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Publio Ovidio Nasone

 

Biografia

Publio Ovidio Nasone nacque a Sulmona nel 43 a.C. da famiglia di rango equestre e, giovanissimo, si recò a Roma ove frequentò le migliori scuole di eloquenza e di retorica. Abbandonò tuttavia presto gli studi per dedicarsi alla poesia, sorretto da uno straordinaria facilità a comporre versi (cfr. Tristia IV 10,26). Fece parte del Circolo di Messalla e divenne il poeta alla moda, cantore di una società che, dopo essere uscita dall’incubo dalle guerre civili, assaporava i frutti della pace abbandonandosi al lusso e al consumismo, in palese contraddizione con i programmi di restaurazione morale che costituivano uno dei punti fondamentali del programma di Augusto. Ovidio diede a questa società il prodotto letterario che ne rispecchiava fedelmente i modelli di comportamento e per questo riscosse un successo immediato e strepitoso. Nell’8 d.C., con procedura eccezionale, Ovidio venne relegato da Augusto a Tomi (oggi Costanza), sul Mar Nero, nella Scizia, e nonostante le suppliche sue, della moglie e degli amici, vi rimase fino alla morte avvenuta nel 17 o nel 18 a.C. Sulle vere ragioni dell’esilio, è calata, sin dall’antichità, una fitta e impenetrabile cortina di silenzio e la vicenda di Ovidio costituisce ancora oggi un enigma per la cui soluzione si possono formulare soltanto ipotesi: la più probabile è che Ovidio sia stato più o meno involontariamente complice o per lo meno testimone di qualche grosso scandalo che coinvolse la stessa famiglia imperiale. La produzione di Ovidio è vastissima e comprende varie opere di carattere amoroso come gli Amores , le Heroides, l’Ars Amatoria, i Remedia Amores, di argomento mitologico come le Metamorfosi e i Fasti, di carattere personale come i Tristia e le Epistulae ex Ponto scritte dall’esilio per impietosire Augusto e cercare invano di ottenere la revoca del grave provvedimento.

 

Le opere

 

“METAMORFOSI”

Le "Metamorfosi" ("Metamorphoseon libri XV") sono l’opera più importante e impegnativa di Ovidio, il "poema delle trasformazioni", che l’autore iniziò a comporre intorno al 3 d.C., sono in 15 libri di esametri (unica opera, nella sua produzione, scritta in questi versi), contenenti circa 250 miti uniti tra loro dal tema della trasformazione: uomini o creature del mito si mutano in parti della natura, animata e inanimata. Opera in apparenza disorganica e "barocca", frutto quasi di un'obbedienza eccessiva alle norme della "varietas", le "Metamorfosi" rivelano invero la loro unità nella concezione di una natura animata, fatta di miti divenuti materia vivente, partecipe di un tutto che si trasforma: una natura intesa come archivio fremente di storie trascorse, ove è possibile avvertire la presenza di una creatura mitica in un albero, in una fonte, in un sasso. Numerose possono essere considerate le "fonti" ovidiane: raccolte di miti circolavano in repertori che Ovidio deve aver certamente conosciuto; il tema della trasformazione era poi caro alla letteratura alessandrina (basti pensare a Callimaco e a Eratostene, e poi alle "Trasformazioni" di Nicandro di Colofone e di Partenio di Nicea), ma era stato trattato pure nel mondo latino da Emilio Macro e, occasionalmente, dai neoteroi, da Catullo e da Virgilio (nella poesia omerica era poi il modello di ogni trasformazione: quella, operata dalla maga Circe, dei compagni di Ulisse in porci). E tuttavia nuovo è il risultato dell'operazione ovidiana, che si sviluppa all'insegna della più fervida e colorita fantasia, con uno stile e un metro (un esametro insuperabile per musicalità) che con la loro sapientissima "facilità" sembrano mirabilmente accompagnare la perpetua vicenda delle mutazioni e l'illusorietà delle forme, soggette a continui cambiamenti, in una continuità quasi organica che lega l'uomo alla natura. L'opera, così, inizia dalla più antica trasformazione, quella del Chaos primitivo nel cosmo, sino a pervenire alla trasformazione in astro (= "catasterismo") di Cesare divinizzato e alla celebrazione di Augusto, ripercorrendo in tal modo tutte le fasi del mito e della storia universale, attraverso il motivo conduttore della mutazione continua. Il poeta si dichiara convinto, già nei primi versi dell'opera, di comporre un "carmen continuum", un'opera, cioè, profondamente unitaria, anche - come visto - dal punto di vista "cronologico". Significativo, ai fini degli intenti unitari del poeta, è il discorso che, nel XV libro, Ovidio pone sulle labbra di Pitagora, e che contiene una particolare concezione dell'universo, inteso appunto come luogo di eterna trasformazione. Al di là di questa intelaiatura di indole filosofica, al di là delle dichiarazioni stesse del poeta, le "Metamorfosi", nonostante apparenti disuguaglianze strutturali (per cui, mentre alcuni miti sono largamente esplicitati, altri sono di sfuggita accennati in pochi versi), restano tuttavia un poema unitario e di superiore armonia. Il poeta salda, con rara sapienza alessandrina, un episodio all'altro con legami talora sottili, ma efficaci: ora un mito è richiamato per analogia, ora per identità di contenuto, ora per incastro in altro mito che fa da cornice, ora è esposto da un personaggio di altra vicenda. Un racconto scaturisce dall'altro in una dimensione che pare dilatarsi all'infinito. Dominano nell'opera la gioia di narrare, una gioia morbida, perennemente variata ed elegante; una fantasia ora lieve e sfuggente come un sogno, ora corposa e sensuale, che insiste su scenari contemplati nel loro sontuoso rigoglìo o invece immersi in un'atmosfera di fiaba; un'arte plastica che indugia nel ritrarre la spettacolare storia delle mutazioni che il poeta stesso contempla stupefatto, incantato o addolorato per la sofferenza di creature che cambiano, coscienti, il loro aspetto. Il tutto con un acuto senso della provvisorietà, della mutevolezza di ciò che appare ai sensi e che a un tratto si scompone per diventare altro da sé. Della trasformazione, Ovidio mette in risalto ora il carattere repentino ora, ancor più, la lentezza graduale, il persistere talora sofferto dell'antica natura nella nuova. Dell'essere umano, che si trasforma in essere arboreo o inanimato, il poeta avverte l'intimo dolore, la coscienza di divenire altro in una trasmutazione che sembra investire le radici stesse dell'universo. La natura ovidiana appare percorsa dai fremiti arcani delle tante creature d'amore e di dolore che essa cela nel suo grembo. E’ qui che il mondo di Ovidio, così in apparenza legato alle forme e alle superfici, ai suoni e ai colori, rivela dimensioni insospettate. Sì, certo, in Ovidio il mito, oltre che umanizzarsi, si atteggia a splendida favola, ad affresco fastoso (gli dèi e gli eroi, scomparsa ogni motivazione religiosa del mito, servono solo ad alimentare la sfarzosa immaginazione del poeta); e tuttavia, specie in alcuni casi, il brillante gioco delle superfici s'accompagna, in singolare simbiosi, a una sensibilità inquieta di creature tormentate, che trovano nel trasformarsi l'unica via d'uscita a una situazione impossibile, a una passione assurda: nel divenire altra cosa rispetto a una realtà divenuta umanamente intollerabile, esse ritrovano finalmente il loro riscatto. Cosi è di Biblide, consumata da folle amore per il fratello Cauno, tramutata dal tanto piangere in fonte; così di Mirra, pazza del padre Cinira, che al termine di una sciagurata vicenda chiede agli dèi di venir trasformata in pianta. Accanto al mito, l'amore è dunque l'altro grande tema del poema, ma non l'amore, fatto di corteggiamenti e galanterie, cantato negli "Amores" e nell’ "Ars", bensì l'amore del mito (come già nelle "Heroides"), un amore che conosce un'ampia gamma di modulazioni, dalla passione malata, all'incantamento, alla dedizione generosa, alla fedeltà coniugale: vivido esempio quello di Alcione e Ceice, che solo grazie alla loro trasformazione in uccelli potranno perpetuare per sempre il loro amore coniugale, così come solo la trasformazione in alberi unirà in un vincolo eterno Filemone e Bauci; e in albero d'alloro si trasforma Dafne, la ninfa che Apollo pur continuerà ad amare. Strani, questi amori delle "Metamorfosi", spesso impossibili o abnormi: di Eco, innamorata di Narciso, non resterà che una voce, ma anche Narciso, invaghito di se stesso sino a lasciarsi morire, si ridurrà a un fiore. Sono, in prevalenza, amori fatti sopra tutto di sensazioni, di attrazione per le forme, più che di turbamenti dell'anima: cosi è di Pigmalione, incantato da una statua d'avorio che egli stesso ha scolpito, una statua che sotto le sue mani diviene a poco a poco realtà palpitante di donna viva; cosi è della ninfa Salmacide, che nell'acqua avvinghia con febbrile trasporto le sue membra a quelle dell'amato fanciullo, sino a divenire un'unica, anomala realtà che mai potrà sciogliersi: l'Ermafrodito; così e dell'amore innocente di Piramo e Tisbe, due giovani babilonesi che intensamente si amano, nonostante l'opposizione dei genitori: muoiono entrambi a causa di un tragico equivoco e, per il sangue uscito dai loro corpi, le bacche del gelso (l'albero del loro fatale incontro) da bianche divengono scure. Tutto questo è solo un breve accenno alla costellazione di miti e trasformazioni che puntellano ed impreziosiscono il racconto. Infine, si può deplorare che l'opera non ha potuto avere l'ultima lima del poeta, quando questi subì la condanna. Anzi, essa sarebbe andata perduta (se è vero che Ovidio, in un momento d'ira contro la prosapia d'Augusto da lui pur glorificata, l'aveva gettata alle fiamme), se non fosse stata pubblicata, dietro incarico del poeta stesso da Tomi, a cura d'un amico, che ne possedeva fortunatamente una copia.

 

Altre opere:

Ovidio fu uno scrittore particolarmente fecondo; le sue opere sono raggruppabili all’interno di tre cicli:

 

OPERE ELEGIACHE:

- Amores: tre libri di elegie, che cantano l’amore del poeta per Corinna e altre donne, e raccontano avventure galanti nella cornice della frivola società romana. – Heroides: ventun lettere d’amore immaginarie, scritte da famose donne della mitologia antica ai loro amanti (tre di queste lettere sono accompagnate dalla risposta). – Ars amatoria (o Ars amandi): un “trattato” in tre libri su come conquistare l’amore femminile: si tratta di un vero e proprio codice e galateo dell’amore e della seduzione. – Remedia amoris: è l’antidoto dell’Ars amatoria; in un solo libro Ovidio spiega come evitare le insidie di Cupido, e in che modo liberarsene dopo essere caduti nel tranello d’amore. – Medicamina faciei: testo incompleto (circa 100 versi), dedicato ai cosmetici femminili.

 

OPERE EPICO-MITOLOGICHE:

- Fasti: in sei libri (il progetto originario ne prevedeva dodici, uno per ogni mese dell’anno), vengono presentate le feste del calendario romano, spiegando le origini sia delle stesse festività sia delle leggende, delle tradizioni e delle usanze civili e religiose.

 

OPERE DELL’ESILIO:

- Tristia: raccolta di elegie, in cinque libri, dedicate all’amare esperienza dell’esilio e scritte spesso in tono lamentoso e afflitto, nella speranza di ottenere il ritorno a Roma. –Epistulae ex ponto: vero e proprio epistolario, in quattro libri, che comprende lettere sottoforma di elegie, indirizzate ad amici e familiari; vengono affrontati gli stessi temi dell’opera precedente tra disperazione, pianti e suppliche al fine di ottenere il ritorno. - bis: poemetto di trecentoventuno versi, distici e elegiaci, su questo uccello divoratore di rettili. Il modello è l’omonimo poemetto perduto che il poeta alessandrino Callimaco scrisse contro Apollonio Rodio: anche Ovidio si scaglia contro un ignoto amico infedele, augurandogli una serie di sventure.

 

STILE

Con Ovidio, ‘il più mondano’ e raffinato poeta latino, si chiude il ciclo della grande elegia romana. Egli portò nella poesia l’anima di una società di disfacimento morale, e con le sue morbide e vellutate maniere ne cantò gli impulsi sfrenati, le galanterie civettuole, ecc. Prodigioso improvvisatore, fine conoscitore dell’animo umano, di quello femminile in particolare e delle avventure d’amore, le esperienze vissute nelle figure mitiche, nelle formulazioni precettistiche. Seppe fare del verso la più fedele espressione dello spirito: agile, ricco di modulazioni, fluente e carezzevole, una musica che incanta è il suo distico, col suo giro compiuto di pensiero, con spontanee cadenze, con accorte dislocazioni delle parti, con eufonìa di incontri sillabici e lessicali. Con Ovidio il distico elegiaco raggiunge il vertice della perfezione tecnica. Il dominio assoluto della lingua consiglia il poeta alla scelta sempre finissima di vocaboli, anche di quelli che egli conia espressamente o rammoderna e rinnova, particolarmente nelle Metamorfosi. La tendenza al colorismo espressivo si manifesta soprattutto nella straordinaria flessibilità del linguaggio. La retorica gli ha insegnato le amplificazioni, gli esornamenti, le strutture raffinate e il lusso fraseologico, le sonorità espressive e l’ènfasi. Per quanto riguarda la produzione Ovidiana, egli, ebbe il dominio assoluto e continuo sulla forma. Siccome senza vanteria riconosceva lui stesso, la espressione del suo pensierosi tramutava subito in opera di poesia. Carattere proprio del suo ingegno è una prodigiosa agilità e facilità. La sua lingua è chiara, scelta, precisa: le parole che egli o innova o conia di suo non hanno stento né stranezza, come affatto spontanee sono le cadenze e le consonanze del suo stile. Il verso è fluido e regolare, e il distico acquista con Ovidio la sua perfetta unità ritmica. Con la poesia di Ovidio siamo lontani dalla classica e vigile compostezza di Orazio e di Virgilio; in Ovidio la vena asiana fluisce libera e abbondante accrescendo la modernità di un poeta che era capace di mantenersi tale pure avendo la foga dell’improvvisatore.

Fonte: www.latine.net

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