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Riflessioni sull'Antroposofia. La Scienza dello Spirito

Riflessioni sull'Antroposofia

La Scienza dello Spirito

di Tiziano Bellucci   indice articoli

 

Amare senza desiderare: una mèta umana

Febbraio 2013

 

Noi umani viviamo come occultati in un incantesimo, che ci nasconde la reale natura della condizione in cui viviamo.

La scienza dello spirito ci dice che se potessimo vederci con gli “occhi dello spirito” vedremmo che noi umani non siamo separati gli uni dagli altri e che come spiriti viviamo in una completa unità, in una compenetrazione assoluta.

La realtà della nostra vita ci appare frammentata in percezione e concetto, soggetto e oggetto come due cose distinte, divise.

In sé la natura, le nostre entità non sono separate, ma parte di un unico corpo, di un'unica entità.

E’ solo a causa della strutturazione della nostra coscienza che tutto appare duale, disunito: l’anima è fatta in modo da farci sperimentare una “separazione”, una distinzione fra i corpi: io sono qui, lui è là. Ed è anche un bene che sia così: non d’un tratto ci si affacciasse la reale condizione in cui siamo posti (condizione che viviamo durante lo stato di sonno e dopo la morte) ci scopriremmo parte di una realtà “marina” in cui come onde viviamo gli uni negli altri, senza possibilità di poterci afferrare in un nucleo individuale, perché di continuo, immergendoci nell’ambiente e negli altri, saremmo di continuo trasformati in ciò che attraversiamo. Saremmo soggetti ad una continua e perenne metamorfosi: diventeremmo sempre qualcosa di altro rispetto noi stessi.

La saggia natura corporea ci ha posta quindi in un “incantesimo benedetto” entro il quale dobbiamo vivere l’illusione di essere separati.

Questo genera la particolare stato di coscienza umano: ma è anche la base su cui si origina ogni sofferenza, nostalgia e malinconia.

L’umano appare come un “eterno insoddisfatto” perché mancandogli di continuo la coscienza dell’unità con il mondo e gli altri, tenta di sopperire a questa tramite artificiosi sotterfugi.

Soprattutto nei sentimenti.

L’umano desidera una compagna e la vorrebbe legare a sè per sempre, compiendo un assurdo: vorrebbe compiere un unione, una saldatura che è invece già realizzata dall’eternità: ella è già legata a lui, essendo parte dell’universo dove entrambi ne sono un particella costitutiva.

Di certo l’ambizione di “fare dei due una carne sola” è una meta che appartiene di più ad un processo che deve compiere la coscienza, che non un fatto fisico. Anche se nei corpi è incantato il “presentimento” di una possibilità di afferrare questa unione occulta: presentimento che  si invera  “facendo l’amore” perché esso è uno dei pochi momenti in cui l’unità di cui si è accennato sinora, si realizza e diviene un fatto reale esperibile da entrambi. Ci si sente “uno”.

“L’io che si identifica con la sua forma terrestre sente come propria, la separazione fra lui e l’altro, e soffre la nostalgia dell’unità con l’altro, che invece nel suo intimo già possiede.  La ravvisa, ove la forma bramata dell’altro possa risalire al vero essere, che è il suo essere: il suo io.  L’io spirituale è uno con la realtà dell’altro, ma di ciò non se ne ha mai coscienza. L’atto sessuale sembra realisticamente ripristinate tale unità: ma ciò è soltanto il gioco della luce riflessa suscitato dal gioco della forma astratta.

Nell’atto sessuale con l’altro, sorge la sensazione di beatitudine, perché in esso vi è la condizione  tramite cui si attua una proiezione sensibile di ciò che invece è una realtà compiuta nel mondo spirituale.  L’anima cerca mediante il corpo ciò che è suo da una remota infinità, o da un  tempo originario; lo fa però tendendo verso l’esterno, ignorando che l’altro è già dentro di lei”.

L’atto sessuale è l’illusa, tentata immersione dell’io nell’altro io”.

Tuttavia al principio, si deve cercare se stessi attraverso l’altro: altrimenti non avrebbe senso la vita sociale e di coppia. Si deve amare l’altro per divenire capaci di trovare l’amore in se stessi. Il contrario è quasi impossibile. L’umano è sostanza di amore: ma quell’amore deve passare attraverso l’imbuto dell’egoismo e scadere nella materia, per ridiventare un amore divino. La cosa fondamentale che deve e doveva essere coltivata affinché sorgesse nell’uomo una retta capacità di amare non poteva essere altro che lo sviluppo della sua piena autocoscienza. Portatore del vero amore non può essere nient’altro che un io indipendente che sperimenta l’essenza dell’egoismo gradualmente, di incarnazione in incarnazione. Può nascere la massima capacità di amare solo se si conosce e si sperimenta il suo contrario: l’odio e l’egoismo. E questo poteva solo succedere su un pianeta predisposto: la Terra. Solo un amore divenuto egoista, quindi un amore prigioniero delle sue brame e passioni, può risorgere come amore libero, che ama senza desiderare. Che è la mèta dell’uomo.

Vi è bisogno di amore. Di tenerezza e di calore. Non attraverso la sola conoscenza e l’astrattezza dei concetti realizzeremo il progetto divino. Ma attraverso la reale pratica d’amore. Che è sempre più tendere a “com-prendersi”, ad accettare ad accogliere l’altro come un essere che come noi, ha i nostri stessi desideri. In realtà non vi umano che non abbia bisogno d’amore e non voglia amare, come noi: soltanto che non lo sa ancora. Si tratta soltanto di accorgersene. E di cominciare ad incontrarci su questo piano. Ora.

 

Tiziano Bellucci

 

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