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Cultura e Società - Problematiche sociali, culture diverse.
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Vecchio 24-03-2004, 17.22.38   #31
Mary
Ospite abituale
 
Data registrazione: 02-04-2002
Messaggi: 2,624
x Nero Villa

Ho letto il tuo sito, davvero interessante.

Leggendo quel che hai scritto ho trovato una risposta che cercavo da tanto: perché i seguaci di Cristo sono diventati i nemici di Cristo?

Tornerò a riflettere sulle tue parole, sono molto importanti.

Cristo non era da seguire ma da attuare.
Il discepolo deve divetare maestro e proseguire il cammino del maestro.
Come la spiga colma di chicchi deve disperdersi e ciascun chicco deve sviluppare per proprio conto la nuova pianta. Ed un giorno sarà pronto ad evolversi.

Grazie per il tuo lavoro
ciao
Mary
Mary is offline  
Vecchio 08-05-2004, 15.24.54   #32
Nereo Villa
Ospite abituale
 
Data registrazione: 13-12-2003
Messaggi: 52
Dedicato a Mary

Cara Mery, ho letto solo oggi il tuo messaggio (sono sempre molto imbranato con internet) e ti ringrazio. Colgo l'occasione per mandarti questi pensieri, che sono la presentazione di ciò vorrei pubblicare in futuro in forma di libro. Ogni osservazione e critica (di tutti) sarà gradita. Siate cattivissimi, e il lavoro sarà più potente!
Un caro saluto.
Nereo

CIAO SCHIAVO

Domandarono a Dov Beer de Mezeritch: "Qual'è il miglior esempio da seguire? quello degli uomini compassionevoli, che dedicano la propria vita a Dio senza domandare perché? o quello degli uomini colti che cercano di capire la volontà dell'Altissimo?"
"Il miglior esempio è il bambino", rispose de Beer.
"Il bambino non sa niente. Ancora non ha imparato che cos'è la realta!", fu il commento generale.
"Siete di gran lunga in errore, perché il bambino possiede già quattro qualità di cui non dovremmo mai dimenticarci", disse de Beer, "È sempre allegro senza motivo. È sempre occupato. Quando desidera qualcosa, sa prenderla con insistenza e determinazione. Piange con tutte le sue forze, ma basta una parola tenera, o una nuova sfida, che immediatamente smette di piangere. Un bambino sa tutto ciò che è necessario per vivere in armonia con Dio".

Presentazione

"Ciao schiavo", più che una provocazione è una tautologia, in quanto la parola "ciao", significa etimologicamente "schiavo".
Ognuno di noi pronuncia ogni giorno un "ciao" senza quasi mai essere consapevole né del contenuto di questo concetto, né della propria schiavitù.
"Ciao schiavo", al di là della tautologia, della consapevolezza dialettica e di quella esistenziale, è la proposta a ritornare bambini e di giocare ancora, e con meraviglia.
Qui al mio paese di Castell'Arquato oggi pioveva a dirotto e, nonostante la pioggia, c'erano intere scolaresche di bambini e di ragazzi in gita con l'ombrello, e vari altri pullman di turisti, anch'essi che giravano per il paese medioevale con l'ombrello: sono le gite programmate mesi prima dai pianificatori della cultura.
Ma sono esseri umani intuitivi costoro, che mandano la gente in gita quando piove? Sono senz'altro liberi di programmare astrattamente la libertà altrui di andare in gita, però c'è qualcosa di robotico nel loro ponderare le cose che è molto lontano dal pensare umano.
E cos'è pensare umano?
Ogni essere umano ha il suo corpo fisico. Ogni corpo fisico ha un peso. Dopo il pasto il corpo fisico pesa di più di quanto pesava prima, tant'è vero che si potrebbe controllarne l'aumento con una bilancia. Ciò vuol dire che l'uomo è sottoposto alla legge di gravità. Ma con questa sola gravità, che è una qualità di tutti i corpi ponderabili, non potremmo fare un gran che, e l'uomo sarebbe costretto a girare il mondo come un automa, non come un essere cosciente. Cosa occorre dunque perché ci possiamo formare dei concetti che abbiano un valore... che cosa occorre all'uomo per pensare?
"Ciao schiavo", cosa pensi? Pensi che sia più importante il "cosa" che il "come" pensi?
Il cervello umano, di per sé, pesa all'incirca 1400 grammi. Se questi 1400 grammi gravassero sulle arterie che stanno alla base cranica, le schiaccerebbero completamente. Non si sopravviverebbe un istante se il cervello umano fosse fatto in modo da gravare con tutti i suoi 1400 grammi. È dunque davvero una bella fortuna per gli uomini che esista il principio di Archimede, secondo il quale, nell'acqua, ogni corpo perde tanto del suo peso quanto è il peso del liquido che esso sposta. Il cervello galleggia nel liquido cefalico e perde così 1380 grammi, poiché tale è il peso della massa liquida che corrisponde al volume del cervello umano. Il cervello preme con soli 20 grammi sulla base cranica, e questa pressione è sopportabile.
Ma tutto questo a che serve? Serve per darci una risposta assolutamente esatta e non relativa, e cioè che con un cervello che fosse soltanto massa ponderabile noi non potremmo pensare: noi non pensiamo con ciò che è sostanza pesante, ma pensiamo con la spinta ascensionale. La sostanza deve prima perdere il proprio peso, e solo allora possiamo pensare. Noi dunque pensiamo con ciò che vola via dalla terra.
Siamo però coscienti in tutto il nostro corpo. E da che cosa siamo resi coscienti in tutto il corpo?
Nel nostro corpo esistono 26 bilioni di globuli rossi, i quali sono abbastanza piccoli, ma anche pesanti, perché contengono ferro. Ognuno di questi 26 bilioni di globuli rossi galleggia nel siero del sangue, perdendo del suo peso tanto quanto sposta di liquido, così che anche in ogni singolo globulo rosso viene generata una spinta ascensionale; e proprio 26 bilioni di volte. Nel nostro intero corpo siamo dunque coscienti grazie a ciò che spinge verso l'alto. Possiamo così dire che quando ingeriamo alimenti, questi devono anzitutto venire alleggeriti, trasformati, perché possano servirci. Tale è l'esigenza dell'organismo.
Ora, questa capacità di pensare a questo modo, e di regolarsi in conformità ad esso, l'essere umano l'ha perduta, ed andò persa nell'epoca in cui era diventato necessario pensare ai problemi economici. Da allora in poi si tenne conto soltanto dei corpi ponderabili, e si dimenticò del tutto che in un organismo una sostanza ha un comportamento diverso in rapporto alla sua gravità quando subisce una spinta ascensionale.
Così incominciammo a credere che il nostro cervello secernesse pensieri allo stesso modo in cui il fegato secerne la bile, e nacque il "pensiero debole"... l'uomo senza meraviglia... lo smidollato... l'uomo senza io...
"Ciao schiavo", esigenza dell'uomo d'oggi, è il mio saluto al mondo nel nome del principio idrostatico di Archimede, che vale anche nel rapporto fra il mondo percettivo e la nostra organizzazione dell'Io. Infatti la forza di gravità della materia cerebrale non è attiva nel processo di formazione delle immagini e della rappresentazione.
Se il cervello, col suo peso poggiasse sulla sua base, i vasi cerebrali ne rimarrebbero schiacciati, ma esso non poggia sulla propria base, galleggia nel liquido cerebro-spinale. Il principio della spinta ascensionale lo fa pesare non più di una ventina di grammi, esattamente come "pesa" la lettera "resh", ventesima dell'alfabeto ebraico... Certamente il pensiero debole non può più comprendere oggi questa relazione, in ogni caso questo importante fenomeno mostra che LA FORZA DI GRAVITÀ NON È ATTIVA IN CIÒ CHE È SOSTENUTO DALLE FUNZIONI CEREBRALI. Ma le funzioni cerebrali non sostengono tutte le attività dell'Io?
Sarebbe interessante qui, vedere il rapporto della conformazione ideografica della lettera "resh" con altre due lettere, la "kaf" e la "bet", cioè con i relativi valori numerici 20 e 2. Le lettere che valgono rispettivamente 200, 20 e 2, vale a dire la "resh", la "kaf", e la "bet", così osservate testimoniano anch'esse l'importanza della funzione della testa umana come organo spirituale: osservando la forma di questi tre geroglifici si può notare che la loro base rimpicciolisce nella misura in cui si sale al valore più alto, "resh", che significa come parola "testa".

Illustrazione

La "testa" della Bibbia è il suo inizio "be-RESH-it", che significa, appunto "In principio", comprende in sé la lettera "resh"...
Certo, sarebbe interessante notare che anche qui vi è spiegato una specie di principio idrostatico di Archimede, però il pensiero debole dell'uomo attuale si rifiuta di fare queste connessioni di pensiero, impedito e preoccupato com'è nel rimuovere tutto ciò che non corrisponde alla sua fede politica. Perciò limiterò all'essenziale gli approfondimenti di queste "insulsaggini numerologiche" basate sull'alfabeto ebraico, perché "Ciao schiavo" è rivolto a tutti, forti e deboli, ricchi e poveri, ebrei e non ebrei...
L'attività dell'Io e l'attività rappresentativa propriamente dette non si fondano dunque sulla gravità della materia cerebrale, bensì sulla loro spinta ascensionale. E l'ascensione dal Golgota cos'è in fondo se non l'ascensione dal monte detto "cranio"? L'attività cerebrale stessa, cioè il corrispettivo fisico dell'attività rappresentativa si fonda su una forza che tende ad allontanare la materia dalla terra: con i miei pensieri, io non vivo nella forza di gravità, ma nella spinta ascensionale. È questo movimento dal basso all'alto che permette ogni mia esperienza di formazione delle immagini: le cose intorno a me vengono "salvate" nella mia memoria come immagini, tramite lo "scollamento" della loro forma... piena di OGGETTIVO contenuto immaginativo.
Nel vecchio millennio, nel vecchio mondo, si opposero a questa concezione gli imbestialiti seguaci del barone di Münchausen, i quali furono i primi a dimenticare il principio IDROSTATICO di Archimede. Fu così che il rapporto fra mondo percettivo e la nostra organizzazione dell'Io, dimenticando che la forza di gravità della materia cerebrale non è attiva nel processo di formazione delle immagini e della rappresentazione, venne via, via, sostituito da un altro tipo di intelligenza, quella dei programmatori di catastrofi economiche o di catastrofiche gite culturali sotto un'acqua che Dio la manda...
Nereo Villa is offline  
Vecchio 08-05-2004, 15.26.03   #33
Nereo Villa
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Presentazione (parte 2)

Gli imbestialiti seguaci del barone di Münchausen... scientifici bisnonni dell'attuale "cablatura cerebrale", o ombrello cerebrale, o scotomizzazione dell'Io umano, presero il potere in tutto.
Soprattutto l'idea che gli esseri umani siano meri corpi ponderabili, costituì nel vecchio mondo una fase della concezione secondo la quale niente esisteva all'infuori della materia, lo spirito non c'era, e la mente era "semplicemente" materia in movimento.
Tale posizione, presentata in maniera dogmatica da alcuni prestigiosi scienziati del secolo passato, faceva balzare i più alla conclusione che la vera modernità di pensiero dovesse escludere dalla conoscenza tutto il non-materiale. Ed anche se altri scienziati altrettanto prestigiosi, rifiutarono di credere a un universo, composto di sola materia, i primi, ottenendo maggiore consenso pur non trovandosi in posizione di vantaggio rispetto ai secondi, decretarono dogmaticamente la concretezza di "pensiero" della mera materia.
Era il tempo in cui la considerazione dell'esperienza del procacciarsi il cibo o di un bombardamento non poteva essere posta sullo stesso piano di realtà dell'esperienza di un coraggio che vince ogni paura, o di una speranza nel realizzarsi di un mondo migliore. Pertanto la fame nel mondo e i bombardamenti si affermarono maggiormente, tanto che se ne sente ancora oggi l'eco, ed ancora oggi molti preferiscono l'idea del corpo che produce la vita o del cervello che produce del pensiero, a quella della vita che crea il corpo e del cervello che riflette la vita.
Costoro distrussero tutto, anche la dignità della stessa vita umana. Costoro dicevano: "La luce è prodotta da una candela; se la candela viene spenta, la luce scompare" e non si rendevano minimamente conto che se la luce viene riflessa da uno specchio, quand'anche lo specchio venga distrutto o portato via, la luce nondimeno continuava e continua a brillare.
I prodi baroni di Münchhausen, erano capaci di sostenersi dunque per aria attaccati al loro codino di generazione in generazione: Marx si rifaceva agli scritti di Feuerbach, così come quest'ultimo si rifaceva a quelli di Lichtemberg, che poneva così il problema: cos'è che viene prima, lo spirito o il corpo? Come risposta a questa domanda, egli stabiliva che lo spirito era un prodotto dell'evoluzione del corpo. Da notare che, solo qualche decennio prima Cabanis era arrivato a sostenere: "Il cervello secerne pensieri come il fegato secerne la bile, e le ghiandole salivari la saliva." Lo stile del prode Münchhausen continuò poi con Lange, che scriveva (i seguaci del prode Münchhausen scrivevano molto): "I sensi ci danno gli effetti delle cose, di questi semplici effetti fanno però anche parte i sensi stessi, compreso il cervello".
Tutte queste "filosofie" semplicemente non avvertivano l'errore di mettere del vino nuovo nell'otre vecchio.
Procedevano un po' tutti così a quel tempo... perfino la geologia brancolava nel buio, parlando di immaginarie rivoluzioni per spiegare lo stato attuale della terra. Poi, pian piano, incominciò a indagare i processi reali che ancora oggi si svolgono sulla terra e a trarre DA QUESTI le deduzioni su quelli passati, conquistando così un terreno maggiormente sicuro. Altre scienze si comportavano invece come si comporta la teologia ancora oggi, quasi a voler sostenere che dal 3° secolo a. C. nulla di nuovo è avvenuto sotto il sole.
Eppure nuova sotto il sole non era venuta la libertà se era stato detto che il sabato era fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato? Non era l'esperienza psicologica della libertà un compagno invisibile dell'Io che scopriva la propria solitudine, anche dal sangue delle sue generazioni? Il sole non illuminava fedele l'Io caduto nell'oscurità dell'eclissi di Dio, nel suo silenzio? La libertà non era penetrata tra l'azione e il suo autore nel regno della legge, senza toccarne di essa un solo jota?
E per essa sotto il sole non è nato l'Io umano?
In quel periodo in cui si preferì derivare il pensare - o il cosiddetto "spirito-sovrastruttura" - dal corpo, e l'Io stesso dal corpo, la visione che riconobbe come reale solo il quadro degli avvenimenti terreni, e, in questi, solo quello degli esseri presenti sulla terra, e, tra questi, solo quello degli efficienti, potenti, violenti, degli informati, sapienti, saccenti, si dimostrò progressivamente un assurdo, una specie di straniamento progressivo dell'umanità.
Eppure, se voglio chiarire cosa stia prima, il corpo materiale o il pensiero immateriale, devo attuare l'operazione (spirituale, immateriale) del pensarci, perciò è DA QUESTO, cioè dall'immateriale ed antigravitazionale pensiero che bisognava - e bisogna - ripartire...
Senz'altro il Creatore doveva sapere come trovare il presupposto corporeo allo spirito. In quanto essere umano però io devo comprendere il mondo, non crearlo. Io non sono il Padre eterno.
Con quale diritto i seguaci del prode Münchhausen pretendevano di abbattere filosoficamente la filosofia o ideologicamente l'ideologia? Probabilmente questi antenati della paura si sentivano dei padri eterni...
"Ciao schiavo"... ora non c'è che da chiedersi come mai una "filosofia" dai presupposti così contraddittori abbia avuto tanto successo. A me pare che i motivi siano essenzialmente due: uno è che il materialismo dicendo che esiste solo ciò che si può toccare venne facilmente condiviso come verità e percepito da coloro che - avendo bisogno dell'ombrello o dell'elmo - non vogliono complicarsi la vita più di tanto nella comprensione della realtà, che invece risulta essere complessa. L'altro motivo è che la Chiesa ha omesso la SPIEGAZIONE FILOSOFICA, anticamente ancella della teologia, sostituendola con altra teologia, quella dogmatica. L'Io, il vino nuovo, è stato relegato NELLA legge, nel dogma di fede, nell'otre vecchio... perciò non può che scombussolare il pianeta. La Terra è espressione del corpo fisico del Cristo, e contiene in sé una specie di vivente, diversa da ogni altra specie, in quanto completamente nuova, e anticamente detta dai profeti che l'auspicavano, la specie dei figli dell'uomo. Essa era caratterizzata dal fatto (inaudito per quei tempi) che i suoi appartenenti avrebbero incominciato ad incarnarsi come "Io", ognuno appunto costituendo una specie a sé, non poggiante su carne e sangue. Erano i tempi in cui si sapeva "ciò che nasce dalla carne è carne, e ciò che nasce dallo spirito è spirito"...

Nei suoi "Manoscritti economico-filosofici", Marx scriveva: "Il grande contributo di Feuerbach consiste [...] nell'aver fondato il vero materialismo [...] positività fondata su se stessa e certa per la via dei sensi".
A nessuno venne in mente di chiedergli: vero materialismo o mistica della materia?
Già il fatto stesso del considerare il fenomeno della forza di gravità, avrebbe potuto chiarire che quel "GRANDE CONTRIBUTO di una materia fondata su se stessa" non era altro che una fede ingiustificata: se tutta la materia terrestre è tenuta dall'equilibrio centripeto della terra, la dipendenza della terra da forze non materiali risulta confermata. Tali forze non si lasciano dominare. Sono anzi esse stesse dominatrici del principio per cui ogni corpo fisico pesa.
Se LA VIA DEI SENSI avesse veramente legittimato Feuerbach e Marx a sostenere una POSITIVITÀ FONDATA SU SE STESSA, avrebbe dovuto dir loro anche come come soppesare, con tale via, il fondamento immateriale della terra materiale: come fa la materia terra a poggiare sul nulla?
Per fortuna al tempo dei prodi Münchhausen vi furono anche portatori sani, cioè critici, del pensiero patologico del tempo, ai quali non disturbò il metodo di studio di Goethe delle forme viventi, ripreso e sviluppato, specie per i regni umano ed animale, da Rudolf Steiner, il quale riconobbe come legge fondamentale della vita il mutamento delle forme, la metamorfosi... il ritmo...
Ora tutto ciò può essere riconosciuto matematicamente e geometricamente. E "Caro schiavo" non è altro che tale riconoscimento, necessario alla soppressione definitiva dello schiavismo, anche secondo lo Zen del prete Gianni, anticamente detto "Zanni".
Nereo Villa is offline  
Vecchio 23-05-2004, 15.22.14   #34
Nereo Villa
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CIAO SCHIAVO CAPITOLO I (a)

LA VERITÀ VI FARÀ LIBERI, LA MENZOGNA CREDENTI.

"Vado a passeggio, quindi sono"
Pascal


Forse che attraverso la filosofia, i libri, o gli espositori dello Zen, lo Zen è entrato nella nostra cultura? Questa domanda è imbarazzante nella misura in cui proprio il fatto di questo suo entrare nella cultura, divenendo fatto culturale, dialettica, proprio secondo lo Zen è INAMMISSIBILE: la qualità interiore del denudamento volitivo della determinazione pensante, non può diventare dialettica senza rinunciare alla propria natura. Infatti la sua forza, la cosiddetta "inespressione", non è il rinunciare ad esprimersi in forme percepibili dai sensi, ma la possibilità di espressione immediata, che al contrario riguarda perfino l'"indicibile", cioè l'elemento di vita, per via del quale l'umano è perennemente immerso nel suo fondamento superumano, anche quando egli non ne ha consapevolezza.
Uso il termine "forza d'inespressione" perché oggi l'espressione si è identificata con la dialettica. Per usare un termine teologico, avrei potuto anche impiegare la parola greca "kénosis", che significa svuotamento, denudamento, annientamento (Lettera di Paolo ai Filippesi 2,7), usata ma mai attuata dalla teologia, tant'è vero che la chiesa occidentale è strutturata secondo uno stile di comunicazione inverso, cioè faraonico, vale a dire menzognero. Ho preferito il termine "forza d'inespressione" in quanto la "forza di kénosis" presume una fede teologica e di essere un credente, e da questo punto di vista, occorre, soprattutto oggi, avere il coraggio di affermare che la menzogna fa dell'uomo un credente, nella misura in cui la verità lo fa libero. Sono due aspetti del pensare umano. Da un lato vi è il fare che è figlio del pensare, e che produce menzogna, dall'altro vi è un pensare che è figlio del fare, che produce libertà. Infatti se volessimo aspettare di conoscere il pensare prima di pensare, non arriveremmo mai a pensare. Per l'osservazione del pensare dobbiamo essere noi a fabbricare prima l'oggetto di osservazione, mentre per ogni altro oggetto è stato invece provveduto senza la nostra cooperazione. E così è per lo Zen.
Ma ciò sfugge all'uomo, soprattutto all'uomo occidentale.
Infatti, a questa affermazione riguardante il pensare, l'uomo dal "pensiero debole" obietta subito che "anche per digerire non si può aspettare d'aver osservato il processo della digestione". Quest'obiezione è però simile a quella che faceva Pascal contrapponendo il detto "io vado a passeggio, quindi sono" a quello di Cartesio: "io penso, quindi sono". Senza dubbio, debbo ben digerire prima di studiare il processo fisiologico della digestione, ma il paragone col pensare regge solo se io poi volessi non considerare col pensiero la digestione, ma mangiarla e digerirla. E non è senza ragione il fatto che la digestione non può divenire oggetto del digerire mentre il pensare può benissimo divenire oggetto del pensare. Il pensare dialettico non può che produrre menzogna. Ed anche queste stesse mie parole, in quanto dialettica sono menzogna…
Da Platone a Gentile, il significato di dialettica è infatti stato nobile, perché rispondente a un vero, attuato come tale nell'anima, significando movimento del pensiero, cioè un divenire in cui l'essere è tolto alla sua morta alterità, o fissità, come l'essere che simultaneamente è, e pensa se stesso.
Probabilmente anche Marx vedeva ancora nella dialettica un movimento vivente, anche se cadde in una svista singolare, vedendo talmente identica la dialettica alla materia, da non distinguere il pensato dal pensante, e perciò non avvertendo più l'autonomia del moto interiore che gli consentiva di immergersi nel divenire della materia, storico, economico, sociale ecc.
Ma quello che accadde dopo fu ancora più tragico per la cultura umana: l'esperienza interiore di quei pensatori iniziatori, per i quali la dialettica era semplicemente forma di un pensiero vivo, gradualmente si affievolì e si spense, e della dialettica rimase solo la morta spoglia, la trama logico-speculativa, di cui si compiacciono oggi tutti coloro che non hanno nulla da dire, ma devono dire qualcosa perché, per mestiere o per vanità, devono compiere analisi e sintesi di analisi, devono architettare concetti: per i quali hanno una connessione che sfugge loro. Se tentassero afferrare questa forza di connessione, dovrebbero trasformare se stessi: dovrebbero cominciare col cessare il loro filosofismo ciarliero, cioè di chiacchierare filosoficamente, o esteticamente, e lasciare cadere tutta quella raffinata espressività che sa trattare di tutto, con esperto linguaggio - talora talmente eccentrico e preciso da sembrare umoristico - ma che in sostanza non afferra nulla. E che non afferri nulla, si vede dalle conseguenze.
Lo Zen, dunque, è penetrato in questa cultura?
Occorre dire che, se vi è penetrato, ciò costituisce la menzogna, vale a dire che è avvenuto solo a condizione di far parte della struttura analitico-sistematica di quella cultura e di adeguarsi ad essa.
Una quarantina d'anni fa vi fu un tentativo di collegare lo Zen con la psicanalisi (cfr. D. T. Suzuki, Erich Fromm and Richard De Martino, "Zen Buddhism and Psychoanalysis", New York, 1963), come del resto aveva già tentato in forma più raffinata Hubert Benoit ricongiungendo il "lasciare la presa" con la psicologia di Jung.
Lo sforzo di far entrare lo Zen nel sapere occidentale ha avuto varie forme, propiziate talora dagli stessi portatori autorizzati dello Zen, da D. T. Suzuki a Lu K'uan Yù.
Se vi è dunque penetrato, proprio per questo motivo è difficile riconoscerlo, in quanto immesso in una veste che ne implica l'eliminazione sostanziale, cioè la riduzione a una intelligibilità che non ammette variazioni della natura mentale di cui è espressione, bensì solo modificazione discorsiva. Si tratta di adattare lo Zen a se stessi. Conoscerlo è altra cosa. La struttura dello Zen è tale che il cominciare a conoscerlo significa movimento della propria natura interiore secondo forze con cui tale natura ha smarrito il contatto. Si parla infatti di un movimento che non può non essere opposizione alla personale natura che generalmente si esprime nell'ordinario pensiero, cioè nel pensiero dialettico, quello che presume ridurre a sé lo Zen.
Quindi, delle due l'una: l'accordo con la purità delle cose vere, con i ritmi del cielo e della terra, da cui scaturisce quello stile wabi o sabi in cui lo Zen si esprime come attitudine riguardo al mondo esteriore, è in sostanza la spontaneità, in cui la vera natura dell'uomo comincia a manifestarsi. È la naturalezza ritrovata, in quanto si sia capaci di indipendenza rispetto alla natura che normalmente si è: quella la cui forza di sostentamento è la dialettica, mentre lo Zen è "indialettico". La contraddizione è dunque questa: che occorrerebbe conoscere l'ASCESI Zen per non rischiare di ridurlo senza vita al livello del proprio pensiero astratto.
Ma per liberare il pensiero dall'astrattezza occorrerebbe già conoscere una delle chiavi dello Zen, la verità che non lascia scelta, l'universale. Un testo Zen dice: "La verità non è difficile e non lascia alcuna scelta tra ordini di cose" (Shinji-mey del III Patriarca Szosan).
Ciò che in Occidente esprime una sorta di attitudine nichilista, dall'astrattismo all'esistenzialismo, dalla rivolta della logica simbolica contro la filosofia al sistematico anti-intellettualismo della tecnologia e, fino a manifestazioni di violenza anticonformista e anticonservatrice della cosiddetta "gioventù bruciata", può essere osservato come un oscuro tentativo di liberazione retorica che ormai s'imprime come deformazione nella natura umana. Molte forme odierne di autodistruzione sono espressioni poco consapevoli di una vocazione anti-dialettica, mediante cui si vorrebbe recisamente affermare se stessi contro la propria natura, mentre in realtà è proprio la natura che ancora una volta si afferma: ma non la natura come libera e pura forza, bensì come istintività dominante l'anima, grazie al suo dipendere dalla cerebralità.
In realtà dalle strettoie del pensiero riflesso è difficile uscire: non vi è attitudine anarcoide, o rivoluzione nichilista, che abbia il potere di spezzare il cerchio dell'astrattezza. Proprio a una simile pratica potrebbe rispondere lo Zen, dove in essa incontrasse sufficiente coscienza della condizione che tende verso l'esaurimento della dialettica mediante un altro tipo di dialettica. In altre parole, occorrerebbe riconoscere che non vi è abbastanza forza per negare fino in fondo ciò che suscita nichilismo o rivolta: in realtà è semplicemente mobilitata un'abitudine mentale priva di vitalità interiore, non la forza. Ci si atteggia, non si è. E poiché la forza in verità non ha bisogno di atteggiamenti, questo è il punto in cui lo Zen potrebbe essere orientativo, affinché il moralismo diventi morale ed il socialismo diventi sociale.
Nereo Villa is offline  
Vecchio 23-05-2004, 15.25.24   #35
Nereo Villa
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CIAO SCHIAVO CAPITOLI I (b)

L'azione morale, infatti, non è quella che obbedisce ad una moralità, ma è quella che ha dietro di sé forze SOPRAsensibili non cristallizabili in regole, o in sistemi. È là forma umana di tali forze. Le regole e i sistemi valgono per coloro che non potendo attingere direttamente alla forza, devono ricorrere a mediazioni esteriori per regolare se stessi. Sarebbe importante che i mediatori della moralità della massa fossero portatori della moralità, non moralisti: perché la morale non nasce dalla conoscenza delle leggi morali, ma dalla virtù soprasensibile, la cui estrinsecazione è poi identificabile dall'indagatore in serie di leggi: che possono orientare l'individuo ancora incapace di chiedere direttamente al proprio essere interiore l'orientamento. Nessuna legge morale crea la morale. Così nessuna teoria crea la pratica: soltanto nella traduzione in realtà di contenuti fisici e meccanici, vi è rispondenza tra pensiero e azione pratica, ma è evidente che non si tratta di azione vera, perché il poter realizzare praticamente il prelievo di una somma su un conto bancario, per versarla a favore di un gruppo di bisognosi è azione pratica soltanto in quanto si attua per il contenuto ideale che comporta; l'azione pratica non è il movimento meccanico dell'andare in banca, prendere la somma e portarla ad altri, bensì l'obbedire mediante consequenzialità pratica a una decisione interiore: vado in banca, in banca devo fare la coda perché allo sportello davanti a me ci sono altre persone, quando viene il mio turno il banchiere mi chiede un documento che non ho e che devo procurarmi, allora vado in un altro ufficio, altra coda, ecc.: la mia volontà è lo scorrere di questa decisione in un'azione, piuttosto che nel meccanismo dell'azione stessa. Nella "praxis" hegeliana, come in quella marxiana, si crede di seguire il movimento dialettico o l'idea in movimento, ma in realtà si scade nel meccanismo astratto di una volontà che non è né libera né non libera, perché non si tratta della reale volontà, bensì di un momento astratto del processo della volontà che in effetti lascia agire la volontà vera, quella che si sottrae al pensiero, e che nessuno considererà mai (le mie paranoiche code agli sportelli sono infatti tutt'altro dall''"azione pratica" di beneficare i poveri) e perciò al concetto che presume identificarla.
D'altra parte, il nostro arido, geometrico, e smagliante, per quanto disanimato pensiero occidentale non può non essere considerato il segno di una forza. Ma è il segno di un incontro, e di una lotta con la bruta potenza della terrestrità, da cui sorgono il regno delle macchine, delle industrie, dell'economia, le foreste pietrificate di cemento e di asfalto, ed il vorticoso movimento dei veicoli di terra di mare e del cielo. E di questo pensiero non ci si deve liberare, perché questo pensiero è la forza stessa della nostra liberazione. Ma come fare?
Al nostro corpo in quanto organismo fisico non interessa il soprasensibile, perché ce l'ha già, ne è tutto strutturato. Il corpo non ha niente da conoscere, perché ha tutto in sé, ed il suo operare consiste, secondo il Tao, nello stare armonicamente nel mondo sensibile per fornire il giusto materiale al pensiero, ed alla coscienza, che soli, dove si ravvivino della loro indialettica forza, ricongiungono al soprasensibile.
In definitiva, dunque, occorre dire che lo Zen, attraverso le interpretazioni dei moderni suoi espositori non si lascia afferrare facilmente, e quel che circola è difficile che sia lo Zen. Oltretutto, se volessimo aspettare di conoscere lo Zen prima di adottarlo, non arriveremmo mai a conoscere lo Zen…
Al di là di ogni interpretazione occidentale dello Zen e di ogni implicazione filosofico esistenziale di esso, comunque, il pensatore occidentale, oggi, proprio nella sua particolare attitudine gnoseologica, una possibilità di attingere nuovamente allo spirituale, ce l'ha: è la sua possibilità di afferrare il momento originario del conoscere. Come in un determinato periodo di evoluzione del pensiero europeo ebbe a riconoscere Novalis con il suo "idealismo magico" (Cfr. L'Introduzione di Augusto Hermet ad "Inni alla notte e Canti spirituali di Novalis", Lanciano, Carabba, 1912.), ormai si è a un punto in cui il pensiero non può valere se non come vivente germe di azione: altrimenti diviene un falso. Forse, ancor prima che a un Kierkegaard e ad un Nietzsche, l'esistenzialismo positivo dovrebbe esser fatto risalire a quella misteriosa e luminosa figura di asceta e poeta che fu Novalis.
Difficile assunto quello del pensiero che si deve fare vita: il problema dei problemi. L'esistenzialismo non percepito per quello che è, cioè come esigenza ideale, e proiettato in atteggiamenti esteriori, è divenuto sempre più qualcosa di grottesco e di assolutamente estraneo all'istanza iniziale. Peraltro, ogni prescrizione riguardo all'agire non può essere che "regola", e la regola è ciò che di continuo l'individuo, per pigrizia interiore, ama sostituire al momento della libertà: egli ordinariamente non ha la forza di destare in sé una relazione pura con l'esistere, tale che ogni volta intuisca l'atto essenziale e necessario a una data situazione. Una filosofia dell'azione in senso taoistico, per l'uomo moderno, non può essere che una "Filosofia della libertà" (R. Steiner, "Die Philosophie der Freiheit", Basilea, Geering, 1951). Questa in definitiva mira a rendere ragione del passaggio dall'essenza all'esistenza che è - secondo lo spirito dello Zen - indipendente da ogni prescrizione teorica: sia che questa si intenda come escludente l'esistenza, sia che la si intenda come includente l'esistenza. Infatti, ogni pensiero, che in un modo o nell'altro fissi la regola, non può che restare chiuso in essa, come in un sistema indefinito, oltre il quale niente è veramente conoscibile.
Si tratta di comprendere come col moto dell'intelletto non si passa all'azione, cioè né all'"agire", né al "non agire". Dall'ordinario pensiero non si passa all'azione perché tale pensiero nella sua astrattezza è un circolo chiuso dal quale non c'è via d'uscita: mentre dal pensiero vivente, o pensiero essenziale, non c'è da uscire, perché fuori di esso non esiste nulla in cui si debba entrare (Cfr. G. Gentile, "Sistema di logica come teoria del conoscere", vol. II, Firenze, Sansoni, 1942).
Ed anche la moderna psicanalisi non essendo in grado di condurre al pensare essenziale - scientificamente, cioè sperimentalmente - libero, non può che produrre - anche a lato delle interpretazioni occidentali dello Zen, di ogni implicazione esistenziale di esso, e di ogni forma possibile di contestazione moderna - schiavitù. Sarà il tema del prossimo capitolo.
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Ciao Schiavo - Cap. II (a) - L'inconscio della mutua

Ciao Schiavo - Cap. II (a) - L'inconscio della mutua
Le contorsioni del serpente non
sono la sfericità universale.
L'INCONSCIO DELLA MUTUA

Quando credo di pensare cose e situazioni, e di assumerle logicamente, salvo taluni rari casi di esercizio di mera razionalità, per esempio nel campo della matematica, in realtà, normalmente penso ciò che il mio "sentimento" ed il mio desiderio proiettano in esse, senza accorgermene. E così è per la maggior parte degli esseri umani. Se infatti si vuole essere sinceri, si riconosce che l'automatismo discorsivo è sempre pronto a prospettare discorsi lungo un sentiero segnato, percorso in effetti dall'istinto o dal sentimento, che il pensiero, divenuto debole, segue inerte. Crediamo di essere freddi razionalisti, ma in realtà siamo infantilmente istintivi. In questa tipica situazione psicologica, l'umanità è stata privata di questa conoscenza in quanto la psicanalisi si è facilmente impossessata dell'argomento, ed ha di fatto generato la perdita della possibilità che un'impostazione oggettiva e pragmatica di questo problema soccorresse l'uomo.
La psicanalisi e la psicologia analitica hanno fissato quel problema nel suo stato di insolubilità, necessario allo sviluppo della loro dialettica, e l'hanno complicato in modo contorto tramite INTERPRETAZIONI, ma interpretazioni, PRIVE DI PERCEZIONE dell'oggetto di cui presumono essere indagine. Infatti, solo un'interpretazione che si ferma ad una sfilza di immagini di un oggetto, senza avere alcuna consapevolezza di produrla essa stessa - tramite attività riflessiva - come qualcosa che ha altrove e non in sé il fondamento, può parlare di "inconscio".
Perciò, con l'indicare l'"inconscio", la psicanalisi e la psicologia INCONSCIAMENTE indicano il fondamento da cui ESSE STESSE SONO POSSEDUTE, senza possibilità di identificarne la reale natura. Ed oltretutto, elaborando quella possessione secondo una problematica che, a partire dal regolare sviluppo dialettico, fino alla formulazione dei metodi terapeutici, la esprime con organica progressione, le conferiscono i caratteri di un autentico "universale", alla cui autorità si sente che esse non potranno più sottrarsi.
Il caso di un tema svolto e descritto come se fosse "universale", senza alcuna garanzia - di esperienza basale di ordine noetico o gnoseologico - di ciò che si deve intendere per universale, rivela pertanto il senso di uno pseudo fondamento del pensiero: una vera e propria possessione mentale, da parte non tanto di un istinto personale, quanto di un ente impersonale, che reca i caratteri tipici di una demonicità, di cui tanto lo psicanalista compenetrato di presenza dell'"inconscio", quanto lo psicanalizzato, subiscono il movimento, senza possibilità di coglierne l'identità e perciò neanche l'assoluta estraneità alla vita della coscienza.
E ciò è gravissimo. Perché se il tema fosse semplicemente logico-analitico, la possessione sarebbe meno pericolosa di quella possibile mediante il tema psicoanalitico, la cui espressione dialettica non chiama in causa un elemento formale ed un procedimento parimenti formale, come il tema logico-analitico, bensì il contenuto stesso, che opera come premessa, o assioma primo, appunto l'inconscio.
L'assenza di fondamento tanto nel processo riflessivo psicanalitico quanto nella sua applicazione, viene poi occultata dal linguaggio specifico e dall'apparato dialettico che, senza alcuna mediazione, trapassa in metodo "terapeutico" in cui non viene perpetrato inganno per deliberato proposito, ma per insufficiente coscienza del rapporto fra pensiero e presunto oggetto psichico. L'assenza di esperienza di tale oggetto viene compensata dal meccanismo della "terapia" dialettica e dal fatto che la sicurezza di tale meccanismo suscita l'immediatezza di una temporanea fiducia nel paziente, che è incapace di trarre fiducia da altra fonte.
LA PSICANALISI di Freud e di Jung, credendo di scoprire l'"inconscio", o per lo meno di interpretarlo, e in qualche modo di operare su esso, È dunque ESSA STESSA ESPRESSIONE DELL'INCONSCIO, e non tanto di quello che essa dottrinariamente descrive e mitizza, bensì di quello che possiede i suoi espositori, in quanto questi, non padroneggiando il pensiero, lasciano operare su di loro qualcosa che non è pensiero, ma sentimento.
Il sentire subconscio diventa pertanto dialettismo, per cui come pensiero perde la virtù penetrativa ideale, alla quale sostituisce una dinamica associativa e pseudo-intuitiva che appartiene al sentimento. Una simile situazione viene efficacemente mascherata dalla codificazione scientifica e dal sempre pronto conio terminologico.
Questo sentire subconscio, che poté divenire scienza della psiche, se osservato spregiudicatamente, non può essere confuso con la fonte delle pure intuizioni intellettuali, né con il vero sentire, perché risulta solo il risuonare psichico del sistema nervoso, ed in particolare del sistema neurovegetativo. Le minime alterazioni del sistema nervoso, e l'irregolare rapporto neurovegetativo con il sistema del ricambio, si ripercuotono perciò in una gradazione di mali, che vanno dalle forme lievi di nevrosi alle forme paranoiche e psicotiche tipiche.
La psicologia, dunque, avendo rinunciato alle sue basi noetico-speculative, ha perso tra l'altro la possibilità di essere positivamente integratrice o cooperatrice della psichiatria, ed è giunta a mitizzare psicanaliticamente fenomeni riducibili a fatti corporei, per la sua incapacità di distinguere l'"inconscio" - come zona di dipendenza della psiche da inerenze neuro-sensorie - dalla reale vita della psiche e dei suoi rapporti con le forze autonome della coscienza.
Sembra che i fondatori e i prosecutori della psicanalisi muovano dall'idea dell'inconscio, ma in realtà muovono dal sentimento, anzi: dall'oscuro sentimento dell'inconscio, che non può essere intuizione o idea, perché l'intuizione o l'idea è sempre l'elemento interiore di una percezione o di una serie di percezioni, cioè un elemento interiore, INDIPENDENTE dalla percezione stessa, la quale può avere come contenuto tanto un oggetto fisico, quanto un oggetto interiore (un impulso, un sentimento, un pensiero).
La percezione dello psicanalista non può essere altro, riguardo a un nevrotico, che il suo quadro clinico, o i suoi discorsi, le sue confessioni; riguardo a se stesso, la sensazione del proprio corpo e il proprio mondo psichico.
Nessuna di queste percezioni può autorizzare l'IDEA DELL'INCONSCIO con i suoi noti sviluppi, ma tutt'al più l'IPOTESI DELL'INCONSCIO.
E per verificare tale ipotesi è indubitabile che occorra un'esperienza di forze della COSCIENZA, fondata sulla CONSAPEVOLEZZA della vita delle idee e sulla possibilità di operare mediante questa. Ne consegue che l'oggetto della verifica, che per definizione è ESTRANEO ALL'IDEA DI CONSAPEVOLEZZA, riguarda un "inconscio conscio", dunque un inconscio che inconscio non è! "La conoscenza dell'inconscio" è dunque scientificamente sensata quanto potrebbe esserlo "l'asciuttezza dell'acqua", "la sfericità del cubo", "la bianchezza del nero", "la materialità dell'antimateria", ecc. Sembrano giochetti di parole questi. Eppure i giocati siamo noi, nella misura in cui crediamo più all'inconscio che alle nostre profondità spirituali, che dovremmo casomai chiamare "iperconscio"...
Per chi lo vuol vedere, l'indagine psicanalitica salta dal sentire al pensare, come se pensare ed sentire fossero essenzialmente identici, salta cioè dalla serie delle PERCEZIONI (sentire) cliniche e discorsive, ad una serie di corrispettive RAPPRESENTAZIONI (pensare), che tratta né più né meno che come percezioni reali, e di conseguenza come concretezze scientifiche! Da qui la sua specifica dialettica non reale. La dialettica dell'indagine psicanalitica infatti non esce dal limite delle sue rappresentazioni iniziali, perché fra i suoi formulari deduttivi non ne esiste uno in grado di oltrepassare quel limite, proprio perché tali formulari si sviluppano da enunciati che esprimono quelle rappresentazioni, che, pertanto, sono irreali. Per essere reali dovrebbero rispondere ad esperienze oggettive della psiche secondo regole noetiche, che la psicanalisi mostra di ignorare, anche se ad esse sembra fare riferimento. In parole povere, l'inconscio è una bufala, uno strumento che da' l'impressione di servire all'assistenza dell'essere umano, mentre in realtà lo priva delle sue capacità più profonde, lo priva del suo spirito. Per questo lo chiamo "inconscio della mutua", per indicare che si tratta di una forma di "assistenzialismo" che anziché assistere l'uomo, lo depriva dei suoi poteri reali.
In particolare, Jung riesce a dare l'impressione di una familiarità con lo spirituale, riconoscibile ad un occhio esperto come un fatto mitico, di valore tutt'al più estetico, ma insidioso per la relazione di cui diviene persuasivo veicolo, mentre a un esame semplicemente logico risulta patente in Jung l'assenza di base teoretica e metodologica, nonché di retto intuito, per una conoscenza dell'elemento soprasensibile, di cui è strutturata la psiche.
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Vecchio 28-05-2004, 08.57.38   #37
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Ciao Schiavo - Cap. II (b) - L'inconscio della mutua

Il termine "inconscio" designa dunque un concetto che vuole significare un atto della coscienza abbracciante qualcosa che per sua natura tende a sfuggirle, ma che in definitiva non le sfugge, in quanto essa, per averlo come oggetto, deve ravvisarlo come un "minus quam", rispetto a se stessa. Si tratta in definitiva di un concetto impossibile, nella misura in cui implica che si possa conoscere qualcosa di cui non si sia coscienti.
Tutte le rappresentazioni dell'inconscio sono attività ideali che arrivano a prospettarsi processo psichici intesi come DIMINUZIONE o come continuazioni INAFFERRABILI della vita della coscienza, di cui esse sono le uniche legittime testimonianze! Qualsiasi indagine in tale direzione non è se non il movimento dell'idea che giunge, tra l'altro, a concepire l'"inconscio", ma solo in quanto è l'unica attività della coscienza capace di concepire qualcosa oltre se stessa, e di conseguenza pervenire a temi o ad enunciati, che non possono eliminarla senza perciò eliminare se medesimi.
Il concetto d'"inconscio", estraniato a una simile coerenza, è dunque equivoco, perché usato in contraddizione con la sua psicologica significazione, cioè rapportato a un oggetto che sembra esistere da sé, aver vita propria, fuori dell'idea da cui unicamente è sorto. In tal modo, nella psiche opera un contenuto, dotato di fenomenologia propria, e stimolato da una dialettica che non ha nulla a che vedere con esso. E in ciò rivela il suo aspetto più inquietante (per non dire pazzesco), il cui prodursi continua tuttavia ad essere la serie di proiezioni dell'originaria idea d'inconscio, senza possibilità di riconoscimento della sua effettiva genesi, per cui la stessa dialettica psicanalitica finisce con lo svolgersi come fatto autonomo, che evidentemente codifica la sua non conoscenza della relazione tra coscienza e psiche, e perciò il suo mancare essa stessa in sé della propria relazione originaria.
NON È TANTO ALLARMANTE LA PRESUNZIONE DELLA PSICANALISI DI CURARE IL MALE PSICHICO, QUANTO IL SUO PORSI COME SCIENZA DELLA PSICHE, AVENDO TUTTE LE CARATTERISTICHE DI UN FENOMENO PSICHICO ESSA STESSA. La sua inconsapevole autonomia rispetto all'idea originaria e il suo processo dialettico conseguentemente automatico, la pongono sul piano dei fatti della natura: acquisita una loro obiettiva alterità, non possono non rientrare nell'ordine di una pragmatica e pur astratta necessità, e perciò non possono non opporsi al pensiero, come negazione della vita dell'anima, cioè dell'unica realtà che giustifichi un'indagine come quella psicanalitica e il suo darsi parvenza scientifica.
Una conseguenza dell'azione esercitata da Freud e da Jung sulla cultura di questo tempo, è stata il decisivo contributo all'eliminazione del "sacro", mediante la sacralizzazione dell'inconscio. In ciò particolarmente si è distinto Jung, che si è rivolto al tema direttamente, ritenendo di avere in esso il "contenuto". Le conseguenze di tale azione si sono concordemente combinate con quelle dello scientismo e dell'automatismo tecnologico-analitico, quasi come forme di un identico impulso mentale.
Quando uomini rappresentativi della scienza si servono della loro indagine per demolire l'elemento conoscitivo a cui unicamente l'indagine deve la sua possibilità di movimento e il suo magistero, e compiono ciò con la presunzione di elevarsi al livello di un'osservazione dei fatti della coscienza, non c'è da stupirsi che l'uomo medio, in tutto ormai condizionato da quanto gli viene prescritto dalla scienza, cessi di considerare la gerarchia delle facoltà interiori e il valore dell'etica, e di conseguenza sia portato a respingere il "sacro", covando un'oscura rivolta dal basso verso tutto ciò che è elevato, nobile e dignitoso.
Da quasi un secolo e mezzo, la concezione di "inconscio" si è affacciata nella filosofia occidentale attraverso tre pensatori: Schopenhauer, Carus, ed Hartmann. Non è errato vedere in queste assunzioni speculative dell'inconscio la filiazione del "caput mortuum" lasciato fuori dalla filosofia kantiana, con la "cosa in sé", inaccessibile alla coscienza umana e pur reale: CONCEPITA UNICAMENTE MEDIANTE IL PENSIERO E PUR VISTA COME IMPENETRABILE AL PENSIERO.
La VOLONTÀ di Schopenhauer, l'INCONSCIO di Carl Gustav Carus e di Eduard von Hartmann, infatti, sono presupposti mentali, cioè atti della coscienza speculativa che a un certo punto limita se stessa e che, oltre il limite, intravede un mondo "psichico" o "extrarazionale". Ma di questo non può vedere se non ciò che può esserle cosciente, per cui ogni volta il concetto di inconscio viene da essa eliminato. Nella determinazione, deve infatti cessare di esserle inconscio. Perciò, in realtà, non c'è mai, e tuttavia viene ogni volta supposto, mediante un pensiero che, per esserci, deve essere pensiero cosciente.
Questo discorso dovrebbe portare a conclusioni severe in merito a questi responsabili del conoscere umano, che hanno fuorviato l'indagine della coscienza, proiettando fuori della coscienza ciò che non sono stati capaci di afferrare dentro di sé, pur presumendo compiere simile indagine.
In effetti, a causa di un'indebolita coscienza filosofica, o gnoseologica, nel tema dell'inconscio, ingenuamente e confusamente trattato, è potuto riaffiorare il DOGMATISMO, e riprendere vita il CADAVERE DELL'ANTICA METAFISICA (non la metafisica).
Dall'impotenza gnoseologica della speculazione occidentale è sorta la possibilità che del tema dell'inconscio si impossessassero esclusivisticamente la psicoterapia e la psicologia, e che a un certo momento Freud rovesciasse il rapporto: non più la filosofia poteva illuminare dall'alto l'indagine dell'inconscio alla psicologia, bensì la psicologia, che con autorità prendeva le redini della ricerca, e ne traeva le conclusioni non soltanto per se stessa, ma anche per la filosofia, e persino per la religione.
Venne poi Jung, che estese quest'autorità, suggeritrice dei loro significati ultimi, alle mistiche, alle tradizioni, ed alle metafisiche.
Il problema dell'anima, chiuso ed estraneo per sempre al dialettismo filosofico, diveniva campo di ricerca di un dialettismo ancora meno provvisto, ma provvisto di linguaggio scientifico, e di presunzione metafisica, nonostante la sua incapacità metafisica e la sua impossibilità di concepire che nell'anima si debba entrare con forze essenziali dell'anima, e non con la glossolalia psicanalitica.
In modo micidiale venivano così inferti i colpi decisivi alla possibilità che la civiltà della macchina si collegasse con forze di una direzione superiore del mondo.
La civiltà della macchina si è collegata invece con l'"inconscio della mutua" di bestie parlanti, cioè di pensatori senza pensiero, e di filosofi senza filosofia. Per tale motivo, la moderna psicanalisi, sostanzialmente incapace di condurre scientificamente alla "prova", cioè all'esperimento della libertà, ha generato nell'interiorità dell'uomo psicologica schiavitù, cioè "legittimazione" dialettica di progressivo condizionamento dell'umano, esattamente come hanno fatto e fanno tutte le interpretazioni occidentali dello Zen, la new age delle sue implicazioni esistenziali, e tutte le forme odierne di contestazione.
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Vecchio 28-05-2004, 08.58.58   #38
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Ciao Schiavo - Cap. II (c) - Bestie parlanti e collasso della filosofia

BESTIE PARLANTI E COLLASSO DELLA FILOSOFIA

L'attuale dialettica, tanto di destra quanto di sinistra, risente perciò di questo collasso degenerativo del pensare umano. Il filosofismo ciarliero ne ha preso il posto pretendendo avere contenuto storico, filosofico, morale, sociale e sociale-economico, mentre non è altro che struttura discorsiva, vuota di contenuto reale.
Un esempio di questa situazione aberrante delle condizioni umane, lo si ritrova nelle varie confessioni religiose, nelle quali l'adepto deve solo imparare che per entrare nelle case per portare la propria dottrina di fede e convincere la gente, deve innanzitutto partire dall'uso della parola "interpretazione", con la quale egli deve contestare qualsiasi altra fede diversa: "Questa, è la tua interpretazione, ma c'è scritto…", ecc. Il malcapitato, che attraverso prove inconfutabili dimostri l'insensatezza o l'inesattezza dialettica delle affermazioni del "testimone" indottrinato, riceve nella maggioranza dei casi insulti, in quanto di fronte al fatto dimostrato di un linguaggio usato come mera struttura discorsiva priva di contenuti reali, il dialettico deficiente di contenuto, trovandosi alle strette, è completamente invaso dall'avversione, la medesima che lo aveva portato ad operare secondo l'assunto transazionale "la mia interpretazione è giusta, la tua no" (io sono OK, tu non sei OK, tipico del mondo criminale). In altre parole se il malcapitato cita un passo del vangelo che dimostra il contrario delle affermazioni del "testimone" indottrinato, riceve invariabilmente risposte del tipo: "Il vangelo tu lo puoi citare, ma ugualmente non lo capisci". La stessa cosa capita con l'indottrinato di tipo politico o mentecattocomunista al quale si citi un passo di Marx. Costui sempre risponderà: "Marx tu lo puoi citare, ma ugualmente non lo capisci".
È l'avvento delle bestie parlanti a causa del collasso della filosofia.
Il forte indebolimento del pensiero e della dialettica teoretica consiste nel fatto che essi soffrono della condizione generale di un filosofare analitico, assolutamente deficiente di rigore formale che non sia retorico. Infatti i loro temi, essendo di natura ideale, esigono un'attività intuitiva che, in quanto tale è immateriale, ma che - proprio per questo motivo - rimane tagliata fuori dal materialismo in quanto elemento metafisico irreale!
Dalla dialettica hegeliana, che si fondava ancora su un movimento intuitivo, è dunque nata la dialettica con apparente vita intuitiva, ma che in realtà è priva di idea, e dal deterioramento della dialettica priva di idea è nato l'attuale dialettismo o filosofismo ciarliero del mentecattocomunismo.
Infatti, l'idea, essendo puro elemento immediato del pensiero, si da' a un atto d'indipendenza dell'intelletto dalla mediazione pensante. Il dialettismo necessita invece sempre di presupposti assiomatici, di mediazioni, già compiute, e discorsivamente fissate, evitanti l'esperienza dell'originario pensiero.
È così che il dialettismo scambia per originario pensiero la premessa dogmatica, il pensato. Costruisce l'edificio sistematico-analitico sulle sabbie mobili del pensiero riflesso, degradando la cultura, corrompendo i popoli, costituendo l'idolatria della materia, creduta come qualcosa di fondata su se stessa. Per tale fondamento il "pensato" del materialista dialettico è dunque impenetrabile, pietrificato.
Qui è il male, il collasso, e l'impossibilità a qualsiasi mutamento sociale, in quanto il cambiare idea del mentecattocomunista è impossibile. Non ce la fa. Non può farcela.
Il dialettismo, mancando di correlazione interna di pensiero, generata dalla sua radicale opposizione all'elemento intuitivo puro, necessita di correlazione discorsiva, cioè di formalismo, che non può nemmeno essere formalmente logico: infatti, dove si costituisse con rigore positivistico, non potrebbe non procedere fino a mandare in frantumi l'intero sistema, e perciò se stesso. Il suo contenuto non essendo ideale, è perciò psichico, e in quanto tale, non trovando equilibrio né in un rigore formale, né nella concretezza di un tema, diviene il correlatore delle parole, e l'unica strutturalità possibile in tale discorso è semplicemente l'assonanza delle parole, o l'associazione di concetti similari. Qui veramente accade che il nero si possa far passare per bianco e viceversa, e che la storia e la cultura trascorse possano venire retroattivamente mutate, secondo il dettame dialettico dell'influsso psichico del momento.
Il dialettismo ha tentato tra l'altro di ricondurre al proprio schema l'antica metafisica indiana, in particolare quella sankariana, che con la sua struttura si presta meglio all'interpretazione discorsiva. Ma la realtà è che l'automatismo discorsivo, come segno di un'opposizione cerebrale al pensiero vivo, è un fatto di questo tempo. L'automatismo discorsivo tenta di collegare a sé ciò che del passato gli appare formalmente affine, per ridurlo al proprio contenuto psichico attuale scindendolo, come ha già fatto con l'hegelismo, dalla sua interna identità, con cui non potrebbe stabilire contatto.
Il sistema di Sankara, per la sua impostazione formale, si presta alla riduzione dialettica del contenuto ad un monismo astratto, politicamente adoperabile dall'attuale monoideismo automatistico. Ma neppure logicamente questo può collegarsi con l'antica metafisica, essendo esso proiezione di un'esperienza del mondo fisico, non consapevole del proprio fondamento, e possibile nella forma modernamente assunta, proprio perché privo di consapevolezza di quel che è metafisico, anche se di metafisica può parlare.
La dialettica greca e indiana, qualitativamente diverse e rispettivamente conformi a relazioni distinte - l'una con l'ESSERE, l'altra con l'ESSENZA - erano in realtà il pensiero nel suo incontro con la necessità espressiva da esso già intuita prima del processo formale. Non erano il processo formale stesso, il quale non fu mai concepito come valido in sé. Persino Cartesio, Hegel, e Gentile - maestri di pensiero, a cui tuttavia sarebbe inutile risalire per apprendere un'arte del pensare puro, esigente non filosofia ma ascesi di pensiero - poterono parlare, in un'epoca già intellettualistica, di un pensiero fondato su se stesso, non identificabile con l'analitica del discorso.
Ciò che avvenne quando fu progressivamente carpito all'heghelismo il tessuto discorsivo della dialettica, venendo ignorato o respinto il contenuto ideale che solo la giustificava, è dunque un oscuro e triste atto, che segna il principio dell'ottenebramento della coscienza umana. Esso può essere ravvisato in tipici impersonatori che, da Marx a Jung, hanno potuto far valere universalmente, mediante dialettismo scientifico e logico, contenuti apparentemente mentali, ma in realtà espressivi dell'ALTERAZIONE MENTALE.
Credo che, senza questo decadere della filosofia, non sarebbe sorto formalismo dialettico, né conseguente formalismo empiristico-logico, perché non ce ne sarebbe stata la necessità, così come non è necessario per il bambino imparare a camminare con le sue gambe attraverso formalismo dialettico o empirismo logico. Strumentalmente, giovandosi di talune strutture della logica simbolica, una tecnica formale e una reale metodologia si sarebbero potute costituire tutt'al più sulla base di una scienza pura del pensiero, e perciò come espressione di una positiva scienza dello spirito.
Agli inizi dell'epoca delle scienze naturali è mancata allo studioso del mondo fisico l'ausilio di una reale filosofia della natura. Infatti Kant eliminò la possibilità della penetrazione dell'essenza del fenomeno, Schelling ed Hegel vennero meno al concorde impegno di costruire una scienza intuitiva della natura, operante come arte di accostare i fenomeni, meglio che mediante rappresentazioni esatte del loro processo fisico. Soprattutto col dare modo all'indagatore di seguire ciò che si compie nella scena della coscienza, cioè nella controparte interiore dello sperimentare fisico, costoro avrebbero potuto riuscire in ciò.
Il dialettismo è invece divenuto possibile per il venir meno dei massimi filosofi dei secoli XVIII-XIX - ancora capaci di pensiero intuitivo - a un compito richiesto dalla cultura umana, e per il quale, in un modo o nell'altro, essi non ebbero le forze, come è controllabile storicamente e filosoficamente.
I disastri di oggi risalgono a tale atto di nascita del dialettismo dal fallimento del pensiero dialettico, che era la forma di un pensiero ancora capace di movimento concettuale e di CONSAPEVOLEZZA DEL CONCETTO come fondamento. Venuto meno il pensiero, la FORMA ha continuato a procedere per suo conto come discorso analitico.
Perciò oggi, tolte le esperienze formali della logica e della matematica, e quelle reali della fisica e della chimica, obiettive sul piano esclusivo della mineralità e della misurabilità, il resto dell'esperienza umana è un dialettismo con apparenze di contenuto, dovute all'uso della terminologia scientifica usurpata alle uniche esperienze che la giustificano.
Il contenuto psichico del formalismo dialettico non ha rapporto con gli oggetti a cui si riferisce. E ad un'indagine realistica risulta che il suo compito è IMPEDIRE CHE TALI OGGETTI VENGANO VERAMENTE CONOSCIUTI, non essendo oggetti come quelli delle scienze fisico-chimiche, ma CONCETTI come: società, libertà, capitale, merce, prezzo, socialità, ecc. È l'opposizione al conoscere, mediante l'esclusivistico sviluppo dell'aspetto formale del conoscere: per cui l'oggetto rimarrà sempre estraneo al ricercatore, mentre egli simultaneamente alimenterà in sé la persuasione di possederlo nella misura in cui ne parla.
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Ciao Schiavo - Cap. III (a) - Rifondazione del pensiero o teste mozzate

"Riechen wir noch nichts von der göttlichen Verwesung?; auch Götter verwesen!" ("Non sentiamo ancora l'odore della decomposizione divina?; anche gli dèi si decompongono"
Friedrich W. Nietzsche, "La gaia scienza", aforisma 125).

Fra i filosofi che compresero e "determinarono" la crisi della tradizione occidentale, Nietzsche, Leopardi, e Gentile furono in grado di condurre l'essenza del pensiero occidentale alla sua formulazione più radicale, mostrando, anzi dimostrando, l'impossibilità di un ritorno al passato, cioè l'impossibilità dei valori fondamentali del passato. Per Nietzsche, Dio non solo è morto, ma è qualcosa di marcio, di putrefatto e di maleodorante (cfr. La gaia scienza", aforisma 125). L'affermazione di Nietzsche che Dio è morto, non è la battuta di un letterato violento o di un artista oscuro. È l'espressione di una NUOVA FONDAZIONE DEL PENSIERO. Tutto sta oggi nel cogliere in cosa consista la radicalità di questa fondazione.
Quando leggo Heidegger, tale radicalità non la trovo. Eppure Heidegger gode di un credito così ampio in tutti i settori della cultura filosofica, e non solo filosofica, perché lascia aperte le porte. Quando il pensatore dice "solo un Dio ci può salvare" ciò significa che ancora mantiene viva la figura, seppure ripensata, del divino, da cui può giungere una qualche forma di salvezza, e dunque lascia una porta aperta. Quando invece Nietzsche afferma che Dio è morto, chiude quella porta, la spranga, e mostra la necessità del suo essere sprangata. Così fa anche Gentile, anche se attraverso un linguaggio di tipo cristiano immanentistico e affetto da limite speculativo.
Ora se Dio è morto, non bisognerebbe forse incominciare a riflettere sul senso dell'incontrovertibilità della verità, o del rapporto tra verità e crisi della verità?
Certamente non tutti possono oggi essere completamente d'accordo sulla positività che reca in sé il nichilismo, dimostrata da Severino, sulla positiva intuizione del "pensiero pensante" di Gentile o sulla poesia di Leopardi. Ma il disaccordo lo si dovrebbe dimostrare. Non dovrebbe essere un'affermazione poggiante su simpatia o antipatia, o, peggio, basata su avversione proveniente da appartenenza a fedi politiche. Personalmente, ho del disaccordo l'idea che valga la pena provarlo di fronte a grandi discorsi. Io amo giocare, ma il disaccordo rispetto alle cose mediocri non è neanche un gioco. È noia Ed anche se la noia fosse un gioco, per me non varrebbe la candela. Del resto vorrei sapere quale pensatore - a cominciare (si parve licet) da Gesù Cristo - ha tutti i propri discepoli "totalmente" d'accordo con lui. Ho stima di Gesù come pensatore, e mi dispiace che lo si pensi poco come filosofo. Eppure è grande la sua idea che la Verità, per essere tale, deve essere espressa da Dio, e che, in quanto pronunciata, dev'essere parola sonante, carnale, e quindi espressa da un Dio incarnato.
Con Heidegger invece si arriva ad affermare il contrario. Nella sua notazione del termine latino "fallere" è infatti incluso l’inganno che consisteva nella tattica di aggirare l’ostacolo e far cadere l'avversario mediante trattati con paesi confinanti, finché il nemico non cadeva appunto perché circondato ed impossibilitato a difendersi. In questo “aggirare e prendere alle spalle”, si trova il significato dell’IMPERIUM latino consistente proprio nell'"incastrare" il nemico, cioè nell’includere, per mezzo del “far cadere l’altro nel proprio ambito”. Ed è consequenziale, a questo proposito, la considerazione sull’origine della parola “pace” che deriva dal verbo “pangere”, ovvero fissare, stabilire. La pace diventa allora la condizione stabilita per colui che è caduto, e che in quanto FALSUM, non è stato distrutto, ma tenuto in piedi dal vincitore, che ne fissa le condizioni di esistenza. La pace è allora lo stato di dominio del vincitore, che detta le condizioni in cui può proseguire l’esistenza del vinto. Non a caso i guerrafondai mentecattocomunisti di oggi affermano di volere la pace. Lo dicono nel senso originario del termine (anche se per lo più lo ignorano), poiché per essi la pace coincide con l’ordine costituito dal potere.
In altri termini, all’origine della pace c’è sempre una guerra, in quanto i due termini sono strettamente correlati, e nel significato originario di pace c’è la volontà di dominio del vincitore (non un dominio assoluto, visto che i romani lasciavano ampi margini di autonomia alle città “fatte cadere”). Il conflitto tra poteri che non può essere risolto dall’interpretazione della legge, finisce perciò in scontri violenti finché uno dei due poteri non cede il passo al vincitore. Questa è l’origine della VERITÀ, cui è contrapposto il FALSO, cioè ciò che cade (fallit) di fronte allo jus? Per Heidegger le cose sembrano stare così (cfr sul punto Heidegger, "Parmenide", Ed. Rizzoli, Milano, 1984): alla fonte del diritto (in latino "jus") c’è, insomma, un atto di forza! Dal "giure" (jus, juris) derivano le parole "giurisprudenza", "giustizia" e "giusto", e "Jus" è esattamente il contenuto dell’IMPERIUM, la prerogativa del Console, comandante della legione. Il diritto, così come lo conosciamo, è infatti ANTICRISTIANO nella misura in cui si radica nel fratricidio (Romolo uccide Remo) e nella rapina (ratto delle sabine). Eppure, soprattutto per gli statalisti, o per i credenti nelle istituzioni, Heidegger fa comodo per risolvere questioni del tipo: la tendenza egoistica a danno altrui, può essere bloccata solo con un atto di imperio, cioè con un atto di forza istituzionalizzato, che per essere giusto, deve necessariamente essere regolato da una legge impersonale che tenga conto dell’interesse generale, considerato superiore a quello individuale Quest'abitudine di pensiero è ovvia per il merntecattocomunismo, in quanto la sopravvivenza del maggior numero di individui, anche a scapito dell’opulenza di un membro del gruppo, assicura una maggiore possibilità di sopravvivenza della comunità stessa, e il regno della quantità di schiavi viene posto gerarchicamente ad un gradino superiore rispetto al regno della qualità di liberi. Su questa necessità vitale per la comunità, si fonda la nascita della legge e del diritto (Heidegger, "Parmenide", op. cit.).
Oggi però, con queste filosofie della mutua, siamo arrivati al top della criminalità, e le popolazioni occidentali, la cui gioventù si va sempre più imbarbarendo nella dipendenza dalla televisione, dai video-giochi, dagli agi, dai vizi, ecc. hanno contro di sé tipi umani sempre più numerosi che, ad esempio, fanno saltare se stessi pur di far saltare in aria il nemico. Invece il tipo umano occidentale è incomparabilmente più fragile, soprattutto perché, anziché riflettere sulle istanze speculative offerte dal nichilismo, si rifiuta di riflettere su alcunché, proprio in base al nichilismo o al "dubbismo", accettati acriticamente come indubitabili verità!
D'altra parte, è anche vero che, se per il politico del kamikazismo è normale l'affermazione: "A me non importa niente che tu te ne vada alla malora", per un politico rivolto all'elettorato europeo, tale affermazione non è concepibile, perché lo squalificherebbe come politico. Personalmente, se fossi un politico, lavorerei per la sopravvivenza della popolazione di tutto il pianeta, ma sarei costretto a dire ai kamikaze "A me non importa niente che voi andiate alla malora", magari aggiungendo "O mentecattocomunisti! O talebani! O talebanocomunisti", ecc.
Dunque non potrei mai essere un politico, e non accetterei mai di esserlo. Aristotele diceva che al filosofo si addicono attività politiche di tipo "architettonico". Ma nella misura in cui le attività sono "architettoniche", sono anche più alte. Ed è chiaro che nessuno propone di diventare presidente della Repubblica a chi affermi ai mentecattocomunisti attuali: "A me non importa niente che tu te ne vada alla malora!".
Risolvere questo problema, è dunque possibile? Credo che la risposta possa essere positiva o negativa a seconda del grado di autofiducia degli esseri umani. E poiché Dio è morto, occorre maggiore fiducia in noi stessi, perché solo entro l'uomo, Dio parla ancora: tanto nel credente quanto nel non credente, che sappia però riconoscere IN MODO CERTO che se vogliamo davvero essere tolleranti e darci la mano in nome della pace, occorre LA CERTEZZA ASSOLUTA di avere almeno quella mano, e ciò equivale ad abbandonare il dubbio del mentecattocomunismo. Se infatti abbiamo due mele e ne offriamo una a qualcuno, restiamo con una sola mela, perché uno ed uno fa due, per chi sa riconoscere l'universalità del pensare.
Se invece Dio è morto e basta, occorre allora riflettere sul significato di "trapasso". Trapasso verso dove? Verso l'"e basta"? Bene. Se così è, allora qualsiasi filosofia è anch'essa morta, esattamente come Dio. Perciò, nonostante l'aberrante pensiero kamikazista, sarà il mondo orientale a vincere, mentecattocomunista o talebano che sia, e l'uomo sarà sempre più schiavo e proletario.
Nereo Villa is offline  
Vecchio 30-05-2004, 12.37.37   #40
Nereo Villa
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Ciao Schiavo - Cap. III (b) - Rifondazione del pensiero o teste mozzate

In questo contesto, lo Zen sembra essere estraneo al tema della NUOVA FONDAZIONE DEL PENSIERO in merito alla pace nel mondo. Ma tale apparenza, per chi osserva bene la propria interiorità, si rivela illusoria. La sottile ma essenziale relazione fra ZEN e NUOVA FONDAZIONE DEL PENSIERO può infatti essere intuita. Basta riflettere sull'importanza del substrato "solare" nella formazio-ne di quella disciplina di pensiero che - attraverso lo Yoga e le varie ascesi buddhiste e zen - altro senso non ha avuto se non quello di preparare in Occidente la NASCITA DEL CONCETTO e simultaneamente la presenzialità luminosa del-l'Io in esso.
Per indicare il senso reale della via originariamente tracciata dallo Zen è urgente ed essenziale saper distinguere l'elemento aureo dello Zen dall'oggetto di ogni moderna esegesi mediante cui l'Occidente crede incontrarlo ed assimilarlo: dal-l'esistenzialismo alla psicanalisi, e dal "neospiritualismo" della contestazione a certe forme di "tradizionalismo della mutua". Tale via, attraverso il suo vanificare ogni dialettismo (o riflessità del pensiero, o filosofismo ciarliero) fino all'irrompere del "satori", come antecedente puro, proprio del pensiero, vivente nell'uomo come universalità, non è altro che l'unica RIFONDAZIONE di cui abbisogna l'uomo: la RIFONDAZIONE DEL PENSIERO.
Il prospetto dell'odierna cultura, ancora legittimamente operante secondo esclusione dell'Io, necessita pertanto di essere esau-rito e redento, secondo canoni di una via nuova, per un nuovo pensiero, adatto ad un nuovo tipo umano, capace di vivere l'Io nella risurrezione del pensiero, ormai troppo legato al sensibile, al materiale, a ciò che è percepibile attraverso i sensi ordinari.
Nel pensiero che realmente pensa, vive l'essenza del mondo, di continuo elusa dalla sua proiezione dialettica, NELLA QUALE L'UOMO ORDINARIO CREDE CHE NASCA IL PENSIERO. Nel momento in cui egli conosce una verità, non si accorge che essa sorge in lui come moto di pensiero: nel pensiero si muove la forza da cui quella verità scaturisce. In realtà fluisce in lui un essere ideale ogget-tivo, una forza concreta. Egli però è convinto che la verità sia esterna a lui, nella forma logica, nella dialettica, o nel fenomeno. Non avverte in sé la forza-pensiero, che è a-dialettica, e che contiene quella verità. Perciò compie il movimento che può farla sua.
Oggi è divenuto nor-malità la credenza che il mentale sia inseparabilmente attaccato alla cerebralità. Infatti - si dice - il pensare presume l'esistenza del cervello. Perché allora non porre in relazione con tale inerimento mentale alla cerebralità - divenuto normale - anche l'opposizione del pensiero - divenuta anch'essa normale - alle proprie forze di profondità? Perché non pensarci? Perché non "ponderare" anche quello?
Se il pensare umano è reso possibile da ciò che vola via dalla terra (cfr. "Presentazione" di questo scritto), e se la forza di gravità non è attiva nelle funzioni cerebrali del pensare, l'inerimento mentale alla cerebralità è una mezza verità, e quindi un falso.
Sono spiegabili in tal senso di mezze verità non soltanto fenomeni generali, come l'alterazione funzionale del sistema nervoso e la difficoltà della coscienza razionale a stabilire un rap-porto con le forze del sentire e del volere, o con la psiche emotivo-istintiva, ma soprattutto le attuali drammatiche difficoltà dell'intelletto riguardo a problemi concreti dell'esistenza: il sociale e l'economico.
L'illegittima dipendenza del pensiero dalla cerebralità spiega la fittizia autonomia dell'uomo attuale, che, non riuscendo a riconoscere la libertà come valore interiore, attuabile fuori di qualsiasi problematica di condizionamen-to esteriore, trasferisce il senso della libertà a operazioni fisiche, o meccaniche, o di rovesciamento di una presunta autorità. Infatti l'autorità, se è autentica, non può non essere un fatto dello spirito, e come tale inattaccabile da fatti fisici. E se l'autorità non è autentica, è una parvenza, dietro la quale si cela ben altra tirannia che quella che si presume combattere o annientare. È allora indubbio che un'identica tirannia interiore si esprime nella forma della rivolta retorica.
Gli atti di rivolta, o di autoaffermazione, di un certo tipo umano attuale, chiamato qui "mentecattocomunista", non sono atti di libertà, bensì posizio-ni mentali, o condizioni neuropsichiche, recanti un oscuro sentimento della libertà, ma prive del suo contenuto co-sciente.
Il contenuto sovrasensibile della libertà non può esse-re recata nel mondo, se non da SPERIMENTATORI SPIRITUALI. Senza l'azione di tali sperimentatori, non può instaurarsi libertà, o moralità, nel mondo. NON C'È FORMULA POLITICA CHE LO POSSA. La reale soluzione dei problemi umani, pre-suppone la connessione RITUALE con il soprasensibile, ad opera di coloro che a ciò sono preposti dal soprasensibile medesimo. Costoro sono i filosofi veri, nei quali LA RIFONDAZIONE DEL PENSIERO DOVRÀ FARE I CONTI CON L'ALTERNATIVA "SOCIALE" DELLE TESTE MOZZATE.
La cosa migliore è non sentirsi soli... Insieme è meglio...
Insieme ai miei pensieri, vi sono idee universali, che non sono mie, ma che ho fatto mie, perché erano lì, ed io le ho prese. Erano su un libro, in un forum, in una fotografia di torture… teste mozzate… che portano con sé "ricordi" ed idee primordiali... Sono immagini che sembrano riaffiorare prepotenti, forse perché a stento credute nei banchi di scuola: il mondo di Cleopatra che offriva a Cesare la testa di Pompeo, Antonio che derideva il capo mozzato di Cicerone, Erodiade che contemplava trionfante la coppa sanguinosa recante la testa di Giovanni il Battista. Gli spiriti della sfrenata sete di potenza, spettri di un mondo sommerso, odiavano l'uomo libero… ODIANO l'uomo libero… odiavano soprattutto la luce dell'Io, che sorgeva come una stella sulla fronte dell'uomo, e che sul "luogo del Cranio" (Golgota), segnava col sangue la Sua presenza sul pianeta. Il cranio umano racchiudeva e racchiude la possibilità della liberazione dalla schiavitù. Nel luogo del cranio umano il pensare universale poteva essere colto, e l'Io risorgere, innalzarsi. Perciò non si aveva paura, né delle belve del Colosseo, né delle teste mozzate dei proscritti, che venivano ammonticchiate in orride piramidi, come monito imperiale al popolo. L'inizio del primo millennio, e l'inizio del terzo, portano con sé le stesse immagini… Forse qualcosa dovremmo cambiare…
Nereo Villa is offline  

 



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