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Vecchio 28-10-2013, 13.23.47   #171
maral
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Riferimento: L'esistenza

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Originalmente inviato da albert
Riguardo alla discussione sul solipsismo che si è (giustamente) ricondotta alla definzione, lasciatemi dire che questa definizione non mi piace per niente, perché si basa sul concetto di coscienza, che nessuno sa bene che cosa sia (sbaglio?)
Forse potremmo intendere coscienza come quella funzione o complesso di funzioni che mi fa dire questa cosa è una mela, oppure una penna ecc. e soprattutto questa cosa sono io, ove la cosa che sono io ha indiscutibilmente per ciascuno una rilevanza estrema. C'è comunque una notevole diversità di opinioni in merito alla spiegazione del fenomeno coscienