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Dizionario Religioni

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Religione etrusca

 

Alla base della religione etrusca stava l’idea fondamentale che la natura dipendesse strettamente dalla divinità. Ne conseguiva che ogni fenomeno naturale era espressione della volontà divina; o meglio, un segnale che la divinità stessa inviava all’uomo il quale, a sua volta, doveva fare del tutto per capirlo, scoprirne il significato e adeguarsi ad esso. Comportarsi cioè secondo il volere divino. Tutto il resto era coerente con questi principi, a cominciare dalla stessa concezione della divinità. Questa era essenzialmente misteriosa e coincideva con forze che stavano sopra la natura. In pratica, si trattava di esseri soprannaturali, vaghi ed incerti nel numero; almeno alle origini: giacché su una tale concezione primitiva si innestò ad un certo punto e in parte si sovrappose l’influenza di altre religioni e soprattutto di quella greca.

Il processo di assimilazione delle divinità etrusche agli dei dell’Olimpo greco iniziò nel corso del VII secolo a.C. e giunse a compimento nel successivo secolo VI quando è definitivamente documentata una serie di corrispondenze precise.

Così Tin o Tinia appare assimilato a Zeus, (Giove);
Turan ad Afrodite, (Venere);
Turms a Hermes (Mercurio);
Fufluns a Dionisio (Bacco);
Sethlans a Efesto (Vulcano);
Uni a Hera (Giunone);
Menerva ad Athena (Minerva);
Maris ad Ares (Marte);
Nethuns a Poseidon (Nettuno).

Nello stesso tempo nuovi dei vennero direttamente “importati” dal mondo greco conservando il loro nome appena etruschizzato, come nel caso di Artemis (Diana), diventata Aritimi; Apollon (Apollo), diventato Aplu; di Herakles (Ercole), diventato Hercle; di Castor e Pollux (Castore e Polluce, i Dioscuri) diventati Castur e Pultuce, ecc.
Accanto a tutte queste divinità continuarono però ad essercene di quelle che non trovarono alcun confronto con divinità greche. Tali, ad esempio, la dea Northia, probabilmente del fato, e quel dio Veltuna o Velta (in latino Veltumnus o Voltumna) che, secondo Varrone, sarebbe da considerare come una sorta di dio “nazionale” degli Etruschi.
Continuarono comunque ad esistere numerose divinità minori, anche se purtroppo le nostre conoscenze si limitano a qualche citazione degli autori romani (Varrone, Plinio, Seneca, Marziano Capella, Arnobio); essi parlano di “dei superiori” e “avvolti nelle tenebre”, in numero di dodici; poi di “dei consenti”, consiglieri di Tinia, spietati e senza nome, anch’essi in numero di dodici; di “dei folgoratori”, in numero di nove; di “dei nascosti”, divisi in quattro classi di divinità, del cielo, della terra, delle acque e delle anime umane.
Quanto al rapporto tra gli dei e gli uomini, la convinzione di una costante influenza delle forze soprannaturali sul mondo e sulle azioni umane non poteva che condurre al più completo annullamento dell’uomo di fronte al volere divino. Il rapporto si traduceva così in un monologo della divinità al quale l’uomo rispondeva con un comportamento obbligato. Per fare ciò occorrevano prima di tutto degli strumenti di conoscenza e di ricerca dei segni attraverso i quali la volontà divina si manifestava: i fulmini e certe particolarità o imperfezioni delle viscere di alcuni tipi di animali, eventi insoliti o prodigiosi (boati improvvisi, suoni strani, comete, ecc.). Doveva poi essere disponibile un codice che consentisse la corretta interpretazione dei segni stessi: per capire, ad esempio, se si trattava della manifestazione della collera o della soddisfazione divina, di semplici avvertimenti o di veri e propri presagi. Infine, occorreva che ci fosse qualcuno particolarmente esperto degli strumenti di conoscenza, del codice di interpretazione e delle norme di comportamento.
La religione etrusca era dunque un susseguirsi di atti e formalità ritualistiche, osservate scrupolosamente e minuziosamente compiute. Con una tale intensità e una così costante applicazione da colpire i contemporanei e gli antichi in genere che non esitarono a parlare degli Etruschi come di un popolo molto religioso o, secondo quello che scrive Tito Livio, come di “un popolo che fra tutti gli altri si dedicò particolarmente alle pratiche religiose in quanto si distingueva nel saperle coltivare”.
La dottrina che si riferiva al riconoscimento dei segni, alla loro interpretazione e al soddisfacimento della volontà divina era indicata, in latino, con l’espressione Etrusca Disciplina, traducibile come “scienza etrusca”. I fondamenti di tale scienza erano fatti risalire dagli etruschi all’intervento della stessa divinità, che si sarebbe servita per tale scopo di due intermediari, quali il fanciullo dall’aspetto di vecchio, Tagete, e la ninfa Vegoia. Questi personaggi semidivini avrebbero letteralmente dettato agli uomini parte delle verità soprannaturali e insegnato il modo di avvicinarsi ad esse, con la pratica e i mezzi dell’arte divinatoria. Soltanto un testo originale si è salvato giungendo fino a noi: un manoscritto su tela di lino conosciuto con il nome di “Mummia di Zagabria” perché custodito nel museo di questa città che lo acquisì alla fine del secolo scorso dopo che era stato ritrovato in Egitto, ridotto in bende usate per avvolgere una mummia. Si tratta di un calendario rituale evidentemente portato con sé in Egitto da qualche immigrato etrusco, nel quale figurano elencati i giorni e i mesi dell’anno in cui dovevano compiersi specifici atti di culto in onore di determinate divinità, con l’indicazione delle cerimonie, dei sacrifici e delle offerte da fare.
Per quanto riguarda la “sacra scrittura”, si distinguevano tre grandi gruppi di libri, che nella versione latina erano detti, rispettivamente, Aruspicini, Fulgurales e Rituales.

