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Vecchio 12-10-2013, 09.56.08   #131
maral
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Citazione:
Originalmente inviato da sgiombo
Un ippogrifo reale sarebbe un cavallo alato (coi suoi propri attributi, ovviamente; per esempio non quelli di un gatto) esistente (anche se nessuno ci pensa e afferma la sua esistenza).
Un gatto reale é un gatto (coi suoi propri attributi, ovviamente; per esempio non quelli di un ippogrifo) esistente (anche se nessuno ci pensa e afferma la sua esistenza).
Dunque se ho ben capito l'affermazione per cui l'ippogrifo è pensabile, ma non è sufficiente solo pensarlo affinché esista realmente, significa:
1- Mi si presenta un'immagine mentale sintetica di una combinazione analiticamente scindibile di attributi (essere un cavallo e avere le ali nel caso dell'ippogrifo)
2- Cerco nel mondo esterno dalla mente se trovo questa immagine, Se la trovo dirò che quell'immagine è reale, altrimenti dirò che non lo è, che è solo un concetto mentale.

Il problema che io rilevo in questo procedimento è che però il "mondo esterno dalla mente" in cui vado a cercare l'ippogrifo o il gatto reale è anch'esso un'immagine mentalmente definita, quindi un concetto. Dunque come posso pensare di trovare qualcosa di reale (nel senso di qualcosa che non è solo un concetto) cercando un concetto dentro un altro concetto utilizzando un metodo di ricerca anch'esso concettualmente definito?

Citazione:
Se si pensa qualcosa di reale accade un' ulteriore evento (il pensiero di tale cosa), oltre a quello costituito dall' esistenza reale di tale cosa (che non vedo come potrebbe esserne "contaminata").
L'ulteriore evento (il pensiero o il sentimento della cosa accaduta) per quanto ci è dato di sapere non mi sembra ulteriore (ossia non mi sembra qualcosa (B) che si aggiunga a qualcosa accaduto prima (A) che sussiste in se stesso senza potersi peraltro manifestare, che significa senza poter accadere), ma (A) e (B) accadono sempre insieme e solo a posteriori vengono mentalmente separati. La contaminazione di (A) e (B) è quindi originaria, è la pura realtà stessa, mentre la rappresentazione, ossia la falsificazione della realtà consiste appunto nel separare (A) da (B) (l'oggetto dai pensieri che produce nel soggetto e il soggetto dai fenomeni con cui l'oggetto si fa pensare) per motivi di comodità di manipolazione (ossia per motivi pragmatici per seguire il discorso di Albert).
A questo punto l'inconscio è quell'oggetto particolare che appare come oggetto non definito alla mente, del quale pertanto non possiamo dire nulla, ma non ne possiamo dire nulla in quanto in esso soggetto e oggetto sono ancora un'unità non scissa (un'unità in sé), dunque non vi è ancora alcun soggetto che possa solo dire e un oggetto che possa solo essere detto, non vi è ancora la falsificazione rappresentativa. In tal senso l'inconscio è la matrice di ogni dire proprio per il fatto che esso non può essere in alcun modo detto, pur essendo costantemente vissuto.

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Vecchio 12-10-2013, 10.45.51   #132
maral
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Citazione:
Originalmente inviato da albert
ma peraltro ritengo che in una visione solipsistica il problema di come "emergano" gli osservatori è uno di quelli che semplicemente non possono essere affrontati.

In realtà la visione solipsistica la soluzione al problema degli osservatori ce l'ha. Sappiamo che l'accordo su cosa sia questa cosa da parte degli osservatori è il punto di forza su cui si regge il realismo oggettivo (dimostrerebbe che questa cosa, essendo la stessa per tutti è proprio oggettivamente questa cosa), ma in realtà il solipsismo ha una soluzione altrettanto efficace dicendo che tutti gli osservatori sono in sostanza lo stesso osservatore, ossia l'io che pensandosi si pensa come molteplicità formale (e quindi ponendo quell'oggetto col pensiero lo pone essenzialmente identico per tutti e solo formalmente per ciascuno diverso, essendo essenzialmente ogni ciascuno il medesimo io che sono solo io).
Quindi da un punto di vista solipsistico non c'è necessità dell'ipotesi di Aggressor per cui ogni ente dovrebbe essere in grado di conoscere affinché un universo di enti sussista, ne basta uno che pensi a diversi altri come oggetti osservanti e che questo uno sia io.
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Vecchio 12-10-2013, 10.55.14   #133
sgiombo
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Maral:
Dunque se ho ben capito l'affermazione per cui l'ippogrifo è pensabile, ma non è sufficiente solo pensarlo affinché esista realmente, significa:
1- Mi si presenta un'immagine mentale sintetica di una combinazione analiticamente scindibile di attributi (essere un cavallo e avere le ali nel caso dell'ippogrifo)
2- Cerco nel mondo esterno dalla mente se trovo questa immagine, Se la trovo dirò che quell'immagine è reale, altrimenti dirò che non lo è, che è solo un concetto mentale.

