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Riflessioni sull'Antroposofia. La Scienza dello Spirito

Riflessioni sull'Antroposofia

La Scienza dello Spirito

di Tiziano Bellucci   indice articoli

 

Il mondo assorbe l'io dell'uomo

Luglio 2014

 

Chi volge la sua attenzione al mondo, sa che osservarlo non è ancora comprenderlo; ma per comprenderlo deve necessariamente prima, osservarlo.
Il moto primo del conoscere è quindi il percepire.

 

Che sia l’Io il vero soggetto che percepisce, lo sperimentatore non lo viene a sapere dall’immediato percepire, osservare e comprendere, ma dal rivolgere verso tali attività l’attenzione: dal pensare su esse. Egli si sente un Io virtù del fatto che le attività di percezione e comprensione gli rinviano il sentimento che lui è l’autore, il testimone o soggetto di fronte al mondo. La sua autocoscienza si basa sul fatto che il mondo si affaccia a lui ponendogli molteplici domande e grazie ad una reazione fra lui e il mondo, accadde che egli possa darsi delle risposte.
Soltanto riconducendo, mediante il pensiero, il percepire e il comprendere verso ciò che in modo trascendente ne è il loro artefice, il ricercatore può intuirsi e avvertirsi come soggetto: dirsi Io.
In ogni momento in cui l’uomo si avverte come soggetto, in realtà si connette inconsapevolmente con il principio operante in ogni cosa del mondo.

 

Osservazione:

nell’atto del percepire o del pensare, l’uomo non può avvertire se stesso come soggetto. Nel momento in cui volge l’attenzione verso un oggetto o un tema, è portato spontaneamente a ignorare se stesso. Egli deve provvisoriamente dimenticarsi di se stesso nell’attimo in cui si attua una percezione di un oggetto. Ciò è il segno che in realtà l’Io è uno con l’oggetto, identificato con esso.  In realtà l’Io non è uno con il mondo solo in quel momento, ma sempre.
Nel momento in cui si distoglie l’attenzione dalla percezione del mondo sorge la sensazione di sentirsi un Io; cessando di immergersi in percezioni l’uomo è portato automaticamente al sentimento di sé.
Donandosi al percepire e al pensare, l’uomo dimentica se stesso: l’Io-soggetto: che pur continua ad essere, ma la coscienza non lo avverte. Anche quando si è preda di un impulso o di un istinto si è portati ad una diminuita consapevolezza di sé, che esclude provvisoriamente il pensiero, non si è presenti come Io.
“Conoscere è immergersi nell’oggetto, dimenticando se stessi nell’attimo del percepire e del pensare.”
Immerso nel pensare e nel percepire l’Io non avverte se stesso; e a ragione, perchè in quell’attimo non è più se stesso, ciò che era prima, ma è diventato l’oggetto. Ogni percezione è in realtà un momento di identificazione dell’Io con la cosa osservata: intuizione.
Il pensiero della cosa si da all’uomo in quanto essa entra in relazione con l’Io che la percepisce: l’io compie un moto nella cosa.

 

L’oggetto assorbe dunque l’Io.
L’identificazione è un evento continuo e originario, di cui l’uomo di continuo sperimenta solo gli effetti, che gli si presentano come gli usuali pensieri ordinari che si fa delle cose: ogni concetto che trae dall’osservazione, è in realtà frutto di un’intuizione, o meglio di un suo immergersi nella cosa per afferrare un lembo dell’essere della cosa.
Se nell’Io fossero attive forze di coscienza attivate tramite una disciplina, nel percepire l’uomo non si farebbe più solo dei pensieri, ma sperimenterebbe l’essenza sovrasensibile che si manifesta in quella cosa che osserva, non più solo la sua forma fisica.

