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Riflessioni sull'Esoterismo

di Daniele Mansuino   indice articoli

Tuvalu

Settembre 2007
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Erano passati quindici anni esatti da questa conversazione quando, nel novembre 1995, i casi della vita mi fecero sbarcare a Funafuti da un bimotore a elica della Marshall Islands Airline.
Funafuti è un atollo semisommerso, formato quindi a sua volta da una miriade di isolette disposte ad anello (le più importanti: Fualfere, Mulitefala, Amatuku, Fagafale, Faatato, Papaelise, Funafala e Tepuka). Su Fagafale c’è tutto: la capitale dello Stato, l’albergo e l’aeroporto, anche se a dir la verità di posto per l’aeroporto non ce n’è tanto, difatti ogni tanto un aereo casca in mare.
La sera del mio arrivo ero stanco, ma uscii ugualmente dall’albergo per una breve passeggiata. Appena fuori, lo choc visivo fu elettrizzante: a Fagafale infatti non c’è neanche una casa come la intendiamo noi, solo le classiche capanne polinesiane col tetto di paglia a spiovente e aperte sui lati. I passanti che incontravo mi salutavano urbanamente, seminudi e scalzi, con indosso soltanto i lava-lava tradizionali. Presso la cima delle palme erano praticate incisioni verticali sotto le quali era appesa una bottiglia per raccogliere la linfa che rapidamente fermentava producendo il vino di palma detto Toddy; un signore che stava scendendo da una palma mi chiese in ottimo inglese se l’avevo mai assaggiato, e alla mia risposta negativa mi offrì la bottiglia, da cui bevvi un sorso.
Stimando che mancassero ancora circa tre ore al tramonto, decisi di arrivare fino all’estremità settentrionale dell’isola, che distava ad occhio non più di sei o sette chilometri. Dopo dieci minuti che camminavo, un gruppo di operai si informò sulla mia destinazione, e sentenziarono che non ce l’avrei fatta a tornare all’albergo prima del tramonto; uno di loro allora mi imprestò una bicicletta da corsa verde, senza freni.
Con la bici era tutta un’altra cosa: in pochi minuti mi lasciai l’abitato dietro le spalle,  pedalando su un sentiero in terra battuta che si stringeva sempre di più. Anche l’isola, di forma affusolata, diventava sempre più stretta: a un certo punto mi accorsi di essere in grado di scorgere l’oceano su entrambi i lati, al di là dei palmeti e delle capanne.
Esattamente in quel momento, il sole scomparve all’improvviso, e sulla mia testa si rovesciò un formidabile scroscio di pioggia, arrivato furtivamente da dietro le mie spalle. Ma ero attrezzato: portavo allacciato in vita un impermeabile tascabile, e lo indossai. Era arancione.
Andai avanti ancora, sotto la pioggia, nel profumo della polvere che si alzava. Non c’era più anima viva, e intorno a me l’isola era sempre più stretta. C’era il sentiero largo non più di due o tre palmi, ai lati due scarpate di scogli alte circa un metro, ai lati un altro metro per parte di spiaggia corallina, e oltre a quella l’oceano.
Di colpo, un granchio enorme attraversò il sentiero di fronte alla bici, costringendomi a piantare le punte dei piedi in terra per frenare. Sparì alla velocità del fulmine, lasciandomi un’enorme  impressione: era la prima volta che incontravo i granchi giganti del Pacifico. Mi era sembrato grosso quasi come un gatto.
Alzai gli occhi dal manubrio e mi guardai intorno. Il sole al tramonto aveva acceso di rosso un’ampia porzione del cielo plumbeo. Davanti a me, la terra era un filo sottile che si estendeva solo più per qualche decina di metri, e intorno - vicinissimo - l’Oceano Pacifico si estendeva a perdita d’occhio da entrambe le parti, calmo e immobile come una tavola di un cupo blu grigiastro.
Allora ebbi un flash fortissimo, che mi compenetrò in un istante di tutta la surreale assurdità della situazione. Vidi me stesso, con un impermeabile di plastica arancione, su una bici da corsa verde, completamente solo su un filo di terra che correva in mezzo al Pacifico. Sembrava impossibile, eppure era reale. Fui pervaso da capo a piedi da un indicibile senso di consapevolezza di quanto siano eccezionali questi anni che ci è dato di vivere.
Girai lentamente la bici e mi avviai sulla via del ritorno, pedalando piano. Tutto mi sembrava diverso: assaporavo ogni attimo, ogni movimento. Nella luce che andava cancellandosi, le snelle figure dei palmeti mi sembravano circondate da una tremula aura multicolore.
Alcuni minuti più tardi le tenebre erano discese completamente, e persi il sentiero. In un attimo, mi ritrovai completamente circondato dai palmeti e dalla fitta boscaglia. Provai a fare marcia indietro per ritrovarlo, e mi persi ancora di più. Ormai la bici non poteva quasi più muoversi sul terreno ingombro e fangoso: la lasciai appoggiata a una palma e continuai a piedi, cercando di orizzontarmi.
Non ero molto preoccupato: l’isola era piccola, e sapevo che in qualunque direzione mi fossi mosso avrei trovato qualcosa. Le nubi si diradarono e una luna quasi piena apparve nel cielo, diffondendo sulla foresta una tenue luce bluastra.
L’umidità che irradiava dal terreno portava con sé qualcosa di strano: non erano solo i profumi della polvere e delle palme, era qualcosa che dava al cervello: forse gli effluvi della fermentazione.

