealtà... Ma quando, come, in quale pianeta? Dove esercita la dialettica il suo folgorante potere? E sappiamo quale sarà l’ultimo dio?
Forse la religione dovrà ridursi a un esile sentimento, al respiro che ci attraversa, a un atteggiarsi del corpo, a un’estasi che neppure esiste e che è solo un’attesa o una sterminata eresia: un dissolversi di tutte le favole e le nevrotiche rivelazioni, di quelle litanie e di quelle orgiastiche danze. Perché l’errore è alla fine questo, questa gioia di votarsi al divino, mentre lo scopo è uno solo: impadronirsi della sua forza, anche se quella forza si tinge di rara umiltà. E’ questo il merito della dialettica e dell’ironia della Grecia nei confronti della religione, questo metterla costantemente alla prova, dovesse costarci una delusione intellettuale e morale, cioè l’icona della santità. Ma quel sorriso orientale? Forse è solo apparentemente un possesso di verità di fronte a un misticismo che non rifiuta la storia perché si porta più in là e rinuncia alle beatitudini di un improbabile cielo. E’ il misticismo dell’Occidente? la religione di un futuro secolo? E che cos’è una religione perfetta se non quella che scompare di fronte alla storia, che le concede gli spazi e l’eternità, cioè i privilegi stessi di dio? Ma la dialettica non ha fine e quel cielo più alto è pur sempre intangibile.

(P.S. – Su un punto ammiro incondizionatamente il pensiero orientale: sulla ripetuta, coraggiosa e non pessimistica certezza di pensatori buddhisti che la loro religione scomparirà dalla terra. Prova di una vera saggezza, quel predire la propria fine, più fine della nostra orgogliosa dialettica).

 

La perfezione

E’ col cristianesimo – si dice – che l’uomo ha creduto nella perfezione di dio e, contemporaneamente, ha riconosciuto il valore assoluto della moralità, che la moralità porta a dio (“Dio non vuole non opera non desidera altro che il bene – dice il Francofortese – e non vi è altro perché”). Eppure la moralità cristiana è una moralità della storia, di qualche ora e di qualche popolo della storia, e attribuirla a dio significa piegare dio a una perfezione illusoria, se l’assoluto è da considerarsi perfetto al di là di ogni termine e condizione: per il solo fatto che è l’assoluto. Il dio primitivo non è un dio moralissimo, il dio greco è solo un eroe, lo stesso dio ebraico inorridisce gli oppositori – dunque nessuna moralità è un attributo dell’assoluto, anche se qualche entusiasta lo ha imprudentemente affermato. L’argomento anselmiano è per così dire appeso a una convenzione morale – “dio è il concetto di un essere perfettissimo….” – mentre la perfezione dimostra piuttosto l’inesistenza che l’esistenza di un dio e muta la logica di quell’argomento in un “perfettissimo, dunque non esistente”. Eppure neanche questa santificazione gli basta: che significa una morale se non è una morale assoluta cioè tale che sorpassa sé stessa – forse quella che ha imposto il sacrificio di Abramo contro ogni logica moralistica, forse l’etica dei rivoluzionari? Dio non ha bisogno di una giustizia per affermarsi, no, e neppure di una bontà.
Eppure c’è un turbine nella nostra ansia morale che sembra spingerci alle soglie dell’assoluto; forse qui si tocca il mistero della vita degli  astri, quella inesauribilità delle forme, quell’affinità del tutto e dell’assoluto che ci rende possibile di vivere nella storia e non considerare vano il nostro tormento: se moralità è dopo tutto un aprirsi, un comprendere, un respirare nel respiro degli altri, mentre la morte insegna alla carne, se non al pensiero, la verità dell’amore. E se questo è troppo poco per dio, si potrebbe immaginare una moralità superiore; ma potrebbe essere ancora un’allucinazione seppure in altro senso da quello nietzschiano, poiché solo dio è al di là del bene e del male, e noi non possiamo sollevarci oltre la moralità e non vediamo nulla al di sopra di essa – fuorché dio, fuorché dio. Ed è questo lo stigma dell’assoluto, questa liberazione preclusa ai nostri cervelli eppure infallibilmente certa. Ma, dopo tutto, la verità potrebbe essere assai meno alata e il fatalista potrebbe avere ragione, se il mondo è in ogni momento tutto ciò che può essere.
Sta qui dunque la perfezione: in questo splendore di cieca sostanza, in questo paradiso che si sovrappone alla carità degli umani e che rende la tenebra inesorabilmente chiara. Sì, per trovare la verità bisogna morire.

 

