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Mente e corpo

di Sandro Nannini

 

Il 'problema mente-corpo' emerge nella filosofia moderna con Cartesio: se la mente ed il corpo di una persona sono due sostanze distinte, allora occorre spiegare come possano interagire. Già nell'antichità, tuttavia, i filosofi greci si erano occupati della relazione tra l'anima ed il corpo. Psyché, termine tradotto dai Romani con anima, ha vari significati in greco, ma il significato filosoficamente rilevante, già presente in Omero, è quello di 'soffio vitale'. Il modo nel quale i filosofi greci hanno inteso tale soffio sono, ovviamente con molte varianti, essenzialmente tre:
1) l'anima è una parte del corpo; essa consiste di una materia particolarmente sottile che, agitandosi vorticosamente, dà vita e movimento alle membra (Democrito ed Epicuro);
2) l'anima è qualcosa di distinto dal corpo, che viene a trovarsi in esso prigioniera dopo la nascita, ma se ne libera con la morte; l'anima è eterna e, dopo la morte, rinasce in un altro corpo come insegna la dottrina pitagorica della 'metempsicosi' (Platone);
3) l'anima è la forma del corpo ('ilomorfismo'), è una capacità (una 'entelechia prima') che dà al corpo vita, movimento, sensibilità e (nell'uomo) pensiero; l'anima non è corpo, ma non potrebbe esistere senza un corpo così come una forma non può esistere senza una materia: l'occhio è occhio perché possiede la vista, ma la vista (la capacità di vedere) non può darsi senza l'occhio; l'anima si presenta sotto tre forme: l'anima nutritiva propria delle piante, l'anima sensitiva propria degli animali e l'anima razionale propria dell'uomo (Aristotele).
Cartesio nel XVII secolo rifiuta l'aristotelismo degli scolastici e difende, al pari di Galileo (sebbene in forme molto diverse), una concezione puramente meccanicistica della fisica. In questo contesto critica anche la concezione aristotelica dell'anima. Secondo Cartesio l'anima nutritiva non esiste: la vita è un semplice processo meccanico; gli animali sono delle macchine inconsapevoli di sé. Anche il corpo umano è un meccanismo, ma esso è guidato da un intelletto e da una volontà libera, che Cartesio, volendo prendere le distanze dall'aristotelismo, chiama non 'anima razionale' (o 'sensitiva'), bensì mens: pensiero, ossia coscienza. Anche nel dolore che provo in un piede c'è un elemento di pensiero, perché c'è il mio sentire il dolore, c'è la consapevolezza di provare dolore. E questa consapevolezza non è riducibile a qualcosa di fisico; essa è una modificazione di quella sostanza immateriale che io sono, cioè della mia mens (o esprit, come suonerà la traduzione francese accettata da Cartesio stesso). Da qui poi, da mens ed esprit, deriveranno tutti i termini con cui in tutte le lingue europee ci si riferisce a quello 'spazio interiore' privato e soggettivo che è accessibile solo per introspezione: ad es. mind o spirit in inglese, Geist in tedesco, 'mente' o 'spirito' in italiano (anche se, ovviamente, Geist, 'spirito', spirit e in parte anche mind acquisiranno un significato sovra-individuale con l'idealismo).
L'identificazione cartesiana della mente con la coscienza ha conosciuto un'enorme fortuna; ed anche nel corso del Novecento molti filosofi, pur anticartesiani, hanno continuato ad accettare implicitamente questa identificazione. Già nella seconda metà dell'Ottocento, tuttavia, il filosofo e psicologo austriaco F. Brentano aveva proposto una concezione diversa del 'mentale', secondo la quale gli stati mentali si distinguono dagli stati fisici, perché, a differenza di questi ultimi, possiedono una 'intenzionalità', si riferiscono ad altro da sé: un sasso è un sasso e basta, mentre un'idea, ad esempio, è necessariamente un'idea di qualcosa, ha necessariamente un contenuto. Da Brentano, suo professore a Vienna, S. Freud trasse probabilmente spunto per i suoi concetti di 'inconscio' e di 'preconscio', cioè per l'esistenza di nostre attività, che - pur essendo propriamente mentali, in quanto dotate di significato, e quindi non meramente fisiologiche - non sono tuttavia coscienti.
Ad ogni modo la natura della mente, o del 'mentale', non ha mai cessato, dopo Cartesio, di suscitare interrogativi per i filosofi moderni; interrogativi che essi, in genere, hanno associato strettamente ad un'altra domanda: come può la mente agire sul corpo e viceversa? Più in generale, qual è la natura metafisica, ontologica, del rapporto tra mente e corpo? Le risposte che, riprendendo in buona parte le concezioni degli antichi sull'anima, sono state date a questi quesiti possono essere classificate nel modo seguente:

1) Dualismo (o pluralismo) ontologico (Platone, Cartesio e, in tempi recenti, K.R. Popper per giungere a D. Chalmers). Il dualismo ontologico si presenta sotto due varianti: il 'dualismo delle sostanze' e il 'dualismo delle proprietà'. Secondo la prima variante mente e corpo, pur strettamente uniti e quasi fusi (almeno sino alla morte), sono nondimeno due sostanze distinte e, in linea di principio, separabili (come, ad esempio, la polpa ed il nocciolo di una mela). Secondo il dualismo delle proprietà, invece, mente e corpo sono due proprietà distinte di una medesima sostanza (come, ad esempio, il colore rosso e la forma sferica di una mela). I dualisti si sono in genere preoccupati di garantire la libertà dello spirito rispetto al determinismo della natura. Il dualismo delle sostanze, inoltre, è particolarmente adatto a rendere possibile la credenza cristiana nell'immortalità dell'anima.