Sgiombo:
Non puoi uscire dal mondo costituito dalla (tua propria) esperienza cosciente Puoi solo ipotizzare che qualcos' altro esista relamente oltre a (-i contenuti de-) la (tua propria) esperienza cosciente.
Nell' esperienza cosciente ci sono sensazioni "intreriori" o di pensiero (come il concetto di "ippogrifo" ed eventualmente il predicato "esiste un ippogrifo") e sensazioni "esteriori" o di materia (come quelle di cavalli e di vari altri animali diversi dai cavalli e con le ali).
Questo significa che "cose pensabili" (e di fatto pensate) possono non essere reali (é il caso degli ippogrifi), che la pensabilità non é sufficiente per l' esistenza reale (e non solo concettuale).




Maral:
Il problema che io rilevo in questo procedimento è che però il "mondo esterno dalla mente" in cui vado a cercare l'ippogrifo o il gatto reale è anch'esso un'immagine mentalmente definita, quindi un concetto.

Sgiombo:
No!
Lo é casomai il pensiero di esso, la sua conoscenza, il fatto che sia conosciuto (che é cosa diversa, "ulteriore" rispetto al fatto che esista realmente, che non necessariamente "ne é accompagnato").





Maral:
Dunque come posso pensare di trovare qualcosa di reale (nel senso di qualcosa che non è solo un concetto) cercando un concetto dentro un altro concetto utilizzando un metodo di ricerca anch'esso concettualmente definito?

Sgiombo:
Non lo so (anzi: so che non lo puoi trovare in questo modo), ma questo non é ciò che faccio, né ciò che affermo io.





Maral:
L'ulteriore evento (il pensiero o il sentimento della cosa accaduta) per quanto ci è dato di sapere non mi sembra ulteriore (ossia non mi sembra qualcosa (B) che si aggiunga a qualcosa accaduto prima (A) che sussiste in se stesso senza potersi peraltro manifestare, che significa senza poter accadere),

Sgiombo:
Continui a confondere la realtà cona la conoscenza della realtà.

Posso vedere una montagna e non pensare "sto vedendo una montagna" perché magari sono concentrato su ben altri pensieri mentre sto passeggiando ad occhi aperti verso la montagna?
Mi sembra evidente di sì.
Ergo può accadere una certa cosa (la visione della montagna) e accadere oppure non accadere una certa altra (ulteriore), diversa cosa (il pensiero della visione della montagna).




Maral:
ma (A) e (B) accadono sempre insieme e solo a posteriori vengono mentalmente separati. La contaminazione di (A) e (B) è quindi originaria, è la pura realtà stessa, mentre la rappresentazione, ossia la falsificazione della realtà consiste appunto nel separare (A) da (B) (l'oggetto dai pensieri che produce nel soggetto e il soggetto dai fenomeni con cui l'oggetto si fa pensare) per motivi di comodità di manipolazione (ossia per motivi pragmatici per seguire il discorso di Albert).

Sgiombo:
Falso, come mostrato appena più sopra.




Maral:
A questo punto l'inconscio è quell'oggetto particolare che appare come oggetto non definito alla mente, del quale pertanto non possiamo dire nulla, ma non ne possiamo dire nulla in quanto in esso soggetto e oggetto sono ancora un'unità non scissa (un'unità in sé), dunque non vi è ancora alcun soggetto che possa solo dire e un oggetto che possa solo essere detto, non vi è ancora la falsificazione rappresentativa. In tal senso l'inconscio è la matrice di ogni dire proprio per il fatto che esso non può essere in alcun modo detto, pur essendo costantemente vissuto.

Sgiombo:
Frasi incomprensibili.
"quell'oggetto particolare che appare come oggetto non definito alla mente" é il significato della parola "ignoto", e non include alcun preteso elemento o forma di conoscenza (se non ovviamente del fatto di non conoscere).
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Vecchio 12-10-2013, 17.25.50   #134
albert
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Citazione:
Originalmente inviato da maral

Ciò che chiamiamo inconscio è dunque il nome che coscientemente diamo a quanto coscientemente sappiamo di non sapere, che sappiamo comunque che esiste. L'inconscio sta fuori di noi in quanto sfugge continuamente alla nostra presa cosciente (e in questo star fuori dà luogo alla realtà del mondo esterno, l'inconscio è il luogo del reale in sé, quel famoso reale incontaminato a cui accenna Sgiombo può trovarsi infatti solo nell'inconscio), ma è anche nella radice più profonda e interna di noi stessi, ossia è alla radice di qualsiasi presa cosciente, di qulsiasi interpretazione e volontà di esistenza. L'inconscio (ciò che sappiamo di non sapere) è ciò che unisce il dentro e il fuori, il soggetto e l'oggetto, il prima e il dopo, ossia l'unico luogo in cui si trova il reale per come è in se stesso.

