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Filosofia Quantistica e Spiritualità di Ulrich Warnke

FILOSOFIA QUANTISTICA e Spiritualità

La chiave per accedere ai segreti e all’essenza dell’essere. Di Ulrich Warnke
Traduzione a cura di Corrado S. Magro
In esclusiva assoluta per l'Italia, per gentile concessione dell’autore e dell’editrice Scorpio la traduzione del libro di Ulrich Warnke: Quantenphilosophie und Spiritualität.

 

 

Capitolo 2 - Novembre 2014

Aspettativa e fede

 

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Domanda: Cos’è la fede?
Budda rispose: «Lasciate fluire libere la vostra fede, la vostra fiducia e apritevi alla verità».

 

Nella tradizione buddista la fiducia nella fede (saddha) viene applicata conseguentemente per reimpostare i legami con il nostro intimo e così richiamare a nuova vita verità sperimentabili. La volontà è una delle parti che compongono la fede, l’altra parte ingloba emozioni e in particolare sensazioni di fiducia come anche di certezza e di aspettativa. La speranza è piuttosto una componente negativa della fede. Se io spero che avvenga qualcosa anche il mio corpo inevitabilmente lo spera, ma la realtà rimane identica. Invece la fede profonda, solida e incontestabile in qualcosa, è coscienza insita nel proprio corpo dove tutte le funzioni dell’organismo sono indirizzate verso quel qualcosa.

Esempio: Se io al mattino esco dal letto, l’azione mi riesce perché io sono convinto che lo posso fare. Proviamo il contrario: Se io sono irreversibilmente convinto che non posso alzarmi, non mi alzerò.

La potenza della fede è quindi un’esperienza quotidiana, ma, e questo è molto importante, “È l’esperienza il regolatore della fede!”, e l’esperienza si basa sulla consapevolezza. Generalmente vengono distinti diversi generi di consapevolezza: della veglia, del sonno, del coma e dello stato condizionato dalle droghe. Ma attenzione, a cambiare non è la consapevolezza che rimane sempre identica. Quello che cambia è soprattutto la percezione, quel frammento di mondo che può essere percepito, ed è questa percezione modificata di cui noi siamo consapevoli.

Osserviamo il ragionamento in dettaglio: quello a cui noi crediamo da svegli, viene bilanciato dall’esperienza che per via dell’interazione tra energia ambientale e organismo materiale abbiamo collezionato.

Esempio: Se io credo di essere un uccello e così potere volare, questo è incompatibile con lo stato di veglia consapevole e quindi lo escludo. Ma se la mia percezione è deformata dall’azione dell’LSD o di altre droghe, la compatibilità con l’esperienza dello stato di veglia può essere annullata. È proprio per un effetto di neutralizzazione che gli sciamani sono spesso in pericolo di vita abbisognando di esperienze che vanno ben oltre quello che lo stato di veglia consapevole concede.

Ogni pensiero profondo è collegato automaticamente e strettamente alla sensazione di accertamento valutativo, senza  dovere intervenire con uno stato di consapevolezza per pilotarlo. I pensieri profondi guidano le funzioni del nostro organismo. Ognuno di noi può verificare su se stesso il potere di una forte visione reale. Prova a rappresentarti intensamente che stai mordendo in un limone. Hai notato che la ghiandola salivare fa scorrere la saliva per diluire l’acidità del limone?

Nel laboratorio del praticantato universitario si misurava la dimensione delle pupille con un apparecchio a infrarossi. I praticanti vennero esortati a rappresentarsi una luce bianca, penetrante, in grado di accecare. L’effetto istantaneo misurato fu una contrazione delle pupille, sebbene la luminosità ambientale fosse rimasta invariata.

Un esperimento del gruppo di ricerca di Christopher Davoli e Richard Abrams dell’università di Washington, apparso nell’aprile 2009 nella rivista Psychological Science, confermò la seguente ipotesi: Rappresentarsi qualcosa e credervi intensamente basta affinché quello che si è rappresentato divenga realtà. La rappresentazione concreta dell’adempimento di un compito ha per effetto che esso venga assolto a fondo con successo. Chi non conosce il detto biblico: “la fede può muovere le montagne?”, dove fede sta per immaginazione, visione mentale.

