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Riflessioni in forma di conversazioni

Riflessioni in forma di conversazioni

di Doriano Fasoli

Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice


Il grande inganno

Conversazione con Francesca Sanvitale
di Doriano Fasoli per Riflessioni.it

- novembre 2005
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L’arte che promette di durare nel tempo, diceva Kohut, ha una sua coesione interiore. Essa esprime in una forma unificante un elemento che proviene dalla mente umana…
Qual è per lei l’elemento discriminante nella differenziazione tra un prodotto scadente, o destinato a produrre soltanto un effetto sorprendente, e un serio tentativo di esprimere nell’arte una nuova visione del mondo?

Kohut ha ragione, ma aggiungerei che l'arte non solo esprime un elemento che viene dalla mente umana ma esprime il bisogno e il desiderio di comunicare "al di là" del proprio passaggio sulla terra. È una pulsione che i più sanno illusoria ma centrale, che sembra ripetersi nel tempo, che oggi tende a diventare un fiume in piena. E questo propone un paradosso: che nell'allargarsi, forse anomalo, questo desiderio di esistere, anche solo per mezzo delle parole, finisce per cancellare i risultati individuali. Un pulviscolo infinito di parole circonda la terra, viene dagli uomini "per non morire", come un vortice sempre cancellato e sempre rinnovato.
Non è facile esprimere una nuova visione del mondo, basterebbe riuscire a individuare e interpretare "il mondo qual è". Non è affatto difficile distinguere i prodotti scadenti o solo abili. Le prime due cose che mi vengono in mente sono: l'espressività con la quale si descrivono le cose, ovvero la scrittura; i segni che restano in noi da una narrazione: un'immagine, un personaggio, un sentimento. Se noi conserviamo questo prezioso patrimonio da una lettura, ebbene ci è stato regalato qualche cosa che a che fare con l'arte e ci arricchisce.

Ha interesse per la Storia?
Sì, ho sempre avuto molto interesse per la Storia. È la Storia che ci ha fatto, per la quale siamo nati in un determinato luogo con determinate leggi e un determinato codice civile. È la Storia che crediamo di conoscere mentre è spesso essa il Grande Inganno, costruita su molteplici inganni di parti, sul dolore di moltitudini di vittime ignote e sull'ingiustizia. È il calderone della storia che nasconde le peggiori nefandezze, i tradimenti più oscuri e il coraggio, l'abnegazione, il dolore, il sacrificio, quasi mai vincitori. Tutto ciò che è l'uomo, nel suo essere individuo nella molteplicità, lo troviamo nella Storia. Eppure è proprio la Storia che, alla fine, è inconoscibile.

Lei è contraria al culto o alla cultura della corrida? (Che ha ispirato bellissimi testi letterari, penso in particolare a quelli di Michel Leiris, ed è esattamente il contrario della caccia o dell’abbattimento in serie).
Culto per la corrida? No. Bisognerebbe avere un culto per la morte e per il sangue. Tutto ciò mi è estraneo. Eppure è successo che quando ho visto per la prima volta la corrida, credendomi refrattaria a uno spettacolo del genere, sono invece stata presa da questo duello mortale. Avvertivo gli estremi di un rito che aveva radici lontane e ricreava un momento simbolico di lotta per il predominio tra l'uomo e l'animale, tra uomo e natura. Un rito, dunque, più che uno spettacolo, che riportava a tempi nei quali il coraggio umano si misurava nel duello all'ultimo sangue e la vittoria si doveva perseguire, contro la forza dell'animale, con l'abilità, l'eleganza e persino la grazia. Anni '50. Un viaggio in Spagna, con amici. Ero molto giovane. Dopo, lessi subito Morte nel pomeriggio di
Hemingway. Cercai il congegno di questa febbrile attenzione e persino entusiasmo nella descrizione delle tecniche e della storia stessa della corrida. Hemingway ci aveva messo dieci anni a scriverlo. Cercai di razionalizzare la mia attrazione improvvisa e condivisa con il pubblico spagnolo attraverso la cultura ma intuivo che questa "competenza" non mi avrebbe spiegato niente, e che la corrida mi aveva turbato come se mi trovassi a non conoscere me stessa. Ero molto giovane. Dovevo ancora imparare che non possiamo mai essere sicuri di ciò che siamo e sentiamo.

Secondo lei la pena di morte ha ancora un elemento di fascino? E le pare possibile che essa venga ristabilita in Europa? A Derrida, sì, sembrava possibile, “ad esempio in una situazione di guerra civile o di semi-guerra civile!”
La pena di morte non può avere fascino, mai. Ho visto molti film e quindi molte sedie elettriche, molti plotoni di esecuzione, molte torture. Ma ho visto anche, nel 1943, a Firenze, quando avevo quindici anni , la fucilazione dei renitenti alla leva, giovani quasi come me, trovati nelle loro case, trascinati poi a Campo di Marte, legati alle sedie in segno di viltà, di fronte ai genitori costretti ad assistere. Gridavano aiuto e urlavano "mamma".
Chi osa proporre o sostenere la pena di morte, magari per ragioni politiche o di valore aggiunto per farsi eleggere, dovrebbe essere punito. La democrazia deve porsi dei limiti, al di là di minoranze e maggioranze. I limiti sono scritti una volta per sempre nella Costituzione. Uno di questi è il rifiuto di adottare la pena di morte. E spero bene che l'Europa non mostri mai un tale ritorno al passato. Sarei incerta anche per le eccezioni, cioè per i delitti gravi contro l'umanità benché, in questo caso, la pena di morte sarebbe forse giustificabile.


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