Fiat nox

...per quanto io non ami il filosofico linguaggio, riconosco che l’obiezione che lei mi ha rivolto di una sovrapposizione o confusione dei termini “esistere” ed “essere” richiede una riflessione. Al grado di astrazione al quale mi attengo quella distinzione è dopo tutto fragile: essa si è sempre fondata su un’ideologia o su un presupposto logico, quindi su una base precaria, anche se ha sorretto una metafisica secolare. Forse Anselmo d’Aosta, nel suo argomento ontologico, ha cercato di oltrepassare la distinzione, ma quella sintesi di esistenza ed essenza che egli riservava a dio è estensibile a tutti i reali, i possibili e gli irreali, a ciò che balena fuori, dentro e oltre il pensiero, tutti attraversati da un’unica fiamma ed esistenti in quanto sono e in quanto non sono. Così l’argomento non dimostra nulla per quanto riguarda dio, mentre l’esistere è per così dire una volgarizzazione o profanazione dell’essere, quasi un metterlo a fuoco, mentre, dall’altra parte, ascende nella sfera dei fini, delle possibilità e dei simboli fino a chiamarsi dio. Forse dio solo resiste alla sua nullità bruciando la fiamma dell’essere – o questo è l’ultimo equivoco del realista?
Di fronte all’opinione di Anselmo, il mistico potrebbe assumersi fino in fondo la parte dell’insipiente, e asserire che dio è dio perché supera esistere ed essere in tutte le forme come l’uccello o lo spirito della notte, soddisfacendo, se non altro, il nostro gusto dell’avventura e il nostro inguaribile romanticismo. Ma dio non si incarna in nessun poema e in nessun concetto, neppure in una possibilità metafisica, volando in tal modo nell’assoluto, irraggiungibile nella sua evidenza. Solo qui egli trova il suo fondamento, in quello che non ha bisogno di una logica per affermarsi ma si regge da sé imponendo il suo essere e quindi il non essere, abbandonando l’assurda esistenza e ispirando una fede che si potrebbe sintetizzare così: non credere per poter credere. Anche se un dubbio rimane (o dobbiamo chiamarlo una tentazione?): che neppure questo sia l’assoluto, ma cerchi di essere o impadronirsi dell’assoluto, mentre si inserisce nella fantastica ridda, quella sfilata di numi, quella competizione che credevamo relegata nel mito, quel dio-contro-dio gareggianti in una lotta per spogliarsi della propria superbia, lotta non per la luce ma per le tenebre. Forse la tenebra è ancora troppa luce per dio. O forse egli è al di sopra di luce e di tenebra, come di voci e silenzio.

 

Non plus ultra

...sospetti che quanto dico sia solo ironia? che proprio questo mi mantenga sereno in questi patetici sfoghi, in questi monologhi o lettere che potrebbero apparire di un’irritante insolenza? Credi che parlare di dio possa essere un gioco o che soltanto il gioco mi salvi dalla pazzia?
C’è un solo problema, il problema dell’assoluto, di fronte a cui nessun dio può resistere. Quando parlo di dio e per quanto cerchi di coglierne il più elevato concetto, di provarlo, tentarlo, purificarlo, io non mi stacco da me, dai condizionamenti cui sono soggetto, dagli idoli della tribù, della leggenda della specie-uomo. Solo se supero il ricordo di dio nell’attesa dell’assoluto, a prescindere da ogni fede e dubitando di tutto, posso sperare di giungere al vero. Un dubbio assoluto per una certezza assoluta. E’ dunque dio definitivamente perduto? Anche concependolo come l’altissimo, l’irraggiungibile, l’altro, come può resistere all’assoluto? e perché gettare dei lineamenti nell’assoluto? No, né lampi né tenebre. Né melodie né silenzio.
Dio è una nostra invenzione: è così o non ci serve, sarebbe un mostro o un enigma, un lusso da lasciare ad altri cervelli. Dunque è una contraffazione dell’assoluto, un assoluto a misura d’uomo. Forse per questo dio non c’è mai. Ma proprio se lo getto nell’assoluto egli perde la sua umana figura anzi ogni figura pensabile, ogni sì e ogni no per tutto lo spazio e per tutto il tempo. E io posso capire la necessità di quel nome, dio può presentarsi come l’ultimo anello fra me e l’assoluto, l’ombra svanente nel sole della verità. Dio come l’angelo ultimo. Come l’ultimo squillo. Con quell’esigenza di riconoscerne i tratti, di accettarne lo spirituale disegno, di concepire un dio e sacrificargli la verità.
Se c’è un dio noi non siamo semplici prede o allegorie stralunate, la nostra pena è in qualche modo reale, e come si può rifiutare quest’allucinazione dolcissima, questa passione invadente, questo emblema finale e allettante mitologia? La verità è forse lì, un passo più avanti, poiché sì, dio è il preannuncio dell’assoluto, ciò che appare a noi l’assoluto – anche se l’assoluto è al di là di ogni forma e ogni amen, confermato da una logica più potente di quella sacerdotale e priva di indulgenze e castighi. Per un perdonabile errore noi abbiamo attribuito a dio i connotati dell’assoluto, forse egli è ancora una superstizione e ciò che ci è intorno è il gelo della materia o un viscido scoscendimento, mentre vaneggiamo di dio fino al margine dell’abisso. E a che serve questo spreco di sentimenti, visioni e metafore; questa teodicea lunga quanto la storia, se nessuno in verità può credere in dio – sapienti idioti apostoli e peccatori. E un rimorso passa nel cuore dell’uomo, poiché l’abolizione di dio può sembrare il trionfo dell’anticristo e questa sembra essere la condanna del ventesimo secolo, nel collasso di tutti i valori e il precipitare nel caos di un  pianeta abbandonato dagli immortali. Ma dov’è l’anticristo? Altri orrori ci aspettano, mentre la rinuncia a sognare e perfino a ricordare un dio ci renderebbe possibile di vivere nella storia, di portarla avanti, di renderla forse migliore, anche se storia può significare rovina dei popoli e la distruzione stessa dell’uomo. Se dio non esiste, l’assoluto è davanti a noi, coi nostri figli e coi giorni avvenire - un’altra alternativa non sembra possibile. Eppure una liberazione del mondo non sarebbe nello stesso tempo una liberazione di dio? uno scioglimento dai suoi stessi vincoli, dalla millenaria mitologia; non equivarrebbe a sposarlo con l’assoluto e a ristabilirlo nel suo trono puro e trionfale?
Noi ne abbiamo fatto una folle caricatura, un fantasma al nostro servizio: ma come poteva essere diversamente se quello è per noi il solo modo di abbracciare tutto o di perdere tutto? Mentire per l’assoluto: non credo che si possa andare oltre nel pensiero di dio.

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