 

Il dato della natura giunge all’uomo senza sua iniziativa: gli giunge compiuto.
La sua iniziativa comincia allorché, mediante osservazione pura, prende coscienza di un’operazione che solitamente compie senza saperlo: il suo partecipare, il suo identificarsi con il dato della natura.
Nel momento in cui i sensi fisici si dirigono verso una cosa del mondo, essa si offre, instaurando una segreta relazione fra sé e l’Io, attuando un nascosto incontro fra spiriti: la coscienza non avverte ciò, anzi essa sorge e avverte se stessa solo di conseguenza a ciò, come effetto di tale contatto spirituale. La coscienza si avverte solo perchè l’incontro fra Io e io della cosa si presenta non come tale, ma come sensazione e rappresentazione: come percepito.

Si sente una sensazione che sorge in corrispondenza ad una data forma.

 

L’uomo si “avverte”, si percepisce come essere esistente, perchè in lui vi è qualcosa (animadversio) che attua un processo di “avversione” o contrapposizione nei confronti della vera natura di una cosa. (Avvertire = stessa radice di avversare: contrastare, ostacolare, opporsi, essere ostili, avversi, provare antipatia o contrapposizione).
Ciò da un lato è indispensabile per generare la coscienza dell’Io; essendo l’Io dell’uomo congiunto e compenetrante ogni cosa del mondo, se non si inserisse una forza capace di separare, di opporre resistenza all’unione totale, quindi di praticare un’avversione contro la condizione spirituale o legge dell’Io l’uomo non giungerebbe mai ad avere cognizione di sè e del mondo. L’avversione attua un processo di separazione dall’unitarietà.
Si tratta quindi di un avversario, di un ostacolatore.

 

L’uomo conosce il proprio percepito, non il suo percepire. Non si avvede che ciò che si attua nel percepire è un esperienza di conoscenza più alta, rispetto ciò che può elaborare su il percepito.
Gli sfugge la vita della cosa; gli rimane la sua forma cristallizzata, che non è più la cosa.

 

Il ricercatore può volitivamente rivolgere la sua attenzione ad una determinata percezione, in modo da non essere attratto dalle risultanze del percepire: smettere di farsi distrarre dalla sensazione e dalla rappresentazione.
Egli può vietarsi la forma e la sensazione che usualmente si presenta in lui nel percepire.
In tal modo lo sperimentatore osserva solo il percepire: presiede attivamente al processo; egli può volitivamente volgere la propria anima al moto dell’Io nella cosa, mediante la contemplazione di questa. Deve avere davanti a se il percepito, (una cosa del mondo) per cogliere in esso come si verifichi l’identità dell’Io con l’essere della cosa, attendendo che l’idea nella cosa si riveli spontaneamente.
Uno scrigno non è l’oggetto che racchiude; si tratta di tenersi immobili con il pensiero di fronte ad una percezione, tanto che, per continuità di attenzione il percepito impronti l’anima per ciò che in esso è contenuto. La cosa percepita stimola l’uomo non per pensarla, per qualcosa di più che per il suo solo apparire: per incontrarlo.
Accade allora che non la cosa, né la sensazione, né la sua forma attraggono il ricercatore, ma bensì la vita dell’Io che si esplica nella vita della cosa stessa: si viene a sapere che ogni cosa è in realtà un simbolo dell’Io che si esprime nell’essere del mondo.
L’unico modo affinché l’uomo presieda attivamente l’atto del percepire, non deve essere l’identificarsi con quel che spontaneamente accade nel suo essere psico-fisico per effetto del percepire, ma deve poter avvertire quel che naturalmente si presenta in lui senza l’attività psico-fisica. Davanti ad una roccia, un vegetale, una cascata, (ente vegetale o minerale) egli deve poter distinguere la vera “spontaneità” dalla falsa spontaneità apparente quotidiana.
Si tratta di identificare e di scindere due momenti, uno psico-fisico e uno spirituale.
Ordinariamente l’obiettivo e reale contenuto delle cose viene regolarmente smarrito dall’uomo; egli viene tagliato fuori dalla vera realtà del mondo: avrà sempre il mondo fuori di sé.

 

Dal “Suono della luce” di Tiziano Bellucci

 

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