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Sul sentiero - Parte quinta

Anonimo - aprile 2014
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Pensiero, convinzione e “fede”

 

La “pratica” del pensiero porta via via a formare delle “convinzioni”, sulle quali spesso basiamo i contenuti del nostro mondo interiore, le nostre vite e le nostre scelte. Nel momento in cui passiamo da una concezione “casuale” dell’esistenza ad una visione “causale”, ricerchiamo una “convinzione” o una “fede” a cui ancorare la nostra responsabilità e il nostro “fare”.
Ci rendiamo conto allora che vi è una convinzione “ereditata dalle convenzioni”, per cui si afferma, in buona fede, di essere convinti di comportamenti, o di attività che, ad un’indagine più approfondita, si rivelano non scelti con consapevolezza, ma solo ricavati e assimilati più o meno acriticamente dal contesto.
Tale è la “convinzione” dell’uomo ai primi stadi del Sentiero, che non possiede una vera e propria individualità autonoma.

Ma ci si può avvicinare ad una convinzione più adulta quando, venuti meno gli appigli delle religioni e dei condizionamenti sociali e familiari, ci si ritrova in una terra di nessuno. E’ allora che si può parlare realmente di “scelte consapevoli”, nate da una convinzione ponderata nell’approfondimento.
E’ questa la convinzione del Pensatore, che ha sviluppato autonomia critica, e che non è esente da dubbi:

 

La fede non è altro che una fuga dal dubbio.

Occorre molto coraggio per vivere nel dubbio. Non sfuggire il dubbio è una delle qualità essenziali di un ricercatore. La fede ottunde il dubbio, dà sollievo, procura la falsa sensazione di conoscere anche se, in profondità, resta la sensazione di non sapere nulla. Ragion per cui il fedele si sdoppia in due livelli slegati tra loro: in superficie crede in ciò che pensa e in ciò che proietta di se stesso nella vita. Sotto, come una piaga, resta la sua realtà, il dubbio che egli nega, ma che non potrà mai essere sradicato definitivamente. Esiste ed è parte della sua realtà.
Ecco perché il fedele vive sempre in uno stato di continuo conflitto, è schizofrenico, basta un’inezia che si contrapponga al suo credo, e subito riaffiora il dubbio.

(Osho)

 

La convinzione può nascere, a questo punto:

  • da una chiara visione interiore, maturata dal confronto “intellettuale”  tra diverse teorie valutate scientificamente (es. comparazioni tra scoperte scientifiche e affermazioni teosofiche);

  • semplicemente, dall’adesione immediata e “riconosciuta come vera” a un impianto teorico che si sente affine e particolarmente trainante.

La convinzione, come il “dire”, per essere coerente, deve essere tradotto in “fare”.

 

La prassi può riguardare un “fare “ quotidiano, routinario e materiale, volto all’utile immediato; la convinzione è, in tal caso, per la maggior parte in relazione alla fiducia nelle possibilità del compimento efficace dell’azione.
Il “fare” può assumere contenuti e valori più alti, divenire, cioè, un “fare profetico” volto all’Utile dell’umanità, al maggior Bene per tutti; pensiamo alle azioni di riformatori sociali e religiosi, utopisti, scienziati dotati d’intuizione, letterati di genio, poeti (da “poiéo”, faccio).
In tal caso, la convinzione sarà più attentamente valutata dai partecipanti all’azione ed esaminata da vari punti di vista: dell’efficacia, dell’etica, delle relazioni implicate, del lavoro richiesto e dell’impegno finanziario…

 

Una Prassi “convincente” per essere tale dovrà:

  • proporre un  chiaro  progetto delle attività

  • manifestare  il fine e le “fonti” ideologiche del progetto

  • proporre la condivisione del progetto ad altri, seriamente motivati

  • condividere l’impiego, di tempo, di focalizzazione e di impegno economico con gli altri, ciascuno secondo le sue possibilità

  • dare e richiedere chiarezza e trasparenza per quanto riguarda:

  1. gli obiettivi, che dovranno essere razionali e comprensibili

  2. le tappe per realizzarli

  3. le procedure

  4. la funzione e il ruolo di ciascuno

  5. le relazioni tra le persone

Venendo meno questi semplici requisiti, il fare, non più connesso alla convinzione, si ridurrebbe a velleitarismo o gregarismo e determinerebbe disorientamento, confusione, difficoltà di condivisione e la sensazione di “essere venuti meno a se stessi” per aderire a qualcosa di esterno e/o di poco chiaro e/o che non si è pronti a comprendere.
Accade spesso che aspiranti-ricercatori avvertano lo stimolo incalzante a “fare”, ma sono al tempo stesso paralizzati da un senso di scarsa convinzione nelle proprie azioni e, talvolta, da una sensazione di “relativismo” e/o di “vacuità del tutto”; pertanto molti cercano, pur di agire, di accantonare il problema della “convinzione” rifugiandosi nell’ “obbedienza” (è più semplice obbedire che essere convinti!).

Convincere deriva da “con” e “vincere”, è quindi legato al vincere e alla vittoria: ma da cosa, ci si chiede, si può essere vinti se non dall’evidenza o da una certezza sperimentata?
Ad alcuni fa paura o sembra ingenuamente illogico e infantilmente “romantico” puntare, come in un gioco rischioso, la cosa più importante che possiedono, la propria energia, su una probabilità, o sul “male minore”.
Considerano non accettabili eticamente i rischi autodistruttivi alla Hemingway e i giochi d’azzardo, ancor meno quelli giocati con l’esistenza, propria e degli altri (la fede come “salto nel buio”): non ci si può dedicare “con ardore”, con sforzo, con sacrificio, con amore, ad un’Opera senza sentirla come “piena di verità”, carica di senso, utile all’evoluzione.

In verità, più che tendere ad una razionale “convinzione”, parola ambigua, molti aspiranti-ricercatori “invidiano” chi ha “fede”, e quindi ardore; amano inoltre il termine “certezza”, che definisce la “verità” conclusiva di una tappa del cammino. Tale punto d’arrivo è pur sempre ovviamente parziale e transitorio, se si considera l’intero percorso.
In questa nuova consapevolezza, il termine “Certezza” evoca azione lucida e chiara, priva di dubbi “paludosi”; essa genera, senza sforzo:

 

  1. un “fare” consapevole, intuitivo, rapido e attento (“si sa e si fa”);

  2. una virtù umile e poco decantata, ma forte e vittoriosa: la Coerenza, che non va comunque confusa con rigidità, orgoglio e fanatismo.

Afferma a questo proposito il Maestro Aïvanhov:

 

Qualcuno afferma con fierezza: «Io ho delle convinzioni e le difendo!» In effetti, lo si vede battagliare coraggiosamente contro coloro che non sono del suo avviso.
Non si può rimproverare alle persone di avere delle convinzioni, ma qualche volta dovrebbero chiedersi se esse valgano, e se non sarebbe utile riesaminarle.
Dal punto di vista della saggezza, l'atteggiamento di certe "persone di fede" è piuttosto di orgoglio o di stupidità, e le conseguenze possono essere terribili: il fanatismo, la crudeltà. Si può essere convinti e commettere i peggiori errori: il fatto di essere convinti non trasformerà un'opinione erronea in una verità.
«Ma allora - mi direte - come facciamo a sapere quanto valgono le nostre convinzioni?» Se esse vi rendono migliori, più generosi, più lucidi, più comprensivi nei confronti degli altri, allora conservatele. Ma se non è questo il caso, non avete nulla di cui andare fieri: cercate di rivederle con severità.

(Omraam Mikhaël Aïvanhov, Pensieri quotidiani)

 

Il Risveglio e la “Virtù”

L’individuo risvegliato che ha sviluppato il pensiero e che si è aperto al concetto di “connessione globale”, avverte chiaramente la sua responsabilità, appunto, “globale” e inizia a comprendere che, per meglio servire, dovrà sviluppare le “virtù”:

 

Quante persone riflettono veramente sul significato del proprio passaggio sulla terra? Sì, quanti si chiedono: «Cosa ci faccio qui? Perché sono qui?» I più si comportano come se non avessero niente di meglio da fare che cercare di trascorrere il tempo nel modo più piacevole possibile. Pochissimi sono coscienti che le poche decine di anni date loro da vivere vanno considerate come un tirocinio. Sì, un tirocinio durante il quale il Cielo chiede agli esseri umani di imparare e di migliorare se stessi, ossia di lavorare sul proprio carattere, poiché questa è la sola cosa che rimarrà loro e che porteranno con sé nell’altro mondo…

Il discepolo di una Scuola iniziatica comprende di dover lavorare su alcune qualità che rimarranno in suo possesso in eterno; e quando ritornerà, in un’altra incarnazione, il Cielo gli darà condizioni migliori e mezzi più efficaci per continuare il suo lavoro.
(Omraam Mikhaël Aïvanhov, Pensieri quotidiani)

 

Il termine “virtù”, così alto e nobile, oggi appare spesso vagamente fuori tempo e talvolta retorico: si preferiscono termini come abilità, capacità, o, al massimo qualità morali (da morem, costume, comportamento). “Virtus” deriva da vir, uomo, e indicava presso i latini le qualità del vero Uomo secondo i valori predominanti del tempo, e cioè forza, ardimento in guerra, coraggio nella vita pubblica e privata, fedeltà alla Patria e al proprio duce, abilità nel dominare il mondo, soprattutto quello esterno. Il termine homo indicava invece l’uomo in senso generico, comunemente inteso.
Con il Cristianesimo, che ha svolto spesso il compito di  “interiorizzare”, incivilendoli, valori e lessici, il termine ha subito un mutamento nel suo significato più profondo e di “orientamento”, rivolgendosi all’interno: “virtuosus” non è più l’individuo forte e potente, rivolto al dominio dell’esterno ma l’uomo nuovo, che combatte i suoi draghi interiori per favorire la nascita del Cristo all’interno della sua anima.
Da allora, "vir" non fu più il valido “miles” che combatte “fuori”,      sprezzando il pericolo e mettendo a repentaglio la sua stessa vita per il trionfo di Roma ma il “soldato di  Cristo”  che  combatte, oltre che  fuori, soprattutto  “dentro”  di  sé  per eliminare   ostacoli  e   dissipare     ombre  affinchè   prevalga  la   Luce   spirituale. Quest’ultimo senso del termine -  più o meno impregnato di sacralità - è rimasto fino ad oggi: siamo tutti eredi dell’interiorizzazione incivilente operata dal Cristianesimo. Per il discepolo, le virtù sono, ieri come oggi, i riferimenti di base costanti che sostengono la sua focalizzazione nell’Ideale e al tempo stesso il fine del suo Lavoro interiore; una volta realizzate per buona parte,  esse diventano qualità propedeutiche indispensabili per l’attuazione di ogni Lavoro evolutivo.
Le virtù sono, in sintesi, raggiungimenti dell’anima che sempre più risponde alla voce del Sé superiore, sostituendo gradualmente il superiore all’inferiore. Il processo non può avvenire se “imposto dall’esterno” poiché il risultato sfocerebbe in comportamenti superficiali, temporanei o farisaici: esso dovrà essere maieutico e avvenire in concordanza con elevazioni interiori stabilizzate e irrevocabili, dopo le quali i “vizi” con cui la persona ha convissuto prima della con-versione appaiono chiaramente disgreganti e portatori di morte.
L’aspirante-studente comprenderà con sempre maggiore chiarezza che solo migliorando se stesso potrà “svolgere la sua parte” per cooperare a fare della Terra un “Pianeta sacro”; il suo impegno sarà proporzionale allo sviluppo del suo senso di amore e responsabilità per il Pianeta. Avvertendo con sempre maggiore intensità il “grido di dolore” dell’Umanità, sentirà la conoscenza e la trasformazione di sé come la sua forma essenziale e “propedeutica” di Servizio: il suo Lavoro di discepolo effettivo (“discepolo accettato”, cfr. “Il discepolato nella Nuova Era di Alica A. Bailey) sarà tanto più esteso ed efficace quanto più lo sarà la sua vibrazione, che si eleva purificando pensieri, moventi e azioni.
All’inizio, e per lungo tempo, l’aspirante-studente - pur avvertendo sotterraneamente la necessità del Lavoro - tenterà di evitare lo sforzo della tras-mutazione dolorosa dei propri lati oscuri con i consueti mezzi della personalità: rifiuto di parti di sé, rabbia e negazione della realtà, tolleranza, assoluzioni e giustificazioni, compromessi, autocompiacimento riguardo ai propri vizi, spesso ritenuti “simpatici” o “accettabili” ecc.)
Il processo, fermo e costante (bisogna “avere pazienza con se stessi”, consigliano gli Istruttori!) consigliato anche da Assagioli, è quello della “sostituzione” graduale di nuovi pensieri e nuovi comportamenti a vecchi copioni inconsci, ripetitivi e distruttivi, facendo attenzione a usare frasi affermative, prive di “non”: l’inconscio obbedisce automaticamente ai termini che pronunciamo e agisce di conseguenza! Così, ad es., invece di dirsi, “non voglio più essere fragile e timoroso” ci si potrà rivolgere alla propria sub-personalità “da coniglio” affermando “divento sempre più coraggioso, il coraggio fa sempre più parte di me”, e “sentendo” realmente dentro di sé il cambiamento come possibile e costruttivo.
Mediatrice indispensabile nel processo è la Grazia: il vizio si dissipa e svanisce al cospetto del cuore puro del discepolo invocante più che se egli si impegnasse in una dura lotta solitaria e “solamente umana”.
Indicativo, questo proposito, il simbolismo dell’ottava fatica di Ercole, l’uccisione dell’idra di Lerna: il discepolo-Ercole, combatte con rabbia e irruenza ma trionfa infine solo quando, comprendendo che “ci si eleva inginocchiandosi”, invoca la Grazia come alleata.
Si riporta a questo proposito un’elaborazione della ottava fatica di Ercole (cfr. “Le fatiche di Ercole” di Alice A. Bailey).

 

L’UCCISIONE  DELL’IDRA  DI LERNA

 

Narrazione

Nella malsana palude di Lerna vive l’idra, una piaga per la campagna circostante. Ha nove teste, una delle quali immortale, mentre le altre rinascono appena recise.

Dopo i primi assalti andati a vuoto, Ercole ricorda quello che aveva imparato prima di intraprendere la prova: “Noi ci eleviamo inginocchiandoci”.
Egli pertanto si inginocchia e tiene l’idra al di sopra della sua testa affinché l’aria purificatrice e la luce possano vincerla.
Infine mozza la testa immortale dell’idra e la seppellisce.

 

Lettura simbolica

Il segno dello Scorpione rappresenta la lotta con le aree sotterranee della coscienza dove ristagnano desideri e impulsi egoistici.
L’idra simboleggia la regione del subconscio che deve essere illuminata e purificata prima che l’uomo possa proseguire il suo cammino.
Fino a che Ercole combatte nel pantano, fra il fango e le sabbie mobili, è incapace di vincere queste forze.
Inginocchiato nel fango, in tutta umiltà, egli ricerca una luce più potente di quella che proviene dalla mente analitica; eleva il suo dramma ad una luce superiore, riuscendo così a sottomettere l’idra.

 

Esortazione

Sconfiggi, o Ercole, l’idra del tuo subconscio, estraendola  dalle profondità della tua anima.
Vigila poiché le teste dell’idra possono ricrescere, così come in noi possono rinascere tentazioni e vizi che credevamo estinti.
Per sconfiggere il mostro àrmati di:

  • umiltà, per scoprire e riconoscere le tue carenze;

  • coraggio, per attaccarlo;

  • discriminazione, per trovare la tecnica da usare nel trattare il tuo mortale nemico. Solo esponendo la tua idra interiore alla Luce potrai illuminare il tuo interno e la chiarezza derivatane ti permetterà di elevarti.

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