 

Nello stato di attenzione ipervigile in cui mi trovavo, potevo cogliere come il fluire dei pensieri fosse influenzato da quel sentore particolare: era come se un vapore si levasse dal mio subconscio, condensandosi in nebbia, e in quella nebbia c’erano immagini e voci indistinte.
Compresi che la foresta stava comunicando con me nello stesso modo in cui, da millenni, la natura aveva parlato agli sciamani di tutto il mondo, svelando loro le immagini e i nomi delle forze sottese al velo del mondo manifestato. Se fossi rimasto a Tuvalu per molti anni, ogni notte quelle immagini avrebbero preso forma più distinta e quelle voci si sarebbero fatte più chiare: ne sarebbe nata una cosmologia, da quella un pantheon, dal pantheon il potere di influenzare il corso della natura con magie e riti.
Adesso i tino faivelakau erano intorno a me: li avevo trovati. Con un lampo appena percettibile, presi coscienza di circa due o tre invisibili presenze umane, che mi avevano raggiunto e stavano accompagnandomi nel cammino.
Ricordo che pensai: “Cristo, che pochi: non sono rimasti più di due o tre in tutta l’isola. Bill me l’aveva detto: è proprio un fenomeno in via d’estinzione”.
Dentro di me una voce rispose distintamente, in inglese: “sì, siamo in tre, ma non ci estingueremo. XXX (nome confuso, che non ricordo) è qui a Funafuti: ha ottant’anni ormai, e morirà senza lasciare discepoli. Non lo cercare, perché non vuole parlarti.”
La voce continuò: “ YYY (altro nome confuso) non è qui: sta a Niutao. Ti manda i suoi saluti, ma non è con lui che devi parlare stasera.”
“Con chi devo parlare allora?” chiesi ad alta voce; ma non ebbi risposta.
La cosa più incredibile è che questo discorso venuto dal nulla non aveva causato in me la benché minima emozione: lo avevo ricevuto come la cosa più naturale del mondo, annotando mentalmente ogni parola. Anche dopo, non ebbi tempo di riflettere sulla stranezza della cosa, perché mi ero accorto di essere uscito dalla foresta, e il desiderio di ritrovare al più presto la via dell’albergo aveva prevalso su ogni altra sensazione.
Mi guardai intorno. Mi trovavo su una lunga spiaggia di frammenti corallini bianchi, che sembravano azzurri sotto la luce della luna. Lo spettacolo era magnifico.
Lontano sulla spiaggia, qualcuno stava avanzando nella mia direzione. Lo vidi avvicinarsi nella penombra: un uomo alto, atletico, vestito solo con il lava-lava tradizionale.
Si fermò a due passi. Era alto circa due metri. Il mio sguardo si soffermò fugacemente sul torace bronzeo, da atleta, e si fissò sul suo viso: severo, allungato, era identico in tutto e per tutto alle fattezze di un moai dell’Isola di Pasqua.
Ma non era un’allucinazione: era un uomo reale, in carne ed ossa – potevo sentire il suo fiato, leggermente ansante per la camminata. Mi guardava in silenzio, e anch’io facevo altrettanto, stupefatto: sebbene fossi più volte rimasto sorpreso dall’eccezionale prestanza fisica dei Polinesiani (che a volte non sembra nemmeno terrestre), quello era di gran lunga l’uomo più grande e più bello che avessi mai visto in vita mia.
“Good night” mormorai. Ero incuriosito, ma non spaventato: qualcosa mi diceva che quel gigante non rappresentava per me un pericolo.