1. I Libri Aruspicini, attribuiti all’insegnamento di Tagete, trattavano dell’interpretazione delle viscere degli animali.
2. I Libri Fulgurales contenevano la dottrina dei fulmini ed erano fatti risalire alla rivelazione della ninfa Vegoia.
3. I Libri Rituales riguardavano le norme di comportamento da seguire nelle varie circostanze della vita pubblica e privata: di essi facevano parte i Libri Fatales, sulla suddivisione del tempo e i destini e i limiti della vita degli uomini e degli Stati, i Libri Acherontici, sul mondo dell’oltretomba e i riti di salvazione, e gli Ostentarla, sull’interpretazione dei prodigi e dei fenomeni naturali.
Depositaria e responsabile della letteratura sacra ed esperta della disciplina era la casta sacerdotale. I sacerdoti erano normalmente riuniti in collegi e venivano indicati con nomi diversi a seconda del settore del quale erano esperti: con i termini di netsvis e trutnvt, ad esempio, erano chiamati l’interprete delle viscere e quello dei fulmini. Un nome speciale (cepen) designava quelli che erano espressamente addetti al culto, tra i quali il cepen spurana era quello che presiedeva al culto ufficiale della comunità e dello stato. Probabilmente ogni tipo di sacerdote aveva un particolare costume; tutti però avevano come segno distintivo della loro casta il “lituo”, una sorta di scettro dall’estremità superiore ricurva.

 

L’arte divinatoria

Lo strumento di conoscenza per l’approccio ai segni con cui il volere divino si manifestava era la divinazione; un’arte che gli stessi dei avevano insegnato agli uomini e che poggiava sul fondamento teorico della corrispondenza tra mondo celeste e mondo terreno: il mondo degli dei e quello degli uomini.
All’interno di questo sistema, erano fondamentali la definizione e la partizione dello spazio celeste, sede degli dei.
Lo spazio celeste era concepito come suddiviso in sedici parti, quattro per ognuno dei quadranti risultanti dall’ideale congiunzione dei quattro punti cardinali mediante due rette perpendicolari incrociantisi al centro. Secondo la terminologia latina la retta nord-sud era chiamata cardo, quella est-ovest decumanus. Nelle sedici caselle erano collocate le sedi o dimore delle divinità, secondo un ordine che collocava gli dei superiori nelle regioni orientali del cielo; gli dei della terra e della natura verso mezzogiorno; quelli infernali e del fato nelle regioni d’occidente, considerato come il più nefasto.
Dal momento che nello spazio celeste si trovavano le sedi degli dei, il cielo era la fonte di informazione più autorevole e diretta. Esso costituiva quindi il primo e fondamentale ambito di osservazione per ogni pratica divinatoria. Tenendo infatti presente la ripartizione della volta celeste e la collocazione delle singole caselle, si poteva riconoscere, dalla posizione dei segni che si manifestavano in cielo o dal punto dal quale essi provenivano, a quale divinità fosse da riferire il singolo segno e se si trattasse di buono o cattivo auspicio. Il segno più frequente e dunque più osservato nel cielo era quello rappresentato dal fulmine.

