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Vecchio 15-10-2005, 11.11.06   #11
tammy
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leggende triestine

LA LEGGENDA DI MADONNA BORA
di Edda Vidiz Brezza


Molti, molti anni fa Vento, scorrazzando per il mondo con i suoi figli, tra cui Bora, la più bella e la più amata, capitò in un verdeggiante altipiano che scendeva ripido verso il mare.

Bora si allontanò dall’allegra brigata dei suoi fratelli, per correre a scombussolare tutte le nuvole che si trovavano in quell’angolo di cielo e a giocare con i rami dei quercioli e dei castagni, che si agitavano nervosi al suo passaggio.. Dopo un po’, stanca di correre di qua e di là senza alcuna meta, Bora entrò in una grotta, all’interno della quale, nel frattempo, aveva trovato rifugio da tutta quella buriana, l’umano eroe Tergesteo.

Tergesteo era così forte e così bello e così diverso dai suoi fratelli Venti, e da Mare e da Terra e da tutto quello che fino a quel momento Bora aveva visto e conosciuto, che di colpo se ne innamorò. E fu subito passione tempestosa, passione che Tergesteo ricambiò con eguale impeto: e i due vissero felici in quella grotta tre, cinque, sette splendidi giorni d’amore.

Quando Vento si accorse della scomparsa di Bora (ci volle un bel po’ di tempo perché i suoi figli erano tanti e molti di loro parecchio irrequieti) si mise a cercarla tutto infuriato. Cerca di qua, cerca di là, cerca che ti cerca - al vedere tanta furia tutti zittivano al suo passaggio - ma un cirro-nembo brontolone, irritato da tutto quel trambusto, gli rivelò il rifugio dei due amanti. Vento arrivò alla grotta, vide Bora abbracciata a Tergesteo, e la sua furia aumentò enormemente. Senza che la disperata Bora potesse in alcun modo fermarlo, si avventò contro l’umano, lo sollevò e lo scagliò contro le pareti della grotta, finché l’eroe restò immobile al suolo, privo di vita.

Vento, per nulla pentito del suo gesto, ordinò a Bora di ripartire, ma lei impietrita dal dolore non ne volle sapere. Bora piangeva disperatamente e ogni lacrima che sgorgava dal suo pianto diventava pietra e le pietre erano ormai talmente tante, da ricoprire tutto l’altipiano.

Allora Odino, che era un dio saggio, ordinò a Vento di lasciare Bora sul luogo che aveva visto nascere e morire il suo grande amore. Ma Bora ancora non smetteva il suo pianto.

E allora Natura, preoccupata per tutte quelle pietre che rischiavano di rovinarle irrimediabilmente il paesaggio, concesse a Bora di regnare sul luogo della sua disperazione. E Cielo, per non essere da meno le consentì di rivivere ogni anno i suoi tre, cinque, sette giorni di splendido amore. Allora, e solo allora, Bora smise il suo pianto.

Le storie dei grandi amori finiti male commuovono sempre e anche Terra sentì un piccolo nodo alla gola nel vedere la disperazione di Bora. E così dal sangue di Tergesteo fece nascere il Sommaco, che da allora inonda di rosso l’autunno carsico.

Anche Mare volle dare il suo contributo e diede ordine alle Onde di lambire il corpo del povero innamorato ricoprendolo di conchiglie, di stelle marine e di verdi alghe.

Così Tergesteo si elevò alto verso il cielo diventando più alto di tutte le alte colline che già coprivano quell’angolo di mondo. E i primi uomini giunti su queste terre si insediarono sulla sua collina e vi costruirono un Castelliere con le lacrime di Bora divenute pietre.

Con il passare del tempo il Castelliere divenne una città, che in ricordo di Tergesteo venne chiamata Tergeste, dove ancora oggi Bora regna sovrana, soffiandovi impetuosa: ”chiara” fra le braccia del suo amore “scura” nell’attesa di incontrarlo.



In omaggio alla splendida natura del territorio triestino – animato dalla Bora che con il suo infelice amore aiutò gli uomini ad erigere la città – i vincitori dei Tornei medioevali ricevono dalla Magnifica Comunità Tergestina delle Tredici Casade il titolo di Cavaliere della “Buriana”: la mitica spada che, in caso di pericolo, alza venti di burrasca in difesa della città sorta sul corpo di Tergesteo e - in suo perenne ricordo - chiamata Tergeste: oggi Trieste.
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Vecchio 15-10-2005, 11.23.22   #12
Salin
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Bella... mi è piaciuta proprio questa leggenda.
Grazie, Tammy.
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Vecchio 17-10-2005, 09.13.28   #13
visechi
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Strana terra percorsa dal vento

Non sapevo fossi triestina, forse abbiamo così qualcosa in comune: il vento.



Qui da me, strana terra, spira il vento sempiterno. Soffia dai quattro punti cardinali, senza posa. Alle volte è impetuoso e spazza le cime dei monti e dei colli; piega le chiome degli alberi, conferendo loro una particolare inclinazione da farli sembrare penitenti nell’atto di onorare il Creatore. Talvolta è una brezza leggera, quasi l’alito del Creatore, allora accarezza le chiome delle genti, portando via i cattivi umori e ripulendo l’aria dai guasti dell’uomo. Trascina con sé i profumi dei boschi che raccoglie nel suo perenne spirare e li conduce con sé, in giro per la terra. I cattivi pensieri si trasformano in un impeto, quelli più belli in una profumata tiepida carezza. Questa terra è in ogni terra, e i pensieri dei suoi abitanti sono in ogni luogo, sparsi dai quattro venti. Il vento conosce tutte le storie degli uomini e le riporta fresche all’orecchio del Signore. E’ Lui che lo manda per rompere il silenzio ancestrale che pervade le remote valli e le campagne riarse dal sole. Lieve, sussurra ai pastori le odi e i lamenti che intridono questa amara terra. Conduce con sé qualche nuvola d’ovatta per riempire la tersa volta del cielo, d’un azzurro compatto, e dipingervi creature d’ogni specie, che riempiono i sogni e i canti dei pastori. Se sai ascoltare, lo senti mentre intona una delicata nenia che culla i bambini negli assolati meriggi d’estate. Il vento scolpisce le rocce forgiandole in forma umana o animale, sono queste che, nelle tiepide notti rischiarate da Selene, proiettano ombre sinistre sull’arida e brulla terra. Spesso sono le uniche forme che guidano il cammino dell’uomo. Il vento, in questa amara terra, ha il profumo del mare e il suono dei canti degli uomini.
Tutto questo è vero, basta volerlo vedere.
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Vecchio 17-10-2005, 13.52.48   #14
Yam
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Visechi sta diventando un Mistico...e' sempre piu' luminoso...mi sa che di notte si vede da lontano.....
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Vecchio 18-10-2005, 00.45.46   #15
klara
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la leggenda ... trillo del diavolo

Narra memorialista francese J.J. de Lelande cosa gli racconto' G.Tartini, il famoso violinista...

Una notte del 1713 ,Tartini fece uno strano sogno.Sogno' di aver fatto un patto col diavolo,che gli offriva l'esaudimento di ogni desiderio.Tartini era curioso di sapere se il diavolo sapesse suonare il violino :la sua curiosita' venne appagata,il diavolo esegui al violino una sonata fantastica,tale che nessun orecchio umano aveva prima udito.Invaso da un ineffabile senso di bellezza,Tartini nel delirio si sveglio' e,afferrato il suo strumento,tento' di riprodurre la musica del sogno.
Da allora la musica del diavolo lo ossesssiono',percio' tento' in tutti i modi di riprodurre quei suoni,ma senza riuscirci.Gli riusci' di comporre "soltanto" una sonata, "Il trillo del diavolo",solo un pallido simulacro di quanto udito in sogno.
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Vecchio 18-10-2005, 09.27.16   #16
visechi
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Sas Panas

Tutti noi portiamo scolpiti nel cuore dei miti, delle leggende, che ci parlano con il loro linguaggio arcano di storie remote, di vite passate. Miti che abitano i nostri sogni, che popolano le nostre paure o nutrono le nostre speranze. I miti antichi e le leggende popolari sono l’anima vera di un popolo, nascono per partenogenesi dal cuore del popolo antico e si trasmettono a noi in tutto il loro candore. I miti non nascono mai per caso, seppur nel loro dipanarsi fantasmagorico, i miti sono ben radicati nella realtà del popolo che li fa germinare… come la leggenda sarda delle Panas. La prima parte è sempre una scheda estratta da Internet.

SAS PANAS
Quando una donna muore durante il parto, va soggetta a diventare pana o lavandaia notturna, che si reca alle vasche di campagna alla mezzanotte con uno stinco di morto per battere i panni (sa daedda). Vi è in Sardegna qualche donna del popolo che racconta di averle vedute, e aversi fatto da esse imprestare sa daedda, e la pana essersene partita senza riprendersela. Solo alla mattina seguente queste donne si avvidero d’avere portato seco uno stinco di morto, ed allora, per consiglio del confessore, lo riportarono, un’altra notte, alla medesima ora, per restituirlo alla proprietaria, dicendo: Tè sa daedda chi no est sa mia. La pana avrebbe risposto: Pius has ischidu tue ca no deo . --- Affinché dunque una donna morta durante il parto non diventi lavandaia notturna, si usa metterle nella bara un ago col filo senza nodo, un pezzo di tela, un par di forbici, un pettine ed un ciuffo di capelli del marito. E ciò perché essa abbia una scusa legittima da rispondere alle altre panas, che la inviteranno a recarsi alla vasca per lavar le fascie del lattante. Le panas le diranno: Comà, a benides? Ed essa risponderà: Nono, chi so cosende, nono chi so ispizzende (pettinando) a maridu meu .

Per chi muore di parto
“Se attento, in silenzio ascolti il silenzio notturno, se quieti la mente, se la Luna ti assiste e la notte è clemente, se il sonno ritarda e hai l’animo scosso, le senti e le vedi: son sole, disperate e piangenti, sfuggite dal mondo, son figure spettrali, son morte di parto, per questo sono dannate a vagare nel mondo, son incubi in cerca di bimbi a cui suggere il sangue: è la loro vendetta. Sono dette le ‘panas’: nebbiose figure fra gatto e serpente. Se presti attenzione, vagando per valli, le incontri nei pressi di qualche ruscello, fra l’una e le tre della notte. Vi lavano i panni dei propri bambini, battendoli con tibie di morti, è questo il sordo rumore che cogli nel buio argentato della luna, fra querce, fra lecci, in mezzo al lentischio, fra grilli e fra ombre ferali. Le senti intonare tristi ninne o nenie funeree. Puoi solo osservarle, non devi turbarle, ché ti brucian con l’acqua. Il loro supplizio nella terra dei vivi si spegne se il piccolo bimbo diventa fanciullo, e allora più nulla può nuocergli, e loro ripiegano fra i tanti defunti, e chiudono gli occhi per sempre, e gli danno riposo. A capo del piccolo letto c’è il padre che veglia con una piccola falce. La ‘pana’, ammaliata, ne conta i dentini, e il rosso dell’alba la costringe a fuggire. E’ una dura battaglia fra i muri di pietra di povere case e gli effluvi di muffa. Povere donne da tutti temute, son tristi ed irose per i figli mai visti, mai tenuti sul seno, mai potuti allattare. Sfuggite dal mondo e sempre ingiuriate, ma se ascolti col cuore, se le vuoi compatire, capisci che il Fato è stato crudele, ché a loro ha levato il bene più grande, ché il cuore ha spezzato nel momento più bello, e allora ti senti intonare con loro una tristissima nenia, un mesto scongiuro che è una lieve preghiera, ché tanto dolore ti brucia nel petto e aspetti che il Sole risplenda al mattino per riprendere a vivere sfuggendo la sorte di chi ha perso un bambino.”
I vecchi millenari raccontano ancora di averle vedute e sentite cantare.
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Vecchio 18-10-2005, 11.03.50   #17
atisha
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......... ...............
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Vecchio 22-10-2005, 21.56.11   #18
visechi
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La Surbile

La Sardegna è attraversata da incubi, da sogni ferali, da personaggi ctoni, ogni manifestazione della natura, anche la morte e l’amore, hanno un proprio personaggio ferale… una fiera, che popola i sogni degli antichi.-



La Strega Vampiro (La surbile)
“Tetra e veloce percorre le valli; scalza, in silenzio si muove nel buio; scaltra e mendace ti volge lusinghe; nero il suo manto, dimesso il vestire, brutta nel corpo peloso, triste nel viso, lunghe le unghie e pure la coda ferale, la Strega Vampiro, la Surbile, incute timore e sugge il sangue ai bambini. Viva, si nutre della vita dei bimbi. Ha stretto col diavolo un patto nefasto, venendo al mondo nel dì di Natale, oppure nascendo come settima figlia. Sa pure volare, se taci, nel buio, ed ascolti il silenzio, ne odi il ronzio, allora, ben lesto, per farla fuggire, rivolta i vestiti, oppur, senza indugio, scagliar per aria un cappello dovrai. E’ un orrido essere che percorre le valli, s’insinua furtivo nelle misere case di pietre per rubare la vita ai teneri pargoli. Si muove nel buio di lugubri notti, di giorno però si confonde con noi, vivendo una vita del tutto normale. E’ falsa, mendace, di morte foriera, le urla degli altri son la sua cantilena, il pianto dirotto di povere madri le intonan una nenia leggera da cui ella attinge vitale energia per esser ogni giorno più forte e viva di prima. Non reca con sé alcun ornamento che possa abbellire il suo viso grinzoso, non indossa mantello che possa coprire le sue spalle ricurve dal peso degli anni e dei funerei pasti, incontrarla di notte ti turba nel cuore. E’ triste, solinga, scavata nel volto, con dentro, nel cuore, profonde ferite, incise negli anni dalla tetra condanna di esser di giorno una donna del volgo, per assumer di notte le vesti di un demone nero.”
Son solo leggende narrate dai vecchi, ma attenzione la notte, vegliate sui bimbi, ché non passi furtiva per pascer se stessa con le tenere carni.

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Vecchio 25-10-2005, 13.25.39   #19
tammy
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omaggio all' Abruzzo

La Majella...tra Leggenda e Storia
gironzolando in internet

La Majella, definita da Plinio “padre dei monti”, è da sempre considerata dagli abruzzesi la sacra, materna montagna, luogo di miti e leggende, avvolta di magiche atmosfere.

Alcuni affermano che in principio la montagna s’appellasse Paleno, consacrata a Giove e successivamente modificata in Majella.

Un’antica ed affascinante fiaba fa discendere la voce Majella dal culto della dea Maja, la maggiore delle Pleiadi e figlia d’Atlante. Si narra che nella Frigia vivessero bellissime guerriere possenti, le “Majellane”, tra cui Maja la più incantevole, che ebbe un figlio da Giove, Ermes, anch’egli bellissimo e titanico che fu trafitto a morte durante una battaglia. Maja allora scappò con lui sul monte Paleno dovizioso di erbe medicinali, tra cui una molto speciale che sbocciava a primavera al liquefarsi delle nevi e che era in grado di curare ogni malanno. Quando vi giunsero, però, il Monte Paleno era ancora ammantato di neve e mancante dell’agognata erba. Ermes, perciò, cessò di vivere e fu sepolto sul Gran Sasso, Maja disperata morì di crepacuore e fu seppellita sulla Majella. Ancor oggi, il sibilo del vento che scuote i rami, l’ululato della tempesta, lo strepitio delle rocce che crollano nei valloni, altro non sarebbero che il lamento di Maja, che ancora piange la perdita dell’amato Ermes. Giove, volendo ricordare il giovane, vi fece nascere un singolare albero dai fiori gialli, dorati, dandogli nome Majo: il Maggiociondolo. In seguito il fiore divenne pegno d’amore fra i giovani che, nella notte di calendimaggio, in cui si festeggiava l’arrivo della primavera, ne appendevano un ramo sulla porta della donna amata.

Montagna sacra ai pagani, ma anche ai cristiani, che vi eressero eremi ed abbazie, realizzate da monaci benedettini, seguaci di Pietro Angelieri da Isernia, eletto papa nel 1294 col nome di Celestino V.
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Vecchio 27-10-2005, 09.50.33   #20
visechi
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Terra antica

La prima parte l’ho estratta da un sito Internet. Parla dell’origine mitologica dell’isola


"Millenni fa, agli albori della vita sul nostro pianeta, già esisteva un continente chiamato TIRRENIDE. Era un continente esteso, ricoperto da una natura verde e rigogliosa, popolato di uomini forti ed affascinanti animali. Ma improvvisamente, una notte, per motivi inspiegabili, l’ira di DIO si scagliò su Tirrenide. Il suolo cominciò ad agitarsi, scosso da terribili sussulti; il mare fu sconvolto da una furia terribile. Le onde erano talmente alte che quasi toccavano il cielo e sfortunatamente si abbatterono su Tirrenide in modo rovinoso, scotendo le coste, invadendo le fertili pianure; come se questo non bastasse, si alzarono tanto da arrivare a coprire le ridenti colline, ed ancora di più fino a coprire le più alte vette. Pareva la fine del mondo! Tirrenide stava per inabissarsi del tutto finché DIO improvvisamente placò la sua collera. -Oh terra infelice! A quale sterminio ha portato la mia collera! – esclamò allora DIO pentito. E, poiché una piccola parte di terra emersa emergeva ancora, vi pose sopra un piede e riuscì a trattenerla prima che il mare la inghiottisse completamente.
Fu così che della grande Tirrenide rimase quell’impronta solitaria in mezzo alla grande distesa d’acqua, da cui dapprima prese il nome di ICHNUSA, che significa appunto “orma di piede” e in seguito SARDEGNA, da SARDUS, eroe Bérbero, venuto dall’Africa. ICHNUSA, nonostante le ridotte dimensioni, aveva mantenuto tutte le caratteristiche del continente scomparso, e le aveva conservate in modo talmente fedele, che i naufraghi scampati ebbero l’impressione di rivedere, in piccolo, la loro Tirrenide, quando riuscirono a trovare la salvezza nelle sue sponde.
Il ricordo della terrificante sciagura, però, aveva impresso nel loro cuore un’orma indelebile: un’orma di malinconia profonda, che passò ai loro figli, e che, trasmessa di generazione in generazione, perdura tuttora nel cuore dei Sardi. Oggi noi dopo tanti millenni, troviamo ancora quella malinconia: - la ritroviamo nell’accorata ninna nanna di una madre, nel desolato canto di un pastore, nelle struggenti nenie di un rito funebre; - la ritroviamo nelle gravi movenze di una danza, e nell’intensità solenne di una festa; - la ritroviamo nel misterioso patrimonio degli usi e costumi, delle tradizioni e delle leggende;
- la ritroviamo, insomma, un po’ in tutto ciò che rispecchia l’antichissima anima di questo popolo: un’anima che può apparire ruvida e ombrosa, ma che si manifesta, invece, gentile e appassionata a chi sa avvicinarla e comprenderla."



Terra antica
Brulle e aride terre mai solcate da aratro, mai graffiate dalla mano dell’uomo, in cui gli sterpi ed i rovi fanno a gara con i sassi e le roccie che accompagnano i passi che degradano verso spiagge bianchissime o scoscesi dirupi che si tuffano in un mare screziato smeraldo e cobalto, intensissimo e fondo.
Dove lanci lo sguardo lontano per scorgere solo il placido pascolo di greggi sperdute a brucare un’erba che stenta a spuntar, fendendo la terra spaccata dal sole o indurita dal gelo, muovendo guerra al cardo selvatico per contendergli un poco di luce, dove solo i cani le tengono a bada correndo fra la testa e la coda del gregge, sotto l’occhio vigile del servo pastore che ogni tanto ristora sé stesso osservando le nubi, sotto un cielo rapito che pare sorrida.
Nel silenzio più assurdo, odi il suono del vento trascinare con sé i profumi del sale, del mirto e della polvere antica. E’ questa la musica dolce che suona il suo cuore più antico, un cuore rigonfio di una strana malia che dà nostalgia ad un popolo di fieri guerrieri pastori nato nel mezzo del mare, che da questo da sempre rifugge, rinchiudendosi fra impervie montagne che gli offrono asilo.
Non è una storia d’Amore infinito, tantomeno un’agreste novella, ma è la favola vera di chi volle lottare per essere sempre se stesso a dispetto di chi venne anche dal mare.
visechi is offline  

 



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