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Simone Weil

 

Simone Weil nacque a Parigi nel 1909 da una famiglia ebrea. Fu studentessa all'Ecole Normale e insegnante di filosofia in vari licei. Militante dell'estrema sinistra rivoluzionaria, nel 1934, spinta dall'inderogabile esigenza interiore di conoscere direttamente le peggiori condizioni di vita dei lavoratori, troncò la professione e gli studi puramente teorici per lavorare come operaia alla Renault di Parigi: fu un duro ma per lei entusiasmante inserimento nella vita. Ammalatasi di pleurite, fu costretta a lasciare l'officina, iniziando un periodo cruciale di intimo ripensamento. Nel 1936 partecipò come volontaria repubblicana alla guerra civile spagnola arruolandosi nelle file anarchiche della famosa Colonna Durruti, accettando anche i servizi della cucina; ma in seguito ad una grave ustione a un piede dovette rientrare in Francia. Al 1937 risale la svolta mistica, che si traduce in una fede vissuta con grandissima intensità. Esclusa dall'insegnamento in seguito alle leggi razziali durante il regime di Vichy, fece la contadina fino al 1942, quando si rifugiò con la famiglia negli Stati Uniti dove fu molto vicina ai poveri di Harlem. Poco dopo, però, richiamata dall'impegno contro il totalitarismo, tornò in Europa ma nel 1943 morì a soli 34 anni nel sanatorio di Ashford in Inghilterra.
La vicenda umana e intellettuale di Simone Weil appare profondamente segnata dalla vicende dei totalitarismi della seconda guerra mondiale. Il suo pensiero è caratterizzato da un forte principio di realtà, nonché dall'esigenza di ancorarlo al contesto sociale e politico di appartenenza (del quale sperimentava, spesso in prima persona, le condizioni). Weil prende parte in più occasioni alla vita politica degli anni tra le due guerre, intrattenendo vari contatti: ora con i gruppi della resistenza repubblicana, durante la breve e sfortunata partecipazione alla guerra civile spagnola, ora ospitando per un breve periodo il leader antistalinista Trotzkij, nonché organizzando manifestazioni antifasciste di vario genere che le costeranno la segnalazione alle autorità scolastiche e relativi trasferimenti.
L'analisi filosofica di Simone Weil, asistematica e originale, difficilmente collocabile all' interno di correnti tradizionali, ha finito per passare in secondo piano rispetto al vissuto dell' autrice. Tutte le sue opere sono state pubblicate postume. Fra gli ultimi libri pubblicati in Italia ricordiamo: Oppressione e libertà 1956; Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale 1997; La prima radice 1996; Primi scritti filosofici 1999; Piccola cara, lettere alle allieve 1996; Lezioni di filosofia 1999; Attesa di Dio 1998; L'ombra e la grazia 1996; Pensieri disordinati sull'amore di Dio 1984; Quaderni I, II, III, IV . In Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale, un saggio del 1934 ma pubblicato in Italia solo nel 1997, Weil descrive la condizione operaia e fa una critica radicale del capitalismo industriale. All'autrice non sembra possibile cancellare l'oppressione e l'ingiustizia nella società umana. Anche le stesse rivoluzioni tendono a tradire le promesse. Alla base dell'ingiustizia, prima ancora