Non sono d'accordo nel considerare l'inconscio come "ciò che coscientemente sappiamo di non sapere" Secondo me è semplicemente l'insieme di quelle cose che sappiamo ma che - diversamente da ciò su cui maggiormente poniamo la nostra attenzione e che magari, per dirla con Cartesio, pensiamo di conoscere "con chiarezza e distinzione" - meno prendiamo in considerazione, per mille motivi. Non metterei un confine chiaro e definito tra ciò che sappiamo in modo conscio e ciò che sappiamo in modo inconscio.

Il fatto - pur importante - che sappiamo che la nostra conoscenza non si limita alla conoscenza di cui siamo immediatamente coscienti, secondo me non ci porta ad ulteriori deduzioni

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Vecchio 12-10-2013, 22.00.04   #135
maral
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Teniamo per buona questa frase:
Citazione:
Originalmente inviato da sgiombo
Sgiombo:
Non puoi uscire dal mondo costituito dalla (tua propria) esperienza cosciente Puoi solo ipotizzare che qualcos' altro esista relamente oltre a (-i contenuti de-) la (tua propria) esperienza cosciente.
Se non posso uscire dal mondo costituito dalla mia esperienza cosciente e se questa mia esperienza cosciente è mentale. dunque interiore, dove la trovo l'esperienza esteriore?
Tu dici:
Citazione:
Nell' esperienza cosciente ci sono sensazioni "intreriori" o di pensiero (come il concetto di "ippogrifo" ed eventualmente il predicato "esiste un ippogrifo") e sensazioni "esteriori" o di materia (come quelle di cavalli e di vari altri animali diversi dai cavalli e con le ali).
Ma queste sensazioni esteriori le trovo sempre nella mia coscienza che è interiore e da cui non posso uscire (come dici anche tu) e interiormente me le raffiguro (le rappresento) come esteriori. In pratica vi sono esperienze interiori che tali interiormente le penso ed esperienze pure interiori che interiormente penso siano fuori di me e le penso indipendenti dal mio pensare. Questo non significa che il gatto e l'ippogrifo siano pensati allo stesso modo, ma che sono entrambi pensati. E' nelle diverse modalità in cui si attua il mio pensiero che distinguo il mondo dei gatti da quello dell'ippogrifo, ma questo non implica un mondo solo esterno in cui non posso entrare, ma in cui in qualche modo pur tuttavia ci entro andando a cercare gatti e ippogrifi, anche se per comodità di discorso posso sempre supporlo, come nelle antiche mappe quelle zone sconosciute che venivano indicate con la dicitura "hic sunt leones", ma cosa vi fosse nessuno lo sapeva.

Citazione:
Sgiombo:
Continui a confondere la realtà cona la conoscenza della realtà.

Posso vedere una montagna e non pensare "sto vedendo una montagna" perché magari sono concentrato su ben altri pensieri mentre sto passeggiando ad occhi aperti verso la montagna?
Mi sembra evidente di sì.
Ergo può accadere una certa cosa (la visione della montagna) e accadere oppure non accadere una certa altra (ulteriore), diversa cosa (il pensiero della visione della montagna).
Questa obiezione Russelliana ha senso solo se postulo che la realtà e la conoscenza di essa siano separabili a piacere, cosa che a mio avviso è impossibile e contraddittorio in quanto lo stesso separarli è un atto del pensiero, è un atto di conoscenza.
Se io passeggiando non vedo una montagna perché sono tutto preso a cercare funghi, quella montagna non entra nel mondo costruito dalla mia esperienza cosciente che è il mondo in cui solo e sempre mi trovo. Se poi qualcuno che incontro mi dirà: "non hai visto la montagna dietro di te?" e girandomi la vedrò essa si troverà ora nella mia esperienza cosciente insieme al mio convincimento pregiudiziale che quella montagna fosse lì anche quando non la vedevo.
Il mondo implica sempre il mio esserci e il mio esserci implica sempre un mondo che c'è e quello che è nel mondo (pure i territori segnati dalla scritta "hic sunt leones" di cui non so nulla di ciò che vi sia) è proprio ciò che c'è in me. Non c'è bisogno di alcuna inspiegabile e stupefacente armonia prestabilita tra pensiero e mondo reale, perché nulla del reale mi può mai essere esterno.

