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a cura di Roberta Marzola - indice articoli

 

 

Decrescita e Terzo Mondo

di Maurizio Pallante

 

Viene spontaneo pensare che se, tutto sommato, un po' di decrescita ai paesi ricchi non farebbe male, come non farebbe male una riduzione dei pasti ai loro cittadini obesi, nei paesi poveri, dove il problema da combattere non è l'obesità, ma la denutrizione, sarebbe un controsenso. A chi ha troppo, anche se per l'economia di mercato non è mai abbastanza, si può proporre di moderarsi, anche perché il troppo è ormai la causa di tutti ì suoi mali, ma a chi ha troppo poco si può proporre di avere ancora di meno? Sfidiamo pure le regole del mercato e a quel 20 per cento della popolazione mondiale che consuma l'80 per cento delle risorse diciamo di frenare la loro corsa e di lasciare qualcosa di più all'80 per cento, che deve spartirsi il rimanente 20 per cento delle risorse, ma il reddito dei paesi poveri non può non crescere se si vuole che escano dalla povertà. O no?
Dopo la caduta dell'Unione Sovietica, che pagava a Cuba lo zucchero a prezzi molto superiori a quelli di mercato, l'economia dell'isola è entrata in crisi e la struttura produttiva agroindustriale fondata sulla monocoltura della canna da zucchero si è disfatta. Gli agricoltori non avevano più i soldi per comprare il carburante per le macchine agricole, i concimi di sintesi e tutte le altre protesi chimiche necessarie alla produzione intensiva. Secondo i dati della Fao, nel 1989 ogni cubano assumeva circa 3.000 calorie al giorno. Quattro anni dopo questo valore era sceso a 1.900. In pratica saltavano un pasto al giorno. Poi qualcosa è cambiato: al posto delle colture di canna da zucchero sono stati piantati migliaia di piccoli orti in cui vengono coltivati frutta e verdura. In mancanza di prodotti chimici il sistema agricolo è diventato di fatto biologico. Al posto dei trattori è stata reintrodotta la trazione animale. L stata vietata la macellazione dei buoi,: l'istituto di ricerca per l'agricoltura ha messo a disposizione il progetto di un aratro multiplo per l'aratura e l'erpicatura. Vengono organizzate fiere dove si vendono gli animali, sono nate botteghe di redini e finimenti. Il numero dei fabbri è quintuplicato. I due terzi delle terre di proprietà statale sono state ridistribuite a cooperative o singoli agricoltori che possono vendere le eccedenze. Dalle 50 mila coppie di buoi presenti a Cuba nel 1990 si arriva alle 400 mila del 2000. Il sistema ha funzionato così bene che oggi i cubaní si sono riappropriati di quel pasto giornaliero che avevano perso.

 

La decrescita economica realizzata col passaggio dalla produzione per il mercato all'autoproduzione per autoconsumo, dalla produzione di merci alla produzione di beni, dalla canna da zucchero alla frutta e agli ortaggi, dalla quantità drogata chimicamente alla qualità dei cicli naturali, ha accresciuto il benessere dei cubani e migliorato la qualità dell'ambiente in cui vivono. Li ha fatti, diventare meno sviluppati e più ricchi. Ora non solo mangiano di, più (da 1.900 a 3.000 calorie al giorno), ma mangiano meglio: più varietà e coltivate biologicamente. Ha ridotto l'occupazione e ha, creato lavoro, ha sostituito il reddito con cui acquistavano ciò che riuscivano a trovare sul mercato con l'autoproduzione di ciò che vogliono. Ha arricchito il patrimonio collettivo del sapere e del saper fare attraverso la riscoperta di mestieri che emancipano dalle fluttuazioni dei prezzi imposti dalle multinazionali in base ai propri interessi. Ora i cubani hanno di più perché sanno di più, Hanno un reddito reale, fatto di beni, che dipende soltanto da1 loro lavoro. Non un reddito aleatorio come quello monetario. Ma sono tornati dai trattori alle coppie di buoi, dai meccanici agli artigiani del cuoio, dai giunti cardanici ai finimenti, dai concimi chimici allo stallatico, dalle scatole di conserva alla passata di pomodoro. È stato un progresso o un regresso?