 

L’interpretazione dei fulmini

L’osservazione e l’interpretazione dei fulmini era regolata da una casistica alquanto complessa. Grande importanza avevano il luogo e il giorno in cui essi apparivano, ma anche la forma, il colore e gli effetti provocati. Le varie divinità che avevano la facoltà di lanciarli disponevano, ciascuna, di un solo fulmine alla volta, mentre Tinia ne aveva a disposizione tre. Il primo era il fulmine “ammonitore” che il dio lanciava di sua spontanea volontà e veniva interpretato come avvertimento; il secondo era il fulmine che “atterrisce” ed era considerato manifestazione d’ira; il terzo era il fulmine “devastatore”, motivo di annientamento e di trasformazione: Seneca scrive che esso “devasta tutto ciò su cui cade e trasforma ogni stato di cose che trova, sia pubbliche che private”. I fulmini erano variamente classificati a seconda che il loro avviso valesse per tutta la vita o solamente per un periodo determinato oppure per un tempo diverso da quello della caduta. C’era poi il fulmine che scoppiava a ciel sereno, senza che alcuno pensasse o facesse nulla, e questo, sempre stando a quel che dice Seneca, “o minaccia o promette o avverte”; quindi quello che “fora”, sottile e senza danni; quello che “schianta”; quello che “brucia”, ecc. Ma Seneca parla anche di fulmini che andavano in aiuto di chi li osservava, che recavano invece danno, che esortavano a compiere un sacrificio, ecc. Con un tale groviglio di possibilità, solo i sacerdoti esperti potevano sbrogliarsi. Plinio il Vecchio arriva ad affermare che un sacerdote esperto poteva anche riuscire a scongiurare la caduta di un fulmine o, al contrario, riuscire con speciali preghiere, ad ottenerla. Resta da dire che dopo la caduta di un fulmine c’era l’obbligo di costruire per esso una tomba: un piccolo pozzo, ricoperto da un tumuletto di terra, in cui dovevano essere accuratamente sepolti tutti i resti delle cose che il fulmine stesso aveva colpito, compresi gli eventuali cadaveri di persone uccise dalla scarica. Naturalmente, il luogo e la tomba erano considerati sacri e inviolabili ed essendo ritenuto di cattivo auspicio calpestarli, erano recintati e accuratamente evitati dalla gente, quali “nefasti da sfuggire”, come scriveva nel I secolo d.C. il poeta romano Persio originario dell’etrusca Volterra.

 

L’interpretazione delle viscere

Le viscere degli animali di cui si servivano gli Aruspici (dette in latino exta) erano di diverso tipo: polmoni, milza, cuore, ma specialmente fegato (in latino hepas). Esse venivano strappate ancora palpitanti dal corpo degli animali appena uccisi ed espressamente riservati alla consultazione divinatoria e quindi distinti da quelli immolati per il sacrificio. Esse venivano strappate ancora palpitanti dal corpo degli animali appena uccisi ed espressamente riservati alla consultazione divinatoria e quindi distinti da quelli immolati per i sacrifici. Si trattava in genere di buoi e talvolta anche di cavalli ma soprattutto di pecore. Delle viscere dovevano essere prese in considerazione la forma, le dimensioni, il colore ed ogni minimo particolare, specialmente gli eventuali difetti. Quando non rivelavano nulla di apprezzabile per la divinazione, erano ritenute “mute” e inutilizzabili; erano invece “adiutorie” quando indicavano qualche rimedio per scampare ad un pericolo; “regali” se promettevano onori ai potenti, eredità ai privati, ecc.; “pestifere” quando minacciavano lutti e disgrazie.
L’osservazione era più minuziosa nel caso del fegato, dato che in esso, per l’aspetto generale e per la particolare conformazione, veniva riconosciuto il “tempio terrestre” corrispondente al “tempio celeste”. La sua importanza era del resto connessa alla credenza diffusa presso gli antichi che esso fosse la sede degli affetti, del coraggio, dell’ira e dell’intelligenza. Ritenuto che nel fegato fosse esattamente proiettata la divisione della volta celeste, si trattava di riconoscere a quale delle caselle di quella corrispondessero, nel fegato, le irregolarità. Le imperfezioni, i segni particolari o anche le regolarità, e quindi prendere in considerazione i messaggi della divinità che occupava la casella interessata. Per meglio riuscire nell’intento, per l’istruzione dei giovani aruspici, venivano utilizzati degli appositi modelli di fegato, in bronzo o in terracotta, sui quali erano riprodotte le varie ripartizioni e scritti i nomi delle diverse divinità.