Citazione:
Sgiombo:
Frasi incomprensibili.
"quell'oggetto particolare che appare come oggetto non definito alla mente" é il significato della parola "ignoto", e non include alcun preteso elemento o forma di conoscenza (se non ovviamente del fatto di non conoscere).
L'ignoto è esattamente l'inconscio e l'ignoto, proprio in quanto non conosciuto (e tuttavia presente in me, perché presente nel mio pensiero come ignoto) è quanto determina ogni necessità di conoscere, dunque ogni linguaggio la cui sintassi è metodo di conoscenza di queste zone presenti al mio pensiero, ma ad esso sconosciute. E' più comprensibile ora?
Aggiungo solo che a mio avviso i territori dell'ignoto non si riducono affatto "progressivamente" come ritengono alcuni cultori dell'idea della conoscenza come progresso quantitativo di cose conosciute, semplicemente l'ignoto cambia di contenuto, ma la sua estensione complessiva resta sempre identica, che lo si voglia o meno.
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Vecchio 12-10-2013, 22.16.58   #136
maral
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Citazione:
Originalmente inviato da albert
Non sono d'accordo nel considerare l'inconscio come "ciò che coscientemente sappiamo di non sapere" Secondo me è semplicemente l'insieme di quelle cose che sappiamo ma che - diversamente da ciò su cui maggiormente poniamo la nostra attenzione e che magari, per dirla con Cartesio, pensiamo di conoscere "con chiarezza e distinzione" - meno prendiamo in considerazione, per mille motivi. Non metterei un confine chiaro e definito tra ciò che sappiamo in modo conscio e ciò che sappiamo in modo inconscio.

Il fatto - pur importante - che sappiamo che la nostra conoscenza non si limita alla conoscenza di cui siamo immediatamente coscienti, secondo me non ci porta ad ulteriori deduzioni

Ovvio che sulle definizioni si può essere sempre in disaccordo, e comunque non trovo alcuna difficoltà a includere nell'inconscio anche quanto sappiamo di sapere in modo poco chiaro e distinto, una zona grigio chiara insieme a quella grigio scura che sappiamo di non sapere (grigio scura e non nera, perché di essa sappiamo pur sempre qualcosa, ossia sappiamo di non esserne coscienti).
Io penso invece che questa consapevolezza che c'è una zona di cui non sappiamo ha implicazioni esistenziali notevolissime, non solo perché è verso di essa che la nostra conoscenza è continuamente diretta e quindi acquisisce un senso operativo, ma anche perché è in essa (in ciò che sappiamo di non sapere) la matrice della nostra esistenza, il nostro senso originario. Preservarla ci garantisce in salute mentale e non solo, un po' come le aree naturali che qualcuno vorrebbe invece disboscare e arare, perché pensa che a lasciarle così come sono non servano a niente di proficuo.
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Vecchio 13-10-2013, 13.12.43   #137
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Devo riconoscere nelle parole di Maral, sia in risposta ad Albert (che mi aveva chiesto spiegazioni -comunque avevo già risposto alla sua domanda, Maral ha solo espresso egregiamente quello che avevo già fatto presente prima ancora che mi si chiedesse esplicitamente-) che a Sgiombo, una pressoché totale adesione col mio punto di vista.


Mi pare che ci siano un paio di obbiezioni importanti da parte di Sgiombo e Ulysse riguardo al solipsismo o "idealismo" proposto da noi altri (diciamo che stò approssimando in quanto simile il pensiero di alcuni per facilitare il discorso).

1) Certe cose non sono conosciute ma si deve supporre esistano onde evitare catastrofiche conseguenze concettuali. |possibile risposta=>| Si potrebbe ammettere come conoscenza anche la "conoscenza inconscia", cioè quella che plasma la conoscenza diretta (=> idee su cui si presta attenzione immediata o esperienze sensibili dirette), in quanto questa deve risentire di ciò che non è posto così esplicitamente in essa, cioè pure inglobare nel suo contenuto il contenuto di una conoscieza "incoscia/indiretta".