 

La «rivoluzione verde» è stata uno degli strumenti utilizzati dagli Stati Uniti per contrastare l'influenza esercitata dall'Unione Sovietica sui movimenti di liberazione del terzo mondo. Oltre l'aspetto simbolico della contrapposizione alla «rivoluzione rossa», questo slogan indicava una politica volta a incrementare le rese della produzione agricola nei paesi del sud del mondo mediante l'impiego di fertilizzanti chimici. Sconfiggendo in questo modo la fame, si sarebbe anche sconfitta la tentazione di scelte rivoluzionarie. Del resto la fissazione dell'azoto permetteva, per la prima volta nella storia dell'umanità, di avere grandi quantità di concimi a basso costo, aprendo la prospettiva di entrare nell'era dell'abbondanza. «I risultati non tardarono a venire: le rese del frumento passarono da 0,9 tonnellate per ettaro con le varietà tradizionali, a 4-4,5 nel 1954 e, addirittura, a 6 nel 1964; quelle del riso da 16 a 27 quintali per ettaro dal quinquennio '61-'65 a quello '88'92. [...] Secondo le statistiche della Fao, nel 1998 in Asia l'84% del frumento ed il 74% del riso erano coltivati con tali varietà. [...] Il Messico raggiunge l'autosufficienza per il frumento nel 1956 e diventa esportatore netto di mezzo milione di tonnellate nel 1964. Stessa strada seguirà l'India, esportatrice di frumento da metà degli anni ottanta. Negli anni ottanta venne il turno dell'Africa, fino ad allora non ancora toccata». Eppure, nonostante questa crescita straordinaria dei rendimenti agricoli, la fame nel mondo non è stata sconfitta, anzi il numero delle persone che ne muoiono o sono sottonutrite è aumentato. Come mai?

 

L'uso dei fertilizzanti chimici per accrescere i rendimenti comporta il passaggio da un'agricoltura di sussistenza a un'agricoltura mercantile. Dalla biodiversità per autoconsumo alla monocoltura della specie più redditizia del luogo. I fertilizzanti chimici costano e il denaro necessario ad acquistarli si può avere solo se si vende ciò che si produce, ovvero, solo se si produce per vendere. Ma gli incrementi della produzione che consentono di ottenere l'aumento dell'offerta comportano una diminuzione dei prezzi di vendita. Inoltre impoveriscono la fertilità dei suoli, per cui ne occorrono quantità crescenti. I piccoli produttori si trovano così ad avere costi sempre maggiori e utili sempre minori. Pertanto non sono in grado di sostenere la concorrenza con i grandi produttori, ma non riescono nemmeno a uscire dalla giostra infernale in cui si sono cacciati, perché avendo smesso di autoprodurre per autoconsumo devono comprare tutto ciò di cui hanno bisogno. La crescita è stata la loro rovina e la rovina del suolo da cui prima ricavavano il necessario per vivere. Se restano nella giostra, il denaro che ne ricavano non è sufficiente per acquistare ciò di cui hanno bisogno. Se decidono di uscirne per tornare alla biodiversità e all'agricoltura biologica di sussistenza (indietro non si torna?), devono ricostituire l'humus impoverito dalla fertilizzazione chimica e dalla monocoltura fino alla desertificazione. E ci vogliono anni. Per non parlare dei problemi posti dall'inquinamento delle falde idriche. In uno studio dell'International Labour Organization (Ilo) si legge: «La fame e la malnutrizione aumentano molto rapidamente proprio nelle aree in cui è arrivata la Rivoluzione Verde». Eppure la crescita non sente ragioni. Essere irragionevole, del resto, è nella sua natura. Per accrescere i rendimenti agricoli ora si affida alle biotecnologie e agli organismi geneticamente modificati, i nuovi strumenti della nuova rivoluzione verde che farà entrare l'umanità in una nuova era dell'abbondanza. E critica i danni ambientali causati dall'agricoltura chimica, che aveva sostenuto come strumento dell'abbondanza solo per abbindolare gli sciocchi e magnificare i vantaggi degli ogni che consentono di farne a meno. In realtà i problemi ecologici che avrebbe creato la chimica erano noti, ma erano considerati meno importanti dei vantaggi economici che avrebbe portato. Ora i sostenitori della crescita fanno proprie le critiche ambientaliste alla chimica, che avevano sempre respinto, e si preparano ad abbandonarla soltanto perché le nuove frontiere del progresso scientifico e tecnologico consentono di accrescere la produzione ancora di più. Fra qualche anno un altro istituto di ricerca dirà che la fame e la malnutrizione sono aumentate molto rapidamente proprio nelle aree in cui è arrivata la seconda Rivoluzione Verde.

 

Pierre Rabhi coltiva per autoconsumo da più di quarant'anni un appezzamento agricolo nelle Cévennes del sud. Nato nel 1938 in Algeria, arrivato nel 1958 a Parigi, dopo aver lavorato due anni in un'officina come operaio specializzato ha abbandonato la città per la campagna, dove contava di realizzare una dimensione lavorativa diversa, non finalizzata al profitto, quindi alla massimizzazione dei rendimenti, ma all'autoproduzione. Non a vivere della terra, ma con la terra. Immediatamente si accorse che anche l'agricoltura era stata risucchiata nella stessa logica mercantile della produzione industriale finalizzata alla crescita quantitativa. I funzionari del Credito agricolo gli negarono un prestito di 15 mila franchi (pari al costo di un'automobile di media cilindrata), dicendogli che non volevano aiutarlo a suicidarsi. In cambio gli presentarono alcune fattorie che gli avrebbero consentito di «fare soldi e gli offrirono un prestito di 400 mila franchi per acquistarne una. Gli toccò quindi sperimentare per qualche tempo, come operaio agricolo, le tecniche con cui si facevano soldi in agricoltura: rivestito di tuta, maschera e guanti passava la maggior parte del suo tempo a irrorare di sostanze altamente tossiche l'aria e il suolo.

 

Dopo due anni di questa vita finalmente riuscì, grazie al prestito di un amico, a comprare un terreno da coltivare per autoconsumo, dove iniziò a produrre biologicamente tutto ciò di cui aveva bisogno e a sperimentare tecniche di fertilizzazione naturale più sofisticate di quelle tradizionali, arrivando a trasformare un terreno mediocre in un terreno ricco di sostanze organiche. A lasciare ai suoi figli un luogo migliore di come lo aveva trovato. All'inizio degli anni ottanta decise di trasmettere il sapere e il saper fare acquisito con l'esperienza ai contadini poveri del Sahel, fondando insieme ad altre persone a Gororn-Gorom, nel Burkina Faso, il primo Centro africano di formazione all'agroecologia, dove si insegna ad accrescere la fertilità dei suoli con tecniche naturali e a produrre per autoconsumo, sfuggendo alla trappola della monocultura agroindustriale e della mercificazione.

 

L'Africa è il continente più ricco di risorse del pianeta ed è sottopopolato. Ha una popolazione pari a quella dell'Europa ed è tre volte più grande. è anche tre volte più grande della Cina e ha un terzo della sua popolazione. Ciò nonostante, è il continente dove maggiormente infierisce la povertà. «Certamente - sostiene Pierre Rabhi - ciò dipende dal fatto che da molti secoli le sue ricchezze sono sottoposte a saccheggio. Ma non solo. La miseria endemica che imperversa nel mio continente natale, come del resto nella maggioranza delle regioni definite sottosviluppate, deriva gran parte dall'imposizione a popolazioni che non hanno chiesto nulla a nessuno, di modi di produzione che non sono adatti né ai loro territori, né al loro saper fare, né alle loro forme di organizzazione sociale. La nuova distribuzione modernista, introdotta dalla colonizzazione e perseguita dalla politica del libero scambio, può essere illustrata nella maniera seguente. Quelle popolazioni rappresentano un potenziale produttivo, per cui le si connette al sistema mercantile facendole coltivare prodotti esportabili secondo il procedimento abituale dell'agroindustria: si forniscono loro le sementi e gli input con le modalità d'impiego; dopo la raccolta, il contadino porta le sue balle di cotone alla cooperativa, che le spedisce in Olanda o altrove per commercializzarle; alla fine della catena il piccolo produttore riceve la sua parte del prezzo di vendita diminuito del costo delle forniture. Non controllando né il primo, né il secondo, egli non può allora che constatare la sua dipendenza dall'econornia mondiale e dalle sue fluttuazioni: costo dei concimi indicizzato sul dollaro (ci vogliono tre tonnellate di petrolio per produrre una tonnellata di concime), prezzi delle merci sottomessi alla speculazione, diktat del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale... Siccome nel frattempo la coltivazione dei prodotti alimentari è stata sradicata per fare spazio monoculture (cotone, caffè, arachidi...), finalizzate esclusivamente all'esportazione, il contadino africano si ritrova nell'impossibilità di uscire dal sistema».

 

«Nel Burkina Faso attualmente [2003] quasi 50 mila contadini praticano l'agroecologia. Cosa possono farci i commercianti di concimi chimici? Niente. Hanno tanto meno possibilità di dissuaderli perché essi hanno già subito i fallimenti dell'agricoltura chimica e non hanno nessuna intenzione di ripeterli. Ora questo vivaio di persone a cui ho insegnato e che hanno perfettamente assimilato le pratiche dell'agricoltura ecologica, sciameranno a lo volta nelle loro comunità». L'autoproduzione e il rifiuto di inserirsi nella logica mercantile, l'abbandono della chimica e la scelta della concimazione naturale, la preferenza data ai beni invece che al reddito monetario, alla varietà biologica invece che alla monocoltura, la valorizzazione del locale e la fedeltà alla propria cultura, l'autosufficienza e l'autonomia invece della subordinazione al mercato mondiale, li hanno fatti uscire dalla povertà in cui li aveva cacciati l'imposizione del modello economico fondato sulla crescita della produzione di merci. Il rifiuto della crescita ha accresciuto il loro benessere materiale e migliorato la qualità degli ambienti in cui vivono e da cui traggono da vivere. Sono rimasti sottosviluppati, ma sono più ricchi, perché hanno accresciuto la quantità e migliorato la qualità dei beni alimentari che portano a tavola. E non subiscono le conseguenze delle fluttuazioni dei prezzi sul mercato mondiale.

 

Dicembre 2006

 

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