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Filosofia della Medicina

Filosofia della Medicina

di Federico E. Perozziello
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Il dolore come dimensione personale e sociale

Giugno 2011
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Il padre di Munch, Christian, era medico e animato da un’accesa  filantropia. Lo conduceva con sé fin da bambino durante le visite ai malati dei quartieri più poveri della città. Questo precoce contatto con la malattia influì profondamente sullo  spirito e la  sensibilità del piccolo Edvard. Il dolore, la morte e l’angoscia che da queste scaturiva diverranno caratteristiche frequenti della sua pittura. La vita di Munch  fu segnata da una malattia in particolare: la Tubercolosi. Un’infanzia che venne attraversata da due gravi lutti, quello per la morte della madre, quando Munch aveva solo cinque anni e più tardi quello per la malattia e la morte della sorella maggiore, avvenuta a soli quindici anni. Quest’ultimo evento gli ispirò l'opera La bambina malata. Le due donne morirono entrambe di tubercolosi e il padre di Munch si ammalò di depressione. Da medico si rimproverava di non essere stato capace di modificare il destino dei suoi cari. (3, 4)

Munch restò segnato per sempre da questa tragedia, che contribuì all’instabilità emotiva del suo carattere e a formare una sensibilità unica. Ecco come Munch descrisse l’esperienza esistenziale che lo portò a dipingere il celebre quadro l’Urlo:

 

“... Una sera passeggiavo per un sentiero, da una parte stava la città e sotto di me il fiordo. Ero stanco e malato. Mi fermai e guardai al di là del fiordo. Il sole stava tramontando e le nuvole erano tinte di un rosso sangue. Sentii un urlo attraversare la natura: mi sembrò quasi di udirlo. Dipinsi questo quadro, dipinsi le nuvole come sangue vero. I colori stavano urlando ...”

 

L’anatomia, la fisiologia e la fisiopatologia da sole non bastano a spiegare compiutamente le differenze di comportamento davanti al dolore. L’importanza del dolore è caratterizzata da quello che avverte l’individuo nello specifico momento in cui viene colpito dalla sofferenza. Il modo in cui l’uomo vive la sua cultura, i valori che caratterizzano quest’ultima e lo stile con cui egli affronta il Mondo, tutti questi fattori compongono la modalità con cui egli affronta il dolore. L’esperienza di chi assiste un ammalato è perfettamente consapevole di come un approccio attento alla sofferenza del paziente possa dare un primo sollievo alla sensazione di dolore.

La condivisione empatica della sua malattia può rappresentare il primo momento terapeutico. Il dolore è dunque un fatto intimo e personale, che possiede anche una dimensione sociale. E’ influenzato dall’educazione, cioè da altre modalità di vedere e affrontare l’esistenza che sono state trasmesse alla persona e che si rendono a loro volta tramiti e mediatrici tra chi assiste e il malato.

Nella tradizione filosofica originata dagli scritti di Aristotele (384-322 a.C.), il dolore era concepito come una forma particolare di emozione. Si trattava di un concetto espresso nel II libro dell’Etica a Nicomaco, un’opera divisa in dieci libri e così chiamata perché fu il figlio di Aristotele, di nome Nicomaco, a raccogliere le lezioni su tale argomento tenute dal padre. L'Etica fu pubblicata per la prima volta molto tempo dopo la sua stesura e unita ad un commento a lei organico. Entrò a far parte del Corpus delle altre opere aristoteliche redatto dall’erudito e filosofo Andronico di Rodi intorno al 40 a. C..  I primi due libri dell'Etica aristotelica erano dedicati a definire l'oggetto della ricerca morale, considerata come il bene maggiore ottenibile dall’uomo. Una conquista intesa non in senso astratto, ma come il massimo dei beni che un essere umano potesse acquisire e realizzare attraverso l'azione. Per Aristotele l'etica era una scienza eminentemente pratica e risultava utile all’uomo per vivere in armonia con i suoi simili e con sé stesso. (5)