2) Non sarebbe possibile giustificare l'accordo tra le varie conoscenze soggettive. |possibile risposta=>| La divisione dell'universo in varie coscieze soggettive può essere un abbaglio, si è già discorso sull'Io e sembra che esso sia una sorta di perno vuoto; che esistano molti perni vuoti è strano a dirsi poiché, anche per chi utilizza un principio di riconoscimento e distinzione dell'essere delle cose tramite le loro proprietà, essendo questo perno vuoto, esso non può nemmeno risultare diverso da un'altro, e quindi distinto da un'altro. -Qui comunque la questione si fa più difficile-.
Quello che cercavo di dire a Sgiombo prima dell'estate era questo: che essendo ogni oggetto deformato dal contesto in cui si trova, in ogni caso esso si sarà "adeguato" a ciò che dici essere esterno a lui, in questo senso un "accordo" tra le soggettività esiste senza dover supporre alcuna struttura noumenica. Ogni soggetto è già deformato dagli altri soggetti in quanto essi, esistendo, esercitano una coazione sulla sua forma (io, per esempio, sono soggetto alla pressione dell'aria e alle asserzioni degli altri, cose che il mio corpo subisce e a cui risponde contemporaneamente). Questa coazione dell'altro su noi esprime già un tener conto della forma dell'altro, un adeguarsi ad essa, cioè concetti molto più pragmatici di quello di "totale accordo o intersoggettività". Se la mia forma è definita solo in quanto ne esiste un'altra, essa sarà pure già adeguata a quella senza che si debba supporre una terza forma a cui entrambe farebbero riferimento. Questo discorso è ostico solo in quanto può essere applicato contemporaneamente a ciò che alcuni chiamerebbero oggetti materiali (o descritti dalla fisica) e alle idee mentali umane: |ne ripropongo il senso applicato alle sole idee umane o fenomeni=>| se le mie idee mentali possono ostentare un contenuto specifico solo in quanto contrapposte e definite da una controparte ideale (il concetto di madre sarebbe inutile senza quello di padre; il verde sarebbe nulla senza il giallo o gli altri colori; ecc.), allora le mie idee mentali già risentono e si adeguano al mondo ideale altrui senza il supporto di un terzo mondo obbiettivo che ci faccia accordare o armonizzare; se le idee di ognuno, tramite il semplice rapporto di esse, si modificheranno a tal punto da risultare identiche a quelle degli "altri", vorrà dire semplicemente che questo co-definirsi avrà portato ad un simile risvolto. Quando si pensa agli Io o alle idee come cose chiuse in se stesse arriva il problema, ma se le si pensa come cose che si definiscono a vicenda cioè in continuo rapporto tra loro sarà diverso, si avrà l'armonia.



Aggiungo ancora che si deve ammettere l'esistenza del mondo esterno quale ipotesi e idea mentale. Il contenuto di questo mondo esterno sarebbe comunque noumenico (ammesso che abbia senso potersi riferire a qualcosa del genere o che, in altre parole, abbia un senso riferirsi tramite idee mentali a qualcosa che non-è una idea mentale); una congettura del genere può essere presa in considerazione per convenienza solo se è capace di rispondere a più domande di altre teorie, prima di tutto, e se è capace di minimizzare i termini introdotti.
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Vecchio 13-10-2013, 20.15.24   #138
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Sgiombo:
Non puoi uscire dal mondo costituito dalla (tua propria) esperienza cosciente Puoi solo ipotizzare che qualcos' altro esista relamente oltre a (-i contenuti de-) la (tua propria) esperienza cosciente.

Maral:
Se non posso uscire dal mondo costituito dalla mia esperienza cosciente e se questa mia esperienza cosciente è mentale. dunque interiore, dove la trovo l'esperienza esteriore?

Sgiombo:
La (tua propria) esperienza cosciente non è unicamente mentale ma anche materiale; in essa ci sono (accadono) due tipi di sensazioni (entrambe fenomeniche: esse est percipi!): quelle esteriori materiali, comprendenti fra l’ altro gatti, cavalli senza ali, animali diversi dai cavalli e con le ali; non ippogrifi), e quelle interiori di pensiero (o mentali), comprendenti concetti, le idee (e predicati circa concetti e idee); inclusi i concetti o idee particolari concreti che si riferiscono a oggetti costituiti da insiemi di sensazioni materiali effettivamente accadenti o accadute (come determinati particolari gatti, determinati particolari cavalli, ecc.) o anche solo immaginari, magari erroneamente ritenuti essere accaduti ma non accaduti (come certi determinati ippogrifi); e inclusi anche idee o concetti generali astratti ricavabili (appunto per astrazione) da più insiemi concreti di sensazioni materiali, magari anche “combinabili fra loro con un certo arbitrio” (come l’ i concetti di gatto, di cavallo e magari anche di ippogrifo).
La differenza principale fra i due tipi di sensazioni (“tipo cogitans” e” tipo extensa”) è che se si ammettono alcuni assunti indimostrabili (e innanzitutto l’ esistenza reale stessa di altre esperienze fenomeniche coscienti) quelle esteriori materiali divengono intersoggettivamente, cioè in maniera analoga e non arbitrariamente (soggettivamente) determinabile ad libitum (sia pur relativamente) nell’ ambito di diverse esperienze fenomeniche.