della proprietà privata e dei mezzi di produzione, vi è la separazione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, fra funzioni direttive e funzioni esecutive . Con lo sviluppo dell'economia e conseguentemente della divisione del lavoro, aumenta la dipendenza dell'individuo. Tale dipendenza diviene soggezione al potere. Dopo l'esperienza storica dell'oppressione attuata con la forza delle armi e di quella prodotta dalla ricchezza concentrata nel capitale privato, l'umanità comincia a sperimentare una forma nuova di oppressione determinata dalla divisione del lavoro che costringe l'uomo a forme estreme di specializzazione. Viviamo in un mondo dove nulla è a misura dell'uomo, dove tutto è squilibrio e la società è collettività cieca, trasformata in una macchina per comprimere cuore e spirito e per fabbricare l'incoscienza. Separando il lavoro dalla conoscenza, la società moderna e soprattutto la società industriale, che ha aumentato enormemente la complessità della sua organizzazione, hanno posto le condizioni per un potere sempre più forte che tende a riprodursi anche là dove è stata fatta la rivoluzione. Da qui derivano alcune indicazioni: la società deve essere centrata sul riconoscimento del lavoro, ma di un lavoro nel quale sempre più si compenetrino l'ideazione e la progettualità da un lato e l'esecuzione e la realizzazione, dall'altro. Per Simone Weil la libertà perfetta è un ideale irraggiungibile, noi possiamo tendere solo ad una libertà imperfetta e bisogna tener conto che l'individuo è condizionato dalla necessità. Lo sforzo di affermare la libertà di pensiero si compie all'interno di una macchina sociale in cui sembra perdersi il senso del vivere. La libertà viene concepita come un ideale regolativo, cioè un obiettivo a cui aspiriamo senza poterlo mai raggiungere: proprio come le "idee" kantiane. Ciò non vuol dire che sia inefficace, perché, a differenza dei sogni, gli ideali orientano e muovono uomini e donne, li impegnano a cambiare lo stato delle cose, rendendo meno imperfetta la società. Dopo la bellezza, il tema principale che la Weil sviluppa nelle sue opere è l'oppressione, vista come schiavitù dell'uomo. In Opposizione e libertà Weil scrive che mai come in questo momento l'individuo è stato così completamente abbandonato ad una collettività cieca, mai gli uomini sono stati più incapaci non solo di sottomettere le loro azioni ai propri pensieri, ma persino di pensare. Alla Weil, in pratica, sembra che l'uomo abbia perso la sua umanità e la causa di questo "doloroso stato" è per lei molto evidente. Noi viviamo in mondo dove nulla è a misura dell'uomo, dove vi è una sproporzione mostruosa tra il corpo dell'uomo, il suo spirito e le cose che costituiscono attualmente gli elementi della vita umanitaria, dove, in una parola, tutto è disequilibrio. E all'interno di questa società, l'uomo sperimenta l'impotenza e l'angoscia. La Weil, così, vede la storia umana come asservimento degli uomini. "La società è diventata una macchina per comprimere il cuore" e per fabbricare l'incoscienza, la stupidità, la corruzione, la disonestà e soprattutto la vertigine del caos. Nella storia umana due sono state e sono le principali forme di oppressione:

