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Riflessioni sull'Esoterismo

di Daniele Mansuino   indice articoli

La mia illuminazione

Febbraio 2011
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Mi rifugio in Allah, contro Satana il lapidato nel nome del Dio Misericordioso e Clemente

 

Nell’aprile 2007 un caro amico, Fabrizio Ponzetta, attirò la mia attenzione su un maestro indiano poco conosciuto: Uppaluri Gopala Krishnamurti. Un paio d’anni dopo, cercando su di lui in rete, rimasi molto colpito nell’apprendere che era morto proprio in quell’aprile 2007 a Vallecrosia, una cittadina a pochi chilometri da qui. Non ho idea di cosa ci fosse venuto a fare. Un giorno all’altro mi recherò all’ufficio di stato civile di Vallecrosia e indagherò, e se è sepolto da queste parti porterò un fiore sulla sua tomba.
Nella mia umile percezione, di tanti maestri che l’India ha prodotto nel corso dei millenni, Uppaluri è tra i più grandi. Per lui, il trucco consiste nello spezzare il flusso ininterrotto dei pensieri volti a perpetuare l’inganno della tua esistenza individuale, e ti spiega benissimo come si fa. Però nello stesso tempo ti mette in guardia anche contro l’inganno dell’illuminazione, ovvero contro quei maestri che ti prospettano la meta come un obbiettivo da raggiungere tramite un processo: infatti qualunque obbiettivo dilazionato nel tempo reca come inevitabile conseguenza il rafforzamento del tuo ego, mentre tutto è da trascendere e nulla è da ricercare. Ascolta le voci del tuo corpo, non dare retta al pensiero che traduce il flusso dell’essere in una modalità bipolare: non c’è niente da cercare, va tutto bene qui e ora.
Eppure Krishnamurti 2 (così lo chiamano per distinguerlo da Krishnamurti 1, il più famoso Jiddu Krishnamurti) l’illuminazione l’aveva raggiunta, e come; ma attraverso modalità tali da fargli escludere con la massima decisione che potesse trattarsi del coronamento di un dato percorso. Era una cosa che gli era piovuta addosso da chissà dove, come una grazia se vogliamo, a suo giudizio senza nessuna correlazione con le fatiche cui si era sottoposto quando ancora sperava di poterla ottenere per opere.
Credo che i suoi genuini resoconti della confusione che gli piovve addosso il giorno in cui scoprì di essere un illuminato possano essere annoverati tra le pagine più belle della letteratura esoterica di tutti i tempi: la verità trasuda da quelle pagine, ti salta addosso, ti sconvolge. Mi hanno ricordato un giorno della mia vita che avevo quasi dimenticato, e del quale ho sempre evitato di scrivere su queste pagine - il giorno in cui raggiunsi la mia illuminazione.

 

La prima cosa da dire in proposito è che quando quella specie di esplosione atomica ti scoppia dentro, non porta con sé nessuna manifestazione esteriore: quindi nessuno se ne accorge. Secondo: non illuderti, dopo l’illuminazione, di essere diventato una specie di Budda o Jay Ar che spande carisma a piene mani: se prima la gente pensava che eri un asino o peggio, continuerà a pensarlo ancora di più dopo.
Se tutti avessero chiaro questo punto, sarebbero molti meno – credo – a cercare l’illuminazione. Eppure è proprio così : il carisma personale dipende da caratteristiche individuali, astrologicamente collegabili agli aspetti planetari sull’asse ascendente/discendente. Se avevi un discendente scassato prima dell’illuminazione, ce l’avrai anche dopo; spiegherai alla gente come stanno le cose nel modo più perfetto e appropriato, e la gente penserà ma guarda questo scemo cosa va a inventare.
Terza cosa: per me fu una delusione e temo lo sarà anche per i miei lettori, ma l’illuminazione non assomiglia a quel senso di appagamento che ti prende dopo un buon pranzo con gli amici in una trattoria di campagna; forse troppe immagini ben pasciute del Budda hanno alimentato questa leggenda, ma si tratta di due cose diverse, perché l’illuminazione prescinde da ogni forma di appagamento dei sensi. Quindi non ha niente di piacevole: al contrario, è neutra - è la forza neutralizzante di Gurdjieff elevata al quadrato, al cubo, al miliardo; è una sintesi talmente onnicomprensiva da non aver nemmeno bisogno di una tesi e di un’antitesi formulate.
Se volete trovare nella vostra esperienza quotidiana qualcosa che le assomigli pensate alla noia, a quella noia da cui fate di tutto per sfuggire. Invece provate a cercarla, a concentrarvi su di essa, analizzarla e assaporarla; ad agire con la vostra volontà sul senso di vuoto, di depressione, di angoscia che la noia induce, facendovelo piacere e trasformandolo in nutrimento per l’anima. Se imparerete a farlo, in breve tempo sarete illuminati anche voi, e trasfigurati che vi sarete in una sorta di neon ambulanti naturalmente anche la noia non vi sembrerà più così noiosa; però non figuratevi che diventi qualcosa di divertente o eccitante - non pensate mai all’illuminazione come a qualcosa che possa soddisfare il vostro bisogno di adrenalina - è tutto il contrario, vi disintossica completamente.
Le assenze di riconoscimento sociale e di appagamento sensuale non sono per l’illuminato cagione di eccessivo cruccio, perché le ha trascese; la prima però può generare problemi pratici, perché una delle conseguenze dell’esplosione-illuminazione è la cancellazione della differenza tra te e gli altri, ovvero se vogliamo tra dialogo interno e dialogo esterno.
Io, per esempio, faccio un lavoro a contatto col pubblico che mi pone spesso in correlazione con persone sconosciute, quindi incontrollabili e talvolta ostili. Bene: se già è spiacevole per una persona normale dover litigare e scontrarsi, non vi so dire la penosa impressione che si crea quando sei consapevole di star litigando con una parte di te stesso – la sensazione è strana e indescrivibile, paragonabile a un mal di stomaco o a un mal di denti. Certe volte addirittura pur di porle fine decidi di simulare la rabbia, pur sapendo che un illuminato avrebbe il dovere di diffondere intorno a sé messaggi diversi. Col tempo, subentra una sorta di malinconica compassione nei riguardi del sociale, la tua parte di te stesso malata, dalla quale vorresti separarti per non ritrovarla mai più.

 

Quanto ho appena scritto mi conduce a una rapida deviazione: l’insegnamento di Krishnamurti 2, con la sua totalitaria trascendenza nei confronti del sociale, è forse la testimonianza più autorevole che si possa trovare in favore dell’uso del marxismo come coadiuvante del percorso iniziatico.
Questo perché solo in ambito marxista è possibile riscontrare un taglio netto e deciso tra esperienza sociale ed esperienza interiore; delineato nei minimi dettagli dai concetti di alienazione (di cui dobbiamo essere grati al Marx degli anni giovanili) e di coscienza collettiva (frutto ancor più che di Marx di un misconosciuto gigante del marxismo italiano, Antonio Labriola).
Inoltre, nel marxismo è reperibile un altro utile strumento che nessun’altra filosofia, né esoterica né profana, può dare: una seconda separazione, ancora più nettamente tratteggiata, tra la coscienza collettiva e il mondo della materia (in ambito marxista, sarebbe più appropriato definirlo il mondo della natura; però il termine natura è andata assumendo negli ultimi decenni un significato ruffiano che vorrei evitare, tanto più che materia e natura possono essere considerati quasi sinonimi).
Se anche Budda avesse pensato a inserire nel suo insegnamento qualcosa del genere, il cammino di mezzo sarebbe più facile e rapido; invece per ritrovare anche in ambito esoterico una tale distinzione è più opportuno rivolgersi all’Islam dei Sufi, come attesta (per chi voglia comprenderla) la citazione della salat con la quale ho aperto l’articolo.
Che può tradursi benissimo in questi termini: per giungere all’illuminazione, è necessario operare un taglio netto tra quanto va conservato e quanto trasceso. Quello che va conservato è la percezione del mondo della materia; quello che va trasceso è la coscienza collettiva. La conseguenza è che solo un approccio di tipo materialista – ovvero non inficiato dal tentativo di spiritualizzare in qualche modo la materia – può consentire di distinguere con sicurezza tra quanto è da trascendere e quanto da conservare.
In verità, il verbo trascendere può aprire la strada anche a interpretazioni diverse: per esempio, l’esoterismo tradizionale pone l’enfasi sulla distinzione tra i concetti di Uomo primordiale e Uomo universale, proprio per distinguere tra l’illuminazione che deriva dal mero trascendimento della coscienza collettiva (che è sinonimo di trascendimento del piano della realtà oggettiva, quindi anche di simbolico accesso alla totalità degli stati dell’essere) e un secondo livello che comporta il trascendimento della materia stessa.
Così, a proposito dell’uomo primordiale viene detto:

 

L’androgino primordiale, di cui parlano tutte le tradizioni, dovrà essere considerato come frutto di tutti i complementari. (…) In generale, all’androgino primordiale viene simbolicamente attribuita la forma sferica, la meno indifferenziata, in quanto si estende ugualmente in tutte le direzioni.(…) L’Uomo Primordiale sintetizza tutti gli esseri nella sua umanità pienamente realizzata.”

 

E a proposito dell’uomo universale:

 

“L’insieme dei domini che comprendono tutte le modalità di una stessa individualità costituisce un grado dell’Esistenza Universale, grado che, nella sua integralità, contiene un’indefinità di individui. (…) Ciascun piano orizzontale, quindi, rappresenta un grado dell’Esistenza Universale, comprende tutto lo sviluppo di una possibilità particolare, la cui manifestazione costituisce, nel suo insieme, ciò che si può chiamare un macrocosmo, cioè un mondo.(…) Considerato l’essere come principio della manifestazione, l’Essere Universale sarà la manifestazione integrale delle possibilità che l’Essere comporta.(…) La concezione dell’Uomo Universale potrà essere applicata in primo luogo e più comunemente all’insieme degli stati di manifestazione, ma si potrà renderla ancora più universale coll’estenderla parimenti agli stati di non manifestazione. (…)

 

Se qualcuno non ci avesse capito niente, provo a spiegare.

 

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