2) Materialismo (Democrito ed Epicuro, Hobbes, alcuni illuministi, alcuni positivisti e, in tempi recenti, per un verso i sostenitori del 'fisicalismo' (ad esempio H. Feigl) e della 'teoria dell'identità tra mente e cervello' (ad es. U. Place, F. Smart e D. Armstrong) e, per un altro, gli 'eliminativisti' (ad esempio i coniugi Churchland)). Nella sua versione contemporanea il materialismo afferma che o gli stati mentali sono riducibili a processi neurofisiologici o che, se tale riduzione non è possibile, ciò è dovuto al carattere troppo rozzo dei concetti offerti dalla 'psicologia del senso comune': concetti come ad esempio 'credenza', 'desiderio', 'intenzione', 'passione' ecc. devono essere abbandonati e sostituiti con altri direttamente attinti dalle neuroscienze (ad esempio: attivarsi dei neuroni della corteccia nell'area F2).

3) Funzionalismo (ilomorfismo aristotelico e, in tempi recenti, H Putnam, prima della sua autocritica, J. Fodor, D. Dennett, W. Lycan ecc.). Questa è stata, a partire dai primi anni Sessanta, la concezione del mentale dominante tra gli psicologi cognitivi ed i filosofi della mente. È attualmente ancora molto diffusa, ma è ormai sottoposta ad attacchi pressanti che provengono, da un lato, dagli eliminativisti e, dall'altro, da tutti colori che, negli ultimi trent'anni, l'hanno messa in discussione, insieme al materialismo, sostenendo l'irriducibilità dell'esperienza soggettiva dei 'qualia' (colori, odori, sapori, dolori ecc.) a meri processi neurofisiologici (S. Kripke, T. Nagel, F. Jackson, D. Chalmers ecc.). Il funzionalismo nella sua versione 'classica' degli anni Sessanta, rinnovando (spesso inconsapevolmente e comunque su basi nuove) l'ilomorfismo aristotelico, è un figlio diretto delle speranze suscitate dall'intelligenza artificiale ai suoi albori: sviluppando la cosiddetta 'analogia mente-computer' i funzionalisti infatti hanno sostenuto che la mente è un software implementato dal cervello. Lo psicologo può perciò ricostruire l'organizzazione funzionale del cervello (le tappe mediante le quali l'input sensoriale viene 'processato' dal sistema nervoso fino a determinare l'output motorio), sebbene ignori completamente come tale organizzazione venga realizzata mediante processi cerebrali, così come un programmatore può scrivere i suoi programmi in basic o in windows disinteressandosi di come l'ingegnere abbia predisposto le cose in modo tale che questi sistemi operativi e tutti i programmi in essi scritti possano essere implementati da un certo hardware. La possibilità di sviluppare una psicologia scientifica in totale indipendenza dalle neuroscienze è viceversa ciò che gli eliminativisti trovano assurdo.

Altre teorie del rapporto tra mente e corpo sono state sostenute dai filosofi moderni. Dal Settecento alla prima metà del Novecento particolare importanza ha assunto, a più riprese ma in forme di volta in volta molto diverse e in paesi diversi, l'idealismo, dottrina secondo la quale, detto in estrema sintesi, la materia non gode di una realtà indipendente dal pensiero umano che la concepisce e la conosce. Particolare rilievo ha avuto nell'Ottocento e nei primi del Novecento lo spiritualismo, un misto di dualismo e idealismo. Infine, nella prima metà del Novecento, alcuni filosofi d'ispirazione analitica (in particolare L. Wittgenstein e G. Ryle), riprendendo un'idea già presente in D. Hume (e convergente con la tesi kantiana dell'inconoscibilità dell'anima), hanno sostenuto una forma di 'comportamentismo analitico', secondo la quale i termini psicologici descrivono non stati interni privati e accessibili solo introspettivamente, bensì disposizioni a comportarsi in modi pubblicamente osservabili. Se dico, ad esempio, che il mio vicino di tavola mi ha passato il sale "per cortesia", non intendo dire che un qualche suo misterioso stato interno (la cortesia) ha mosso la sua mano in un certo modo; intendo dire semplicemente che egli è una persona che, anche in passato, si è comportata in maniera cortese. Questa riduzione degli stati mentali a disposizioni comportamentali è tuttavia andata incontro a obiezioni difficilmente superabili: ad esempio il mio mal di denti coincide semplicemente con la mia tendenza a gemere e a tenermi la mano sulla guancia oppure consiste nel mio provare dolore, anche se non lo manifesto? Il comportamentismo è stato perciò quasi completamente abbandonato e sostituito, tra gli avversari del dualismo, o dal materialismo o dal funzionalismo.

 

Sandro Nannini
fonte:  www.imageuro.net

 

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