Maral:
Ma queste sensazioni esteriori le trovo sempre nella mia coscienza che è interiore e da cui non posso uscire (come dici anche tu) e interiormente me le raffiguro (le rappresento) come esteriori. In pratica vi sono esperienze interiori che tali interiormente le penso ed esperienze pure interiori che interiormente penso siano fuori di me e le penso indipendenti dal mio pensare. Questo non significa che il gatto e l'ippogrifo siano pensati allo stesso modo, ma che sono entrambi pensati.

Sgiombo:
Il concetto di gatto e il concetto di ippogrifo sono entrambi pensati, insiemi di sensazioni mentali, “tipo cogitans” (e anche il predicato della loro esistenza, la loro conoscenza; nel caso del gatto vera in quello dell’ ippogrifo falsa, solo presunta); ma invece un gatto è un’ insieme di sensazioni materiali, “tipo extensa” pur sempre fenomeniche, interne all’ esperienza cosciente, ma diverse (fra l’ altro intersoggettive se si ammettono talune condizioni indimostrabili); e non esiste alcun ippogrifo come analogo insieme di sensazioni materiali.




Maral:
E' nelle diverse modalità in cui si attua il mio pensiero che distinguo il mondo dei gatti da quello dell'ippogrifo, ma questo non implica un mondo solo esterno in cui non posso entrare, ma in cui in qualche modo pur tuttavia ci entro andando a cercare gatti e ippogrifi, anche se per comodità di discorso posso sempre supporlo, come nelle antiche mappe quelle zone sconosciute che venivano indicate con la dicitura "hic sunt leones", ma cosa vi fosse nessuno lo sapeva.

Sgiombo:
Il mondo solo esterno, contrariamente alle sensazioni fenomeniche (che si constatano), può essere ritenuto esistere realmente solo in modo arbitrario: non si può constatare per definizione (altrimenti non sarebbe esterno alle e diverso dalle sensazioni fenomeniche), né dimostrare (ma solo credere “per fede”; come fanno tutte le persone normali e di buon senso, me compreso, ammessoe non concesso che sia normale e di buon senso…).




Sgiombo:
Continui a confondere la realtà con la conoscenza della realtà.

Posso vedere una montagna e non pensare "sto vedendo una montagna" perché magari sono concentrato su ben altri pensieri mentre sto passeggiando ad occhi aperti verso la montagna?
Mi sembra evidente di sì.
Ergo può accadere una certa cosa (la visione della montagna) e accadere oppure non accadere una certa altra (ulteriore), diversa cosa (il pensiero della visione della montagna).

Maral:
Questa obiezione Russelliana ha senso solo se postulo che la realtà e la conoscenza di essa siano separabili a piacere, cosa che a mio avviso è impossibile e contraddittorio in quanto lo stesso separarli è un atto del pensiero, è un atto di conoscenza.

Sgiombo:
No, veramente il postulato arbitrario non è il mio bensì è il tuo (quello, contrario al mio -e di Russell? Non lo sapevo e la cosa mi fa molto piacere!- della non separabilità fra la realtà e la conoscenza della realtà): con l’ esempio della montagna ti ho mostrato che in realtà le cose stanno come dico io (ed è ovvio che qualsiasi conoscenza sia un atto di pensiero; ma per essere tale e non mera fantasia deve sottostare a determinate condizioni reali).




Maral:
Se io passeggiando non vedo una montagna perché sono tutto preso a cercare funghi, quella montagna non entra nel mondo costruito dalla mia esperienza cosciente che è il mondo in cui solo e sempre mi trovo. Se poi qualcuno che incontro mi dirà: "non hai visto la montagna dietro di te?" e girandomi la vedrò essa si troverà ora nella mia esperienza cosciente insieme al mio convincimento pregiudiziale che quella montagna fosse lì anche quando non la vedevo.

Sgiombo:
Se cerco funghi guardo per terra e non verso la montagna (e ci sono probabilmente folti alberi intorno a me che mi impedirebbero comunque di vederla anche se alzassi lo sguardo); ma se invece cammino su un sentiero senza alberi guardando davanti a me ma sto "soffertamente" meditando sulla differenza fra realtà e conoscenza della realtà (a rischio di inciampare…) la montagna la vedo eccome; e tuttavia non penso che la sto vedendo (= non so di vederla).




Maral:
Il mondo implica sempre il mio esserci e il mio esserci implica sempre un mondo che c'è e quello che è nel mondo (pure i territori segnati dalla scritta "hic sunt leones" di cui non so nulla di ciò che vi sia) è proprio ciò che c'è in me. Non c'è bisogno di alcuna inspiegabile e stupefacente armonia prestabilita tra pensiero e mondo reale, perché nulla del reale mi può mai essere esterno.

