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Riflessioni in forma di conversazioni

Riflessioni in forma di conversazioni

di Doriano Fasoli

Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice


Nel cielo alto

Conversazione con Paolo Lagazzi
di Doriano Fasoli per Riflessioni.it

- giugno 2005
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È una poesia mai ripresa da Bertolucci in una sua raccolta, ma presente nel fondo bertolucciano da me allestito, in collaborazione con Valentina Bocchi, presso l'Archivio di Stato di Parma. È un testo davvero singolare, direi misterioso: non datato ma composto, credo, negli anni Trenta (forse mentre il poeta stava aiutando la sua allora fidanzata Ninetta a comporre la tesi su Catullo), anticipa di oltre mezzo secolo quell'immagine delle "lucciole sfinite", di cui le "foglie amare" di un "giugno ventoso" sono "imbrattate", che conclude la Canzone triste in tre parti della Lucertola di Casarola, la poesia di commiato di Bertolucci al mondo. Per il suo tema e il suo timbro, doloroso e tremante ma insieme cristallino, di alta, classica musicalità, ho letto Come lucciola in pubblico durante la parte "civile" del funerale di Bertolucci a Parma. Fu un momento, per me e credo per molti, di commozione indimenticabile.

“La poesia registra certe situazioni esistenziali, ma è chiaro che essa, soprattutto nei grandi, ha sempre difeso l’idea della continuità del vivente: un vivente diverso che continua, procedendo verso un’incognita, per cui la stessa poesia non ha mai creduto di poterlo congelare in una formula”: sono parole di Mario Luzi. Lei cosa ne pensa?
Anche quando sembra delineare delle teorie estetiche o filosofiche o proporre delle riflessioni generali, ogni vero poeta parla dall'angolo visuale della sua poetica: questa frase è anzitutto un viatico per la poesia stessa di
Mario Luzi, per la sua esplorazione a tutto campo di quella che Lovejoy ha chiamato "la grande catena dell'Essere". Ma questa frase aiuta a capire anche poeti molto lontani da Luzi, come Bertolucci. Se è vero che le situazioni esistenziali, cioè i vissuti famigliari e i sentimenti privati sono il fulcro della poesia bertolucciana, come non vedere in essa, nel suo amore per la vita in tutte le forme, una fede appassionata (se pure assediata dai dubbi) nella "continuità del vivente"? Soprattutto La camera da letto non si limita a mettere a fuoco la fragile, lirica bellezza delle esistenze individuali, ma dispiega epicamente tutti i colori e le ombre del tempo umano, e insieme tutti i volti della natura: la luce dei cieli, l'incanto del verde, la densità rugosa e seminale della terra, il palpito granuloso delle stelle. In questo modo Bertolucci, come molti altri grandi poeti, conferma l'intuizione di Luzi: che la vita resiste attraverso e oltre l’arsione dei nostri destini personali. Quale sia, poi, "l'ultimo orizzonte" della vita, nessun poeta può pretendere di saperlo: tutti i poeti sono, da questo punto di vista, come Leopardi di fronte alla siepe. Forse qualcuno potrebbe limitarsi a dire che la vita non ha scopo o approdo, ripetendo quanto hanno detto i maestri zen. Ma nei poeti questa impossibilità di definire l'esistenza diventa una grande apertura: la sola via per cui può scorrere, libero da ogni irrigidimento ideologico, il flusso della creazione.

Tra i romanzieri, quali sono i suoi “classici”?
I miei prediletti sono quelli che hanno saputo fare della narrazione un'arte ariosa, una via della leggerezza: i fratelli ideali di Mozart nell'ambito della scrittura. Penso anzitutto a
Cervantes e a Stevenson: di quest'ultimo amo tutto, anche i racconti minori e minimi, anche i frammenti e le pagine autobiografiche. Ma sommamente leggero, benché, insieme, corposo e vinoso, è Dickens: un altro grandissimo maestro che mi ha donato – vorrei ripetere le parole di Borges per Stevenson – dei momenti di vera felicità. Tra i narratori del Novecento adoro Robert Walser, il più fantasticamente leggero di tutti. In Walser c'è qualcosa di così luminoso, un dono di visione così nutritivo e appagante che non ha confronti: rileggerlo è per me sempre un'esperienza entusiasmante e pacificante. Nessuno come Walser ha saputo farci intuire l'estasi, l'immensa bellezza e freschezza che si annida nella quotidianità: in Walser c'è davvero qualcosa di molto prossimo a un sentimento zen della vita (penso a un famoso haiku di Issa: "Io non ho nulla, eppure / quanta pace in cuore –/ e che fresco"). Poco importa che questa felicità nasca da una forma di quieta follia: nessuna follia si è mai spinta, credo, più a fondo nel sondare la gratuità onnipervasiva della bellezza.
A questo punto dovrei rovesciare la prospettiva. Proprio come sento congeniali i maestri della leggerezza, amo
Joseph Conrad, il cui universo è più che tragico: nelle sue storie non abitano, forse, le Furie? Eppure, al fondo della terribile visione che Conrad ha della realtà (regno della tenebra, della colpa e dell'orrore), ciò che riconosciamo è un insopprimibile sete di bellezza ideale, di giustizia: qualcosa che fa di questo scrittore il più umano tra i maestri moderni. I suoi reietti sono le figure più alte e più vere della nostra coscienza lacerata tra la disperazione e la speranza, tra l’innocenza e il peccato, e i suoi mari sono la scena più vasta e palpitante del nostro bisogno di nutrimenti ideali capaci di placare la nostra angoscia, di alleggerire i nostri cuori soffocati. Tutto questo ho cercato di illustrare nel mio ultimo libro: Vertigo - L’ansia moderna del tempo (pubblicato da Archinto), in cui parlo anche di Malamud, un altro grande dell’inquietudine, intriso di angoscia ebraica.
Un discorso a parte devo fare per i maestri del romanzo e del racconto giallo, che amo per la loro capacità di evocare temi "conradiani" (l'ombra del male, dell'odio e della follia, la vita come agguato mortale) con tocchi istrioneschi e liberatori (il giallo, come tutti sanno, è un genere esorcistico – il che non significa, di necessità, banale). Tra questi maestri, i miei preferiti sono
Agatha Christie e Raymond Chandler. La prima scrive in un inglese "da conversazione" bellissimo, e conosce in modo magistrale l'arte di ricreare gli ambienti sociali: nella sua opera non mi sembra esagerato riconoscere la lezione di un'altra (pure da me amatissima) maestra di leggerezza: la suprema Jane Austen. Chandler, invece, è grande per la sua capacità di restituirci la modernità americana come mito epico: niente più delle sue scene di gangster, delle sue sparatorie e scazzottature trasuda il bisogno moderno di grandi favole, mentre il suo Marlowe ha in sé un lato tenero e cavalleresco che lo avvicina all'archetipo di tutti i più impossibili cavalieri dell'ideale: Don Chisciotte.

Su che cosa si stanno concentrando attualmente i suoi studi?
Sto, fra l'altro, curando un "Meridiano" Mondadori che raccoglie le opere scelte di
Pietro Citati, e la cui uscita è prevista nel settembre 2005. Citati è, secondo me, uno dei critici-scrittori più originali e di più ampio respiro del Novecento. Abitare la sua opera è un po' come muoversi su una macchina del tempo, che in pochissimi istanti ti può portare in qualsiasi punto dell'universo della creazione. Nessun altro critico moderno ci schiude tante porte, ci invita a tanti viaggi. Questa mobilità è un inno continuo alla scrittura come vitalità, come gioia dell'invenzione, come esplorazione di tutti i possibili: nutrirsi di Citati vuol dire ammorbidire la mente, affrancarsi da tutte le categorie, vivificare l'immaginazione. Nessuno è più in errore (o in malafede) di chi pretende che Citati sia uno scrittore puramente platonico, asserragliato in una borgesiana torre di Babele remota dall'esistenza. In realtà l'opera di Citati coniuga tra loro le corde più diverse: la metafisica, l'ironia e persino la frivolezza (basti pensare a molte pagine dell’Armonia del mondo), il piacere romanzesco e il gusto aforistico (non poche tra le sue definizioni critiche sono formidabili "battute" degne di Wilde o di Cioran), l'ardente passione mistica e il fraseggio delicato delle fiabe, lo scavo negli scenari cruciali della storia e le invenzioni impalpabili della rêverie, lo sguardo profondo e pungente del ritrattista e la mano morbida del disegnatore a pastello. Malgrado la quantità molto ampia dei suoi lettori (i suoi libri sono stati tradotti in mezzo mondo, dall'Europa agli Stati Uniti, dall'America latina a Israele), Citati non è stato ancora capito e apprezzato come merita in Italia. Mi auguro che il "Meridiano" possa contribuire a liberare la sua opera da alcuni luoghi comuni che circolano attorno ad essa; ma non posso non ricordare che scrittori e critici quali Attilio Bertolucci, Manganelli, Calvino, Testori, Praz, Fruttero e Lucentini, Ceronetti e Pampaloni, fino ai più giovani, da Conte a Del Giudice, da Doninelli alla Copioli a Trevi (senza dimenticare stranieri quali John Banville, Ian Mc Ewan, Hector Bianciotti, Marc Fumaroli e Bernard Simeone) hanno, da molti anni a questa parte, testimoniato "a favore" di Citati in pagine spesso assai intense, ricche e convinte. Forse capire o meno Citati è un test: forse solo chi stia davvero, in modo non ideologico, dalla parte della letteratura, forse solo chi sappia riconoscere nella letteratura un nutrimento vitale, un piacere incomparabile e un’odissea della conoscenza, può entrare in risonanza coi suoi scritti.

Doriano Fasoli


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