Che la realizzazione possa andare nella direzione sbagliata, è stato scoperto dagli scienziati della North Carolina State University. A degli anziani oltre i 60 anni venne fatto fare un test di memoria. Risultato: quelli che in qualche modo erano stati informati che le persone anziane normalmente ottengono risultati scadenti, fornirono effettivamente risultati scadenti. Questo effetto è stato constatato già più volte. Si parla in tal caso di profezia che si autorealizza.

La fede si compone della volontà di osservare esattamente una situazione specifica e della sensazione di valutazione che viene data a tale situazione. È il corrispondente del “dare valore e significato”. Se le situazioni vengono osservate positivamente si parla di Placebo, se negativamente si parla di Nocebo, l’effetto opposto. L’effetto Nocebo sorge dal colore negativo dato a immaginazioni e ad aspettative ed è in grado di causare disturbo funzionale, malattia e qualche volta anche la morte.

È risaputo che la convinzione che l’ambiente ci possa causare delle malattie, convinzione che è un fattore puramente psichico, può in realtà inficiare le funzioni del nostro organismo anche quando non agisce su di noi alcun fattore ambientale nocivo.

Tra i cinesi è diffusa la credenza che il destino degl’individui viene stabilito dal suo anno di nascita. Quando spunta un malanno con le caratteristiche specifiche di quelli elencati nell’anno di nascita, esso viene sentito come destino. Proprio tale correlazione fu analizzata scientificamente in America sugli immigrati  cinesi e i loro discendenti (Phillips e Wagner 1993). Paragonato con un gruppo di controllo non composto da cinesi, i discendenti dei cinesi America legati alla tradizione morirono da 1,6 fino a 5 anni prima, affetti da tumori polmonari o bronchiali, neuroplasie maligne, infarti cardiaci, enfisema o asma, quando uno di questi malanni era associato al loro anno di nascita. E il decorso letale della malattia era tanto più breve quanto più forte era l’identificazione con la tradizione.

Un altro caso venne descritto nel 2007 nella rivista specialistica General Hospital Psychiatry: Il 26enne D.A. con lo scopo di suicidarsi, perché abbandonato dalla sua ragazza, ingoiò 29 pastiglie di antidepressivo. L’abbassamento repentino della pressione sanguigna, dovuto alla dose eccessiva, che non fu possibile stabilizzare nemmeno in clinica, spaventò mortalmente D.A..

D.A. aveva ricevuto le pastiglie partecipando a un doppio studio cieco, per verificare l’effetto placebo dell’antidepressivo. Quello che D. A, non sapeva, era che lui apparteneva al gruppo placebo e che le sue pastiglie non contenevano alcun principio attivo.

McMahon in Psychological Medecine (1976), dimostrò che l’aspettativa di un evento temuto, spesso aveva conseguenze per la persona in causa ben più gravi dell’evento. La paura della morte uccide con la stessa precisione della ferita mortale inflitta con un’arma. La rappresentazione viva e forte di malattia, febbre, paralisi o soffocamento è sufficiente a richiamarne i rispettivi sintomi.

Già all’inizio del 1980 apparve una vasta bibliografia  con oltre 1300 articoli scientifici sul potere dello spirito sul sistema immunitario e neuroendocrino (Lock 1983).

Da questo momento fu chiaro che il sistema immunitario di una persona era in diretta relazione con le sue emozioni. Immaginare di essere gravemente malato ha un effetto misurabile sulla frequenza cardiaca, sulla tensione muscolare, e sulla resistenza elettrica cutanea. Le rappresentazioni controllano e gestiscono i campi del sistema immunitario (Lichstein e Lipshitz 1982, Shaw 1940). La sensazione di sentirsi abbandonato può condurre alla morte a secondo delle circostanze (Schneider e altri 1983). Questo effetto si lascia definire con “lo smarrirsi d’animo”, sentirsi finito. Si cade prima in uno stato di profonda depressione, poi nell’apatia e nella perdita di ogni stimolo o motivazione (Seligmann 1975).

Cardiologi di fama, dalle esperienze fatte evidenziano il potere della parola che a secondo del suo valore e significato può annientare o guarire il paziente (Girstenbrey 1986).

Oggi è risaputo che la rappresentazione figurativa e intensa di un evento vissuto, va mano nella mano con spiccati fenomeni fisiologici collaterali quasi fosse qualcosa di realmente presente. Basta il pensiero intenso di partecipare ad una gara per attivare lo stimolo del tasso di adrenalina e noradrenalina, del metabolismo, del tasso di potassio, della tensione muscolare, del battito cardiaco, della grandezza delle pupille, della conducibilità cutanea e via dicendo. Quanto detto era già noto nel 1929 quando Jacobsen trovò e dimostrò che già la visione mentale dell’oscillazione della mazza da golf, libera un potenziale attivo nei muscoli corrispondenti. Le prove eseguite sistematicamente riconfermarono senza ombra di dubbio tale fenomeno (Shaw 1940).

Così come resta impossibile vivere la sessualità senza fantasia e senza rappresentarsela, lo stesso possiamo dire delle paure. Capovolgendo i termini, quando arriviamo a rappresentarci fenomeni che incutono paura, il nostro corpo è invaso da una sensazione di brivido (Lichstein & Lipshitz 1982).

Le immagini che ci rappresentiamo vengono trasferite nel loro corrispondente naturale, tali che la morte temuta e prospettata da un medico di fiducia sulla base di una diagnosi è la stessa di quella di un haitiano perseguitato dalla stregoneria (Achterberg 1987).”

 

Jeanne Achterberg, medico e psicologa, ci riferisce di una signora morta poche ore dopo che l’analisi di un tessuto del seno confermava il sospetto di un tumore: “morte a causa di una visione animata”. Questa donna aveva davanti agli occhi la propria madre che lei aveva assistito per anni e spentasi lentamente tra sofferenze atroci proprio per un tumore al seno. Poteva così dipingersi un quadro vivo di quello che l’attendeva. A seguito di ciò il suo organismo cessò di funzionare.

Viene anche riferito di casi totalmente opposti: perfino in presenza di situazioni disperate il bubbone cancerogeno sparisce e i pazienti ritornano ad essere sani. Essi hanno interpretato e fatto proprie, determinate asserzioni del medico, tanto che l’organismo ha allontanato tutto quello che gli nuoce eliminando ogni ostacolo presente sulla via della guarigione.

Un gruppo di scienziati e di medici americani (Ira Collerain, Par Craig, Jeanne Achterberg e altri) eseguì una ricerca sulle cause di morte di handicappati cerebrali. I risultati ottenuti combaciavano con quelli ottenuti in Inghilterra, Grecia, Romania. Individui che non sono in grado di capire cosa vuol dire la diagnosi di cancro, presentano un tasso di decessi di gran lunga inferiore. Se tra la popolazione “normale” il tasso di mortalità è del 14 al 18 per cento in presenza di queste diagnosi, quella dei gruppi degli handicappati si situa tra il 4 e il 7 per cento. Poiché l’attività del sistema immunitario dipende significativamente dalle capacità cognitive, il detto popolare: “quello che non so non mi tocca” si riveste di plausibilità.

Al giorno d’oggi si conoscono molte correlazioni tra la psiche e la scomparsa di cellule cancerogene. Ben noto è il caso del signor Wright ammalato terminale di cancro, che in un ospedale americano pretese che gl’inoculassero crebiozene, un nuovo farmaco ritenuto miracoloso. Migliorò dopo pochi giorni sebbene lo stato di quei pazienti che non vi collegavano nessun effetto terapeutico non mostrava miglioramenti. Il tumore del signor Wright invece poco dopo l’inoculazione si ridusse della  metà (come neve in una stufa furono i commenti ufficiali). Una regressione talmente veloce e a fondo era impensabile anche dopo un trattamento intensivo.

Il signor Wright lasciò la clinica praticamente guarito e se ne tornò a casa con l’aereo che lui stesso pilotava. Più avanti, da una trasmissione televisiva apprese che il crebiozene era un medicinale altamente contestato. La sua fede fu scossa e due mesi dopo, privo di speranza, ricadde nello stato precedente. Poiché i medici erano convinti che ormai non c’era nulla da perdere, almeno a parole gli inocularono una doppia dose di crebiozene. In realtà si trattava di pura acqua distillata. E guarda caso, il signor Wrigt si riprese nuovamente. La seconda guarigione era stata molto più drammatica della prima e il paziente veniva dimesso completamente guarito. Senonché due mesi dopo, l’American Medical Association comunicava che le prove eseguite in tutto il paese, dimostravano che la terapia con il crebiozene era del tutto inefficace ed inutile. Pochi giorni dopo il signor Wright moriva (Achtergerb 1987). Questo esempio dimostra chiaramente come l’effetto Placebo-Nocebo, allora ritenuto soltanto opinione di esperti, può neutralizzarsi scambievolmente con risultati drammatici, come in questo ultimo caso dove l’aspetto Nocebo ebbe la meglio.

I risultati della famosa ricerca Framington svelano che quelle donne che si autoconsideravano a rischio, soffrirono di un infarto cardiaco quasi quattro volte più sovente, indipendentemente dai comuni fattori di rischio. Il solo pensiero della predisposizione a infarto rappresenta quindi un fattore di rischio accentuato (Voelker 1996). A questo proposito esistono molti esempi, dei quali ne riportiamo uno a titolo rappresentativo.

A diversi asmatici venne detto che nell’aria che respiravano erano state aggiunte determinate sostanze allergiche. In realtà si trattava della migliore aria di salina senz’alcuna sostanza nociva. Quasi uno su due asmatici accusò problemi tipici respiratori e 14 persone dovettero essere ricoverate in clinica. Gli attacchi si ridussero immediatamente dopo che la somministrazione della stessa aria venne dichiarata adatta alla terapia.

Con l’aiuto d’iniezioni del tutto neutrali sulla base di sale di cucina, furono anche provocate allergie con intensità a piacere, a secondo della suggestione più o meno forte esercitata dal responsabile della ricerca sulle persone coinvolte e sulle loro aspettative. Soggetti disegnati psicogeni, subirono perfino attacchi simili all’epilessia dopo che gli venne incollato sulla pelle un cerotto intriso nominalmente con medicinali. Ben il 77 per cento degl’individui in esame, con nessuna sostanza attiva nel cerotto subirono un attacco.

Sotto questo punto di vista, gli effetti collaterali riferiti al farmaco, rappresentano un vero problema. Esantemi e disturbi. vegetativi accentuati si manifestarono pur sempre nel 20 per cento dei soggetti di una ricerca che dovettero “immaginare” di avere preso un farmaco (il tranquillizzante Menefesina) che causa questi effetti collaterali. Anche in questo caso era manifesto l’effetto Nocebo. Ovviamente ciò non vuol dire che non esistano effetti collaterali causati dai farmaci, ma sorge il sospetto che alcuni pazienti che vengono a conoscenza di tali effetti, sviluppano una sensibilità accresciuta. Perfino nelle applicazioni di Chemioterapia il 30 per cento dei soggetti della ricerca furono vittime dell’effetto Nocebo. Gli caddero i capelli anche in assenza di sostanze attive, credendo solo avere ricevuto un trattamento chemioterapico.

Anche la perdita del partner accresce il sentimento di abbandono e quindi la mortalità. Esso è causa di un aumento delle malattie cardiocircolatorie, aumento tanto importante quanto il verificarsi dei tumori. L’indebolimento del sistema immunitario raggiunge la sua massima evidenza dopo due a otto settimane dalla perdita.

Che ogni stato di stress causa cambiamenti dell’apoptosi, o morte cellulare programmata, è ormai un dato di fatto. O l’apoptosi viene ridotta e allora i ripristini difettosi del DNA si trasformano in cellule di sviluppo tumorali, oppure la morte cellulare supera la normalità. I meccanismi sono: un tono del simpatico accentuato, aumento delle catecolamine (p.e. adrenalina e noradrenalina), livello più elevato di glucocorticoidi, aumento della trasmissione in relazione a neurotrasmettitori. Meccanismi secondari sono la riduzione del sonno REM con conseguenze negative su molteplici funzioni. Anche la psiche si trova sotto  pressione intensa.

Non è nemmeno necessario lasciarsi coinvolgere da particolari momenti di stress. Ogni argomentazione, ogni vampata emotiva si riflette sulle funzioni del nostro organismo. Gli effetti sono misurabili attraverso il riflesso psicogalvanico cutaneo che si basa sull’abbassamento della resistenza delle membrane sudorifere (spesso confuso con la misura dei punti dell’agopuntura).

I medici che, impegnati nelle cure, non tengono conto né della psiche né dello spirito, praticano una medicina non equilibrata. Anche “l’onnipotenza” di chi detta responsi e diagnosi necessita un adattamento per evitare di stravolgere quelle informazioni efficienti e utili alla guarigione, aprendo le porte alla malattia e in casi limiti alla morte già solo con il responso dato con la diagnosi.

La manifestazione dell’effetto placebo o nocebo sull’organismo è ampiamente documentata. La giusta rivendicazione della scienza medica suona pertanto come segue: Effetti placebo devono essere ottimizzati per aiutare la guarigione.

Che su questo piano, in presenza di pazienti fiduciosi agisca più che il solo effetto placebo, lo dimostra l’esempio seguente.

Herbert Benson, docente di medicina all’Università Harward ha dimostrazioni di guarigione avvenute soltanto attraverso la fede. Egli le definisce autoguarigioni, ponendole nell’ambito di una medicina moderna. Secondo natura, la guarigione è sempre un’autoguarigione. La medicina può solo indurre e amplificare  questo principio.

Negli USA il Therapeutic Touch, una forma standardizzata dell’imposizione delle mani, la cui efficienza è stata dimostrata in diversi studi clinici in doppio cieco, è un metodo riconosciuto che infermieri e infermiere possono applicare.

L’esperimento iniziale coinvolgeva 44 giovani in buona salute ai quali venne inferta una piccola ferita con un bisturi. Le ferite erano tutte apportate sullo stesso punto e avevano tutte la stessa grandezza e profondità. Sia ai soggetti che al medico che li trattava, venne detto che si voleva esaminare la bioelettricità durante il processo di risanamento della ferita. I giovani dovevano recarsi quotidianamente presso l’istituto dove gli sostituivano la fasciatura. Per questa operazione dovevano infilare il braccio in un vano invisibile attraverso una parete preparata a tale scopo.

In quel vano avveniva quanto segue: i 44 individui erano stati divisi in due gruppi selezionati con metodo a caso. A un gruppo le infermiere applicavano l’imposizione ravvicinata delle mani senza contatto fisico, all’altro gruppo no. L’esperimento durò 16 giorni, ogni giorno le ferite venivano misurate e protocollate e i dati  analizzati.

Il risultato non poteva essere più chiaro. La ferita degli appartenenti al gruppo non trattato con l’imposizione delle mani, dopo otto giorni era in media 19,3 millimetri quadri, quella dell’altro gruppo era di 3.9 millimetri quadri. Al 16.esimo giorno quella dei non trattati era circa 5.9 millimetri quadri e quella degli altri di appena 0,4 e completamente guarita su 13 persone di questo gruppo, mentre non c’era stata alcuna guarigione tra gli appartenenti all’altro gruppo.

A questo punto dobbiamo renderci all’evidenza che c’è qualcosa che va oltre l’effetto placebo. A dare più credibilità a  questo risultato contribuì lo studio che Ted Kaptchuk dell’Harvard Medical School eseguì su 80 pazienti: finti farmaci alleviano i disturbi da sindrome gastro intestinale anche quando le persone in trattamento sanno che il farmaco non ha alcun effetto. L’etichetta con la scritta “Placebo” a grossi caratteri, stava addirittura incollata sulle bottiglie che contenevano la soluzione utilizzata per il trattamento. I disturbi gastro intestinali diminuirono significativamente sul 59 per cento dei partecipanti consapevoli del trattamento placebo e di solo il 35 per cento nel gruppo di controllo. L’effetto placebo era addirittura paragonabile a quello del farmaco per il sindrome gastro intestinale. Sul perché e sul come l’effetto placebo possa funzionare anche senza manovre di diversione, possiamo solo speculare. I responsabili della ricerca conclusero che già il semplice rituale medico sia stato in grado di provocare un miglioramento evidente.

Ci si può chiedere: effetto placebo e guarigione indotta, sono pianificabili? L’ottimizzazione dell’effetto placebo a fini terapeutici sembra in ogni caso possibile. Tuttavia affinché la medicina accetti l’applicazione di tali processi nella pratica quotidiana, bisogna che il meccanismo di base gli venga spiegato e dimostrato scientificamente.

 

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