Il suono della mia voce gli diede un’impercettibile scossa, come se si destasse da un sogno. Mi sorrise urbanamente, e parlò.
“Dovresti andare a Niutao” disse, col tono di chi riprende un discorso da poco interrotto: e la scossa nervosa che mi causarono queste parole fu la più forte della mia vita, perché era la stessa voce che aveva parlato nella mia mente nella foresta.
“Dovresti andare a Niutao, anche se il viaggio è difficile: ci puoi andare soltanto col vaporetto, che fa il giro delle isole una volta ogni due mesi. E poi dimmi, sai nuotare? Il vaporetto si ferma fuori dal reef, se il mare è un po’ grosso andare a riva a nuoto è l’unica soluzione.”
Sentivo la sua voce allontanarsi; eppure era lì, il suo volto a pochi palmi dal mio. Continuavo a guardarlo negli occhi come ipnotizzato, e sentivo il mio corpo scosso da tremiti.
“Niutao è bella. E’ la mia terra. Ma, non so se ti adatteresti.  Non c’è corrente elettrica: hanno soltanto un generatore, che un po’ funziona e un po’ no. E un’altra cosa: sono rimasti in pochi, ora, non più di quarantacinque persone. Sai, l’uragano del 1971 ha spazzato l’isola da parte a parte, e ne ha portati via molti. Anche i miei figli. Adesso vivono in fondo al mare ”
Sempre più lontano; dovevo sforzarmi per sentire. “Quando andrai a Niutao, cammina da solo nella foresta. Troverai per terra delle carte da gioco: dei re, delle donne. Non devi toccarle: sono io che ce le ho lasciate. Ogni carta è una nazione della Terra, e se le tocchi… (mormorio indistinguibile).”
Il suono della voce tornò per alcuni secondi, rimbombando nella mia mente metallica, come un coro. “A Niutao c’è una spiaggia con la sabbia profumata… sì, profumata. Tu entri nell’acqua di due passi, raccogli una manciata di sabbia e la accosti al naso… Sentirai come profuma…”
Il silenzio cadde all’improvviso, e anch’io caddi in avanti, perché a forza di protendermi verso di lui per sentire meglio avevo perso l’equilibrio. Lo vidi con la coda dell’occhio fare un passo indietro, levare le braccia al cielo, e nell’attimo in cui mi abbattevo sulla sabbia ci fu un lampo e un tuono.
Un attimo dopo, una cascata d’acqua gelida si riversava su di me. Aveva ripreso a piovere, eccome! Mi alzai d’istinto, e seguii il mio compagno che correva a ripararsi nella foresta.
Ansanti, ci fermammo sotto un albero e lo guardai. Era un vecchietto cadente, non più alto di un metro e sessanta, dalla bocca sdentata. Con aria preoccupata guardava in direzione dell’oceano, che da un attimo all’altro si era gonfiato in spettacolari cavalloni; con tonfi violenti si abbattevano sulla spiaggia, e la risacca sfrigolante giungeva fino a pochi passi da noi.
Lo osservai per alcuni secondi, incredulo. Poi gli puntai un dito contro, e in qualche modo riuscii a parlare.
“Lei ha il potere di scatenare la tempesta. E di apparire vecchio o giovane a suo piacimento. E’ lei, signore, il terzo tino faivelakau.”
Il vecchietto si scusò umilmente: mi disse che non parlava bene l’inglese. Ma se gli avessi dato dieci dollari, mi avrebbe mostrato la strada per l’albergo.

 

Daniele Mansuino

 

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