A partire da Cartesio e con l’avvento della filosofia meccanicistica, la riduzione del corpo umano a un modello bio-meccanico rese molto più semplice definire il dolore, privandolo di molte delle sue connotazioni spirituali. La parte a carico del corpo nel costruire la sensazione del dolore restava in secondo piano, oppure era vista come un semplice effetto di saturazione sensoriale. Attraverso gli studi e le esperienze di Giovanni Alfonso Borrelli (1608-1679) e Marcello Malpighi (1628-1694) il dolore veniva sminuito a una stimolazione di particolari terminazioni nervose, che lo veicolavano al cervello. Un’interpretazione quest’ultima presente anche nella visione più ideologica e certamente più dirompente di  Julien Offroy de La Mettrie (1709-1751), autore del celebre e per quei tempi scandaloso libro, L'uomo macchina,  uscito nel 1748. Un testo perseguitato dalla Chiesa cattolica francese e fatto stampare per questo motivo dal suo autore nella più liberale Olanda calvinista. (6)

Oltre un secolo dopo, attraverso la scoperta dell’Inconscio, Sigmund Freud (1859-1939) e Joseph Breuer (1842-1925) riveleranno la presenza di altri tipi di dolore, non solo legati ad alterazioni di natura fisica e biologica, alla conformazione anatomica delle vie di  trasmissione nervose e alla natura delle diverse sensazioni di sofferenza. Paradossalmente il giovane Freud, lo scopritore dell’inconscio, aveva incontrato Breuer nel 1880 presso l’istituto di Fisiologia di Ernst Wilhelm von Brüke, un neurofisiologo sperimentale dell’Università di Vienna che Freud considerò sempre come un maestro. Il rapporto con Breuer fu molto importante per Freud. Il collega più anziano esercitò su di lui un influsso positivo, stimolando l’emulazione, la concorrenza scientifica e quella intellettuale nel suo più giovane collega.

La prima persona ad essere curata con la nuova tecnica basata sui colloqui del terapeuta con il paziente in stato di rilassamento, tecnica che proprio Freud aveva ideato, fu la celebre Anna O., una giovane donna il cui vero nome era Bertha Pappenheim e che soffriva di un’importante sintomatologia composta da paralisi intercorrenti e disturbi della visione e della parola. La paziente riferì di aver tratto giovamento dal raccontare ai medici il suo tormentato vissuto esistenziale, perché il narrare le proprie esperienze passate senza freni inibitori le aveva permesso di alleviare lo stato conflittuale e di intima sofferenza che le impediva di avere un rapporto equilibrato con la realtà e le persone. (7)

Appurato che si poteva soffrire anche per malattie, come l’Isteria, generate da problemi inconsci, la conoscenza del fenomeno dolore si espandeva verso orizzonti meno definiti di quelli di una semplice reazione fisica a uno stimolo bio-meccanico. Anche se oggi appare più frequentemente chiaro come il dolore non sia solo una lesione di un organo, cui consegue un’accentuazione di alcune sensazioni, non sempre la complessità della percezione dolorosa risultò ben compresa. Il dolore risulta ancora oggi meglio descrivibile come una lesione subita da una funzione percettiva comprensibile e investigabile del corpo umano, piuttosto che in quanto sensazione dotata di una vita autonoma e di incerti confini di collocazione spaziale e temporale. (8, 9)

Una valutazione puramente biochimica e meccanica del corpo umano ha per lungo tempo tenuto in un secondo piano la componente culturale e quella affettiva del dolore. La visione  riduzionistica e settoriale del corpo, propria della medicina moderna, la quale si basa unicamente sulla scienza sperimentale e affronta le malattie in un’ottica settoriale e specialistica,  ha comportato che ci si sia impegnati maggiormente nella ricerca delle vie neurologiche del dolore, piuttosto che nello studio delle sue relazioni umane e sociali. Occorre fare una distinzione tra dolore e sofferenza, termini che non sempre possono rappresentare la medesima entità. Con la parola dolore intendiamo di solito una sensazione spiacevole, accompagnata da un’esperienza emotiva di risposta a un danno reale o potenziale subito dall’integrità del nostro corpo. Attraverso il termine sofferenza invece, si può definire la comprensione di una diminuzione della nostra ricchezza affettiva. Un accidente negativo, una ferita psicologica che colpisce la persona e che contempla lo spostamento di un fenomeno  dalla fisiopatologia verso il centro della coscienza morale dell’Individuo.

Il dolore sembra essere un fenomeno specie-specifico. Pur ammettendo che anche altre specie viventi possano provarlo, la considerazione che il soffrire riveste per gli animali non sembra interessare particolarmente gli esseri umani. La capacità di provare dolore e sofferenza viene riconosciuta solo a chi possiede gli strumenti intellettivi e culturali, veri o supposti tali, giudicati idonei per apprezzare e vivere la differenza tra benessere e sofferenza in un contesto di socialità umana.

L’opinione pubblica, sorretta spesso dalla religione, non risulta particolarmente turbata dalla necessità di pratiche come quella della vivisezione o della chirurgia sperimentale, per non dire dalla macellazione a fini alimentari di tanti esseri viventi, che rientra nella più ovvia delle consuetudini della vita materiale.

Come si potevano conciliare il male e il dolore presenti nel Mondo con le disgrazie che potevano colpire un innocente? Si potevano ipotizzare diverse spiegazioni nel manifestarsi del male verso un innocente. La più semplice consisteva nell’ignorarlo, nell’attribuire il tutto alla mera fatalità e confidare pertanto in una visione atea dell’esistenza. Oppure ci si sforzava di comprenderlo attraverso il principio della Giustizia Retributiva, che privilegiava i comportamenti virtuosi e puniva quelli malvagi. Una teoria che forniva indirettamente la prova dell’esistenza di un Dio inserito nel concreto delle vicende umane come un giudice.

Tuttavia il male diveniva libero di manifestare la propria forza anche se si pensava a un Dio esistente sì, ma lontano dall’uomo e totalmente disinteressato alle vicende del singolo essere umano. Il Dio immaginato da Aristotele ed Epicuro, esterno e lontano dal fluire delle vicende terrene, alieno nei confronti dell’uomo e chiuso nella sua imperturbabile estraneità alla conoscenza umana, che decide non solo di non dirigere, ma addirittura di ignorare. Infine avremmo potuto invocare l’alterità completa di Dio nei confronti del Mondo, come veniva dichiarato nella Teologia negativa e nel pensiero del teologo Karl Barth (1866-1968).

Un Dio questo che non era tenuto a essere compreso, perché esercitava il suo ruolo su di un piano completamente diverso da quello in cui poteva agire la ragione dell’uomo:

 

“… Dio è il Dio sconosciuto. Come tale egli dà a tutti la vita, il fiato e ogni cosa. Perciò la sua potenza non è né una forza naturale, né una forza dell'anima, né alcuna delle più alte o altissime forze che noi conosciamo o che potremmo eventualmente conoscere, né la suprema di esse, né la loro fonte, ma la crisi di tutte le forze, il totalmente Altro, commisurate al quale esse sono qualche cosa e nulla, nulla e qualche cosa, il loro primo motore e la loro ultima quiete, l'origine che tutte le annulla, il fine che tutte le fonda..  […]

L'uomo si trova in questo mondo in prigione. Una riflessione alquanto profonda non può concedersi nessuna incertezza sulla limitazione delle nostre possibilità che sono qui e ora a nostra disposizione …”

                                                     da Karl Barth, Epistola ai Romani,  (10)

 

Come nel pensiero del filosofo medievale Guglielmo di Ockham (1280-1348 circa), l’uomo può giustificare l’esistenza di un Dio che permette anche il male solo ipotizzando una capacità discrezionale della divinità di poter fare anche ciò che non vuole fare, purché non si cada nella trappola della contraddizione logica, ultimo rifugio di razionalità davanti alla disperazione dell’esistere:

 

“… Deus habet notitia intuitivam omnium, sive sint, sive non sint, quia ite evidenter conoscit creaturas non esse quando non sunt, sicut conosci ea esse quando sunt …”

“… Dio possiede la conoscenza intuitiva [vale a dire anche in assenza dell’oggetto della conoscenza stessa] di ogni cosa, sia che questa esista, sia che non esista, perché conosce le sue creature in modo così evidente sia se queste siano presenti davanti al suo essere, che siano assenti …”

                                            da Ghisalberti A., Guglielmo di Ockham, (11)

 

All’origine di molti dei mali della medicina contemporanea è stata forse la decisione di relegare la compassione in un angolo nascosto e privato della personalità del curante, privilegiando il sapere e la padronanza tecnica del curare.  La compassione è il sentimento più caratteristico degli esseri umani. Scaturisce dall’empatia e dall’attenzione a ciò che di comune si riconosce nell’altro. Spegne il fuoco della rabbia e del rancore e porta al lago quieto della riflessione su di sé e sul senso della propria vita, che ci permettono di comprendere l’esistenza delle stesse qualità anche in chi ci appare momentaneamente diverso o distante. Consiste nell’identificazione della sofferenza e del disagio dell’altro come una propria condizione, una propria diminuzione di dignità, nel sopportare una ferita condivisa. Il punto di partenza irrinunciabile per operare un intervento sul dolore che sia anche un gesto profondamente umano e non solo un’esibizione e un utilizzo della tecnica.

La necessità di educare alla compassione può forse scandalizzare  chi confida in una natura intrinsecamente buona dell’uomo. Eppure sappiamo dall’esperienza storica che quando ci si è astenuti dall’esercitare un sorveglianza vigile e consapevole sui presupposti etici fondamentali della convivenza tra gli esseri umani non si è fatto altro che alimentare il razzismo e le dittature, fondate sul pregiudizio e sull’ignoranza e accompagnate dall’arroganza e dalla presunzione. La compassione appare come l’unico e rivoluzionario elemento capace di destabilizzare l’idolatria dell’evidenza e della statistica scientifica, che sono considerate come le sole unità di misura della conoscenza, più di mille ragionamenti teoretici.

Non si tratta di rinnegare la scienza sperimentale, ma di adoperarla senza esserne usati, di servirsene, mantenendo il giusto equilibrio tra il rigore operativo e la trasmissibilità dei risultati e la necessità di pensare alla persona e al suo bene come un obiettivo primario dello scienziato e del medico, prima di dimostrare l’aderenza o meno a protocolli sperimentali, spesso pilotati da interessi industriali e commerciali.

Solo una modesta verità, una speranza, quella nella compassione,  che è in grado di sostenere molte incertezze e scoramenti al letto del malato. Un aiuto umano, che non dovremmo mai dimenticare.

 

Federico E. Perozziello


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Bibliografia

  1. Michel de Montaigne, Saggi, Milano, 1992.

  2. Losee J., Introduzione alla Filosofia della Scienza, Milano, 2001.

  3. Di Stefano E., Munch, Firenze, 1994.

  4. Bischoff U., Munch, Köln, 2000.

  5. Aristotele, Etica nicomachea, Torino, 2000.

  6. Perozziello F. E., Storia del pensiero medico. Il Rinascimento, la nascita della scienza nuova e il secolo dei lumi, Fidenza (PR), 2008.

  7. Perozziello F. E., Storia del pensiero medico. Dalla Psicoanalisi al Codice genetico. Le risposte senza domande, Fidenza (PR), 2010.

  8. Natoli S., L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Milano, 1998.

  9. Molinari E., Castelnuovo G. (a cura di), Psicologia clinica del dolore, Milano, 2010.

  10. Barth K., Epistola ai Romani,  Milano, 2002.

  11. Ghisalberti A., Guglielmo di Ockham, Milano, 1972.


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