 

L’osservazione dei prodigi

La fama di insuperabili interpreti di viscere e fulmini, della quale godevano gli Etruschi, era completata da quella che li riteneva anche esperti conoscitori del significato di ogni genere di prodigi. Il romano Varrone, che desumeva evidentemente da fonti etrusche, riferisce che tra i prodigi si distinguevano l’ostentum, che prediceva il futuro; il “prodigio”, che indicava il da farsi; il “miracolo”, che manifestava qualcosa di straordinario; il “mostro”, che dava un avvertimento. Tra i prodigi più frequenti erano annoverati la pioggia di sangue, la pioggia di pietre e quella di latte, gli animali che parlavano, la grandine, le comete, le statue che sudavano, ecc. In aggiunta alle manifestazioni di carattere straordinario, nelle categorie dei prodigi rientravano anche fatti del tutto naturali: c’erano perciò alberi e animali “felici” o “infelici”, cioè portatori di cattivo o di buon auspicio, piante commestibili che portavano bene e piante selvatiche che portavano male. La casistica era infinita: ad essa tutti prestavano in genere molta attenzione, magari per tradizione o per rispetto della comune opinione.

 

Le pratiche rituali

Dal momento che con le arti divinatorie veniva raggiunta la conoscenza del volere divino, si trattava di dare attuazione a tutto ciò che ne derivava dal punto di vista del comportamento. Occorreva cioè agire sulla base delle norme prescritte dalla “disciplina” e oggetto della trattazione specifica dei “libri rituali”. Tali norme si traducevano in una serie interminabile di pratiche, di cerimonie, di riti. Si dovevano perciò determinare i luoghi, i tempi e i modi nei quali e con i quali doveva essere eseguito quello che veniva chiamato il “servizio divino” (aisuna o aisna, da ais che significa dio), nell’indicazione delle persone alle quali l’azione competeva e, naturalmente, prima di tutto, della divinità alla quale essa era dedicata. I luoghi dovevano essere circoscritti, delimitati e consacrati; i tempi regolati dalla successione cronologica delle feste e delle cerimonie previste ed elencate nei calendari sacri; i modi rispettati fin nei minimi particolari, tanto che, qualora fosse stato sbagliato oppure omesso un solo gesto, tutta l’azione avrebbe dovuto essere ripresa da capo. Nelle funzioni trovavano ampio spazio la musica e la danza; le preghiere potevano essere d’espiazione, di ringraziamento o di invocazione; i sacrifici cruenti riguardavano particolari categorie di animali; le offerte comprendevano prodotti della terra, vino, focacce e altri cibi preparati. Particolarmente diffusa, tanto a livello di religiosità “ufficiale” quanto a livello di religiosità popolare, era l’usanza dei doni votivi. Nel primo caso poteva trattarsi di statue o altre opere d’arte, di oggetti particolarmente preziosi, di prede di guerra e di edifici sacri; nel secondo caso i doni erano solitamente piccoli oggetti, per lo più di terracotta (ma anche di bronzo, di cera e mollica di pane) che i fedeli compravano nelle apposite rivendite presso i santuari.

 

Il culto dei morti

Tra le pratiche di carattere religioso, un posto del tutto particolare occupavano quelle che avevano come destinatari i defunti. Nei primi tempi, esse erano legate alla concezione della continuazione dopo la morte di una speciale attività vitale del defunto. A tale concezione si accompagnava l’idea che quell’attività avesse luogo nella tomba e fosse in qualche modo congiunta alle spoglie mortali. Dato però che tutto dipendeva dalla collaborazione dei vivi, i familiari del defunto erano tenuti a garantire, agevolare e prolungare per quanto possibile la “sopravvivenza” con adeguati provvedimenti.
La prima esigenza da soddisfare era quella di dare al morto una tomba, che sarebbe diventata la sua nuova casa; subito dopo veniva quella di fornirgli un corredo di abiti, ornamenti, oggetti d’uso e, insieme, una scorta di cibi e bevande. Il resto era un arricchimento e poteva variare a seconda del rango sociale del defunto e delle possibilità economiche degli eredi. Si poteva così foggiare la tomba nell’aspetto sia pure parziale o soltanto allusivo della casa, e dotarla di suppellettili e arredi, e magari affrescarla sulle pareti con scene della vita quotidiana o dei momenti più significativi della vita del defunto.
Quanto alle pratiche proprie dei funerali, esse andavano dall’esposizione al compianto pubblico al corteo funebre al banchetto davanti alla tomba.
Tutte queste pratiche, insieme alle cerimonie e ai riti che dovevano essere compiuti in onore di divinità connesse con la sfera funeraria, facevano parte di un autentico culto dei morti, sacro da rispettare e da venerare.
La situazione tuttavia cambiò con il tempo: infatti, per effetto delle suggestioni provenienti dal mondo greco, nel corso del V secolo a.C., alla primitiva fede di sopravvivenza del morto nella tomba, si sostituì l’idea di uno speciale regno dei morti. Questo fu immaginato sul modello dell’Averno (o Acheronte) greco, il regno dei morti, governato dalla coppia divina di Aita e Phersipnai (Ade e Persefone greci).

Giuliana

Fonte: www.skuola.net

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