a) la schiavitù esercitata in nome della forza
b) l'asservimento in nome della ricchezza trasformata in capitale.

Sta per cadere sugli uomini un'altra e nuova forma di oppressione: l'oppressione esercitata in nome della funzione, frutto maturo del lavoro frantumato tipico del Capitalismo. "La rivoluzione è un ideale, un giudizio di valore, una volontà". Di fronte a tutte le forme di oppressione, di fronte a questo stato doloroso, Simone Weil fa appello ad un obbligo eterno: quello verso l'essere umano in quanto tale. L'uomo non può essere oggetto. L'individuo è il valore supremo, un valore calpestato anche dai movimenti che si richiamano a Marx. Ed è proprio perché vuole raggiungere queste alte finalità che non basta Marx con la sua "idea di materia sociale "concepita come" una macchina atta a fabbricare del Bene". Simone Weil aggiunge, inoltre, che la materia sociale lasciata a se stessa produce altre schiavitù. I movimenti sociali ispirati da Marx sono tutti falliti, soprattutto perché hanno ignorato la sola idea preziosa che si trovi nella sua opera, vale a dire il metodo materialista, lo strumento d'analisi dei fatti sociali tramite il ricorso alle cause economiche. La Weil non critica solo il marxismo, ma anche quei movimenti che assumono una sorta di fatalismo e di disinteresse nei confronti di chi al momento soffre, aspettando che una felice catastrofe porti un capovolgimento della società in cui "gli ultimi saranno i primi". Da questo si capisce perché per la Weil essere rivoluzionari significa invocare coi propri desideri e aiutare con le proprie azioni tutto ciò che può, direttamente o indirettamente, alleggerire o sollevare il peso che schiaccia la massa degli uomini. Intesa così, "la rivoluzione viene ad essere un ideale, un giudizio di valore, una volontà e non un'interpretazione della storia e del meccanismo sociale".
Nel saggio L'Iliade o il poema della forza (1939), Weil esalta il modo in cui l'uomo greco viveva la guerra e il suo terribile gioco accordando eguale rispetto al vinto e al vincitore, provando sgomento per la distruzione di una città. Quando gli uomini entravano nel gioco della guerra, diventavano pietre nelle mani degli dèi, ossia cose sotto il "giogo della Forza". Alla fine vince solo la Guerra. La Guerra è una prova della miseria umana, dei limiti dell'essere umano, è l'emergere di una Forza che domina l'anima dell'uomo e la incatena al suo destino immodificabile. Omero è un protagonista senza volto degli avvenimenti narrati ed è obiettivo nei confronti dei vincitori e dei vinti. Ma alla fine tra chi è in grado di infliggere la morte credendosi con ciò libero, e chi invece subisce la morte non vi è differenza. Achille che sgozza dodici adolescenti troiani sulla pira di Patroclo, tanto naturalmente come si recidono i fiori per una tomba, non sfuggirà al destino comune della morte, unica e inesorabile vincitrice. "Anche se ci illudiamo di maneggiarla, la forza si può soltanto subire. Il destino di chi uccide è di essere ucciso a sua volta". La visione greca dell'uomo si prolunga, per la Weil, fino al Vangelo. Ciò che unisce Omero agli Evangelisti è il senso del valore della miseria umana, una miseria vissuta dallo stesso Cristo sulla croce. Una miseria a cui i Greci opponevano la virtù e i Vangeli la Grazia. La liberazione dall'oppressione sociale, pur equivalendo ad una rivoluzione che fa dell'uomo il valore supremo, non è la salvezza o la redenzione dell'uomo. L'infelice è chi prova l'assenza di Dio e che cammina sul crinale di un baratro, motivo per cui o cade o imbocca la via della salvezza. Per la Weil, l'infelicità è un ingegnoso dispositivo della tecnica divina escogitata per far entrare nell'anima dell'uomo "l'immensità della forza cieca, brutale e fredda". Inoltre, l'infelice è chi non vede alcuna luce nella sua vita, nessun senso della sofferenza, nessuno scopo nell'affaccendarsi dell'umanità. L'infelice è distante da Dio, il quale già al momento della creazione si è distanziato dal creato affinché questo potesse esistere. Perciò, per sconfiggere l'infelicità l'uomo deve eliminare questa distanza da Dio, compiendo il cammino opposto a quella della creazione: deve attuare una decreazione, deve annullare il sue essere, deve distruggere il proprio io. L'annullamento dell'io si ha nella sofferenza, nell'umiliazione, nella sopraffazione subita, nell'abbrutimento dei campi di concentramento. La visione della Weil è pessimistica. Viviamo in un mondo dove nulla è a misura dell'uomo, in una società che è stata trasformata in una macchina possente, nella quale l'individuo avverte di essere solo un ingranaggio e che arriva a comprimere il cuore e a fabbricare l'incoscienza. Complessità sociale, gerarchie sociali sempre più chiuse, macchine di potere sempre più sofisticate e oppressive: il crescente pessimismo delle Weil, da lei vissuto come una ferita sempre più dolorosa, non si tradurrà mai in senso di impotenza. Da un lato glielo impedisce la prospettiva religiosa, a cui si aprirà con la conversione al Cristianesimo; dall'altro, l'ansia e la febbre di agire a favore dei ceti subalterni la porteranno, fino all'ultimo, a impegnarsi e a lottare ovunque, con i repubblicani in Spagna o nei quartieri di Harlem a New York, o nella Londra bombardata della Seconda Guerra Mondiale. Simone Weil è pessimista. Vede la società andare nella direzione in cui aumenta lo sfruttamento del lavoro operaio e gli individui vengono sradicati dal loro passato, gettati in una condizione di solitudine e di assenza di valori, mentre si rafforzano le gerarchie e i poteri burocratici, le strutture di comando e le pratiche violente e ci si avvia verso la guerra. Da questa profonda tensione interiore nasce la svolta della fede, che non è, in lei, mai rinuncia alle sue posizioni sociali, ma convinzione che di fronte alla miseria umana occorre intravedere anche una prospettiva ultraterrena di salvezza. La ricostruzione sociale e politica della società deve, quindi, poggiare su basi etico-religiose, su una rigenerazione spirituale di individui e collettività, in cui a una nuova democrazia si accompagni un nuovo radicamento nel proprio passato, nella tradizione, in una società giusta e rispettosa delle persone. Fede, tensione morale e impegno politico non l'abbandoneranno mai, fino alla morte. "La croce è la nostra patria", diceva più volte. Anche la riflessione politica, le varie esperienze di militanza sindacale e politica e l'adesione a posizioni sindacaliste rivoluzionarie, trotzskiste più che marxiste, esprimono una fortissima tensione spirituale, uno slancio ed una ispirazione etico-religiosa, l'intenzione di una scelta esistenziale, quella di stare sempre dalla parte degli oppressi. E' proprio la centralità della scelta etica, nel determinare gli orientamenti dell'esistenza degli individui, la porta a rifiutare, del marxismo, il materialismo e il determinismo economicistico. Simone Weil subisce dapprima il fascino del marxismo di cui tuttavia rifiuta la configurazione teorica dello Stato per il suo autoritarismo. Si occupa di politica fin dagli anni del liceo ma non si iscrive mai ad alcun partito. La sua stessa militanza sindacale e politica iniziale, più anarchica che marxista, trova le sue ragioni in un'ispirazione etica che la porterà a mettersi sempre dalla parte degli oppressi. Diceva spesso che occorreva essere sempre disposti a cambiare per seguire la giustizia, questa eterna fuggiasca. Filosoficamente aderisce inizialmente al pensiero dei suoi docenti e nella sua esperienza di insegnamento ne proseguirà il metodo invitando gli allievi a leggere direttamente i testi dei filosofi anziché i manuali. Successivamente Simone Weil andrà sviluppando il suo pensiero che sarà sempre più caratterizzato dalle esperienze interiori. Gli anni di lavoro in fabbrica danno l'avvio ad una profonda e sofferta riflessione sul senso della propria esistenza, mentre vive l'esperienza operaia come occasione di esperienza interiore. Sono anche gli anni in cui si intensificano quei dolori di testa che la indurranno ad esperire che cosa significa assaporare la morte da viva. L' idea della morte, così presente in Simone Weil, è qualcosa di più del frutto di momentanei scoramenti: attraverserà tutta la sua vita costituendone il vettore di ricerca della verità. Abbandona gradualmente l'interesse più propriamente politico e sospinge sempre più la sua riflessione in direzione del senso dell'esistere, colto nei suoi risvolti religiosi e mistici, senza con ciò rinunciare al tentativo di tradurre il tutto in Pensiero, compito che non delegò mai ad alcuna istituzione politica né ecclesiastica: questo fu uno dei punti fermi che le garantì la coerenza con se stessa. La Weil è un personaggio estremamente significativo per la pregnanza e la radicalità con cui ha vissuto e concretizzato la sua weltanschauung, la sua visione del mondo. Come filosofa certamente non fu capita. Ci fu sempre un maggior interesse per il suo carattere, da molti ritenuto eccentrico ed esemplare e per le sue esperienze personali, piuttosto che per il suo pensiero.

Antonino Magnanimo

Fonte: www.filosofico.net

 

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