Sgiombo:
Il mondo (se oltre alla mia esperienza cosciente è reale qualcos’ altro, come credo non potendolo dimostrare) non implica sempre (né necessariamente) il mio esserci: c’ era anche prima che nascessi e ci sarà anche dopo che sarò morto.
E il mio esserci (della mia esperienza cosciente, l’ unica “cosa” di cui posso essere assolutamente, incondizionatamente certo) non implica sempre (né necessariamente) un mondo ulteriore (qualcos’ altro oltre alla mia esperienza cosciente; e che posso credere essere reale solo per fede: altro modo razionale -per constatazione o per dimostrazione- di uscire dal o superare il solipsismo non c’ é).



Sgiombo:
Frasi incomprensibili.
"quell'oggetto particolare che appare come oggetto non definito alla mente" é il significato della parola "ignoto", e non include alcun preteso elemento o forma di conoscenza (se non ovviamente del fatto di non conoscere).

Maral:
L'ignoto è esattamente l'inconscio e l'ignoto, proprio in quanto non conosciuto (e tuttavia presente in me, perché presente nel mio pensiero come ignoto) è quanto determina ogni necessità di conoscere, dunque ogni linguaggio la cui sintassi è metodo di conoscenza di queste zone presenti al mio pensiero, ma ad esso sconosciute. E' più comprensibile ora?
Aggiungo solo che a mio avviso i territori dell'ignoto non si riducono affatto "progressivamente" come ritengono alcuni cultori dell'idea della conoscenza come progresso quantitativo di cose conosciute, semplicemente l'ignoto cambia di contenuto, ma la sua estensione complessiva resta sempre identica, che lo si voglia o meno.

Sgiombo:
No, non é per niente comprensibile!
Unica cosa comprensibile che posso identificare con l’ inconscio (in questo aiutato anche da alcune considerazioni di Albert in questa stessa discussione) sono le cose che so ma a cui non penso attualmente, i miei ricordi, ecc.: conoscenze non in atto ma reali, seppure potenzialmente.
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Vecchio 13-10-2013, 21.17.32   #139
sgiombo
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Aggressor:
Quello che cercavo di dire a Sgiombo prima dell'estate era questo: che essendo ogni oggetto deformato dal contesto in cui si trova, in ogni caso esso si sarà "adeguato" a ciò che dici essere esterno a lui, in questo senso un "accordo" tra le soggettività esiste senza dover supporre alcuna struttura noumenica.

Sgiombo
:
Francamente continuo a non comprendere proprio niente di niente di quanto vai sostenendo.
Perché mai ogni oggetto dovrebbe essere deformato dal contesto?
Perché mai si dovrebbe “adeguare” a ciò che qualcuno dice esterno a lui?
Che c’ entra tutto ciò (ammesso che abbia un senso; che io non vedo) con l’ “accordo” fra le soggettività?



Aggressor:
Ogni soggetto è già deformato dagli altri soggetti in quanto essi, esistendo, esercitano una coazione sulla sua forma (io, per esempio, sono soggetto alla pressione dell'aria e alle asserzioni degli altri, cose che il mio corpo subisce e a cui risponde contemporaneamente). Questa coazione dell'altro su noi esprime già un tener conto della forma dell'altro, un adeguarsi ad essa, cioè concetti molto più pragmatici di quello di "totale accordo o intersoggettività". Se la mia forma è definita solo in quanto ne esiste un'altra, essa sarà pure già adeguata a quella senza che si debba supporre una terza forma a cui entrambe farebbero riferimento.

Sgiombo:
Idem come sopra.
Che tutto nella natura materiale (ma la mia e la tua esperienza personale non sono solo materia) sia reciprocamente in relazione mi sembra ovvio ma non vedo cosa implichi riguardo all’ intersoggettività (che riguarda le diverse esperienze personali e non i diversi contenuti nell’ ambito di ciascuna esperienza personale, dunque casomai “intrasoggettivi”).



Aggressor:
Questo discorso è ostico solo in quanto può essere applicato contemporaneamente a ciò che alcuni chiamerebbero oggetti materiali (o descritti dalla fisica) e alle idee mentali umane: |ne ripropongo il senso applicato alle sole idee umane o fenomeni=>| se le mie idee mentali possono ostentare un contenuto specifico solo in quanto contrapposte e definite da una controparte ideale (il concetto di madre sarebbe inutile senza quello di padre; il verde sarebbe nulla senza il giallo o gli altri colori; ecc.), allora le mie idee mentali già risentono e si adeguano al mondo ideale altrui senza il supporto di un terzo mondo obbiettivo che ci faccia accordare o armonizzare; se le idee di ognuno, tramite il semplice rapporto di esse, si modificheranno a tal punto da risultare identiche a quelle degli "altri", vorrà dire semplicemente che questo co-definirsi avrà portato ad un simile risvolto. Quando si pensa agli Io o alle idee come cose chiuse in se stesse arriva il problema, ma se le si pensa come cose che si definiscono a vicenda cioè in continuo rapporto tra loro sarà diverso, si avrà l'armonia.

Sgiombo:
Il fatto che le idee o concetti (mentali, di pensiero) di un certo soggetto pensante siano (intrasoggettivamente) relative le une alle altre (si definiscono reciprocamente) non vedo come possa risolvere problema se le sensazioni materiali di diversi soggetti siano (intersoggettivamente) in accordo fra loro.

Le idee (mentali, i concetti) si definiscono a vicenda all’ interno di ciascuna esperienza cosciente; mentre il problema è quello dell’ (eventuale) accordo esterno fra i contenuti materiali delle diverse esperienze coscienti l’ una con l’ altra.
sgiombo is offline  
Vecchio 13-10-2013, 22.17.53   #140
maral
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Riferimento: L'esistenza

Mi pare molto interessante il precedente intervento di Aggressor al punto 2 e tale da dar luogo a ulteriori considerazioni sul significato importantissimo dell'altro per l'io.
Se io affermo questo foglio è bianco, in quanto la sua bianchezza corrisponde al dato che originariamente mi si presenta per come io sono, conseguentemente mi si presenta anche la possibilità della sua negazione, ossia la possibilità di questo stesso foglio di non essere bianco. Questa possibilità può concretizzarsi (ossia può apparire) solo con riferimento a un altro (un altro temporale ad esempio: ci sarà o ci fu un tempo in cui questo foglio non è bianco, oppure un altro esistenziale: c'è qualcun altro per cui questo foglio non è bianco). Questo altro è quindi il luogo in cui trova ospitalità l'antitesi al mio modo di vedere il colore di questo foglio, ma poiché in lui l'antitesi si presenta come tesi, essa stessa genererà l'antitesi in cui si incarna la conoscenza del colore di questo foglio per come io lo vedo, dunque sarà proprio questo altro a determinare il mio senso di identità, ossia di quel me che, oltre a tutte le altre cose che vede, vede questo foglio bianco (in tal senso non ha alcuna importanza se questo foglio in sé è bianco o no, ma che ci sia sempre chi lo vede bianco e chi no).
Poiché le cose su cui esprimiamo giudizi sono molteplici e dunque molteplici possono essere i disaccordi e gli accordi, l'altro non è mai un assolutamente altro (solo il niente è assolutamente altro, dunque niente è assolutamente altro), ma è sempre un più o meno prossimo a me, uno che più o meno mi assomiglia e che sento più o meno vicino. E' nei suoi giudizi antitetici ai miei che io vedo apparire in rilievo il tracciato della mia forma, ma è nella complessiva vicinanza o somiglianza di giudizio che io trovo l'accettazione di questo tracciato riflessa dall'altro in me stesso. In altre parole trovo nella somiglianza la possibilità di accettazione di questa forma tracciata dalla differenza che mi definisce.
L'altro dunque è il solo luogo in cui l'io può dare forma a se stesso e accettare questa forma di se stesso sopravvivendo alla sua forma distinta.
Possiamo dire ancora che l'altro è un luogo della mente e che quindi anche l'io è un luogo della mente, sono perfettamente reciproci, senza necessità di ipotizzare, come dice Aggressor, una terza forma a cui entrambe farebbero riferimento per sussistere, perché si creano e si sostengono ogni istante l'una con l'altra. A meno che quella terza forma non sia proprio quella dimensione in cui io e altro non hanno alcun senso, perché non vi appaiono proprio, quella dimensione dell'Uno che non può apparire, perché per apparire deve per forza spezzarsi almeno in due e in tal modo acquisire un primo barlume di coscienza. Quella dimensione che sta radicalmente oltre il nostro poter sapere che non può essere che duale, ma che proprio per questa evidente dualità distinta con cui si presenta pone a sua necessaria antitesi l'unità indistinta e indistinguibile che traccia la forma di ogni dualità e la cui vicinanza presente significa il poter sopravvivere alla lacerazione che consente alla dualità di apparire.
Ho chiamato inconscio il luogo di questa unità, identificandolo riduttivamente con ciò di cui sappiamo di non poter sapere, ma si può certo indicare in tanti altri modi diversi, come peraltro nella storia dell'umanità è stato fatto, senza mai ovviamente poterlo definire, perché definirlo significa spezzarlo e spezzarlo significa negarlo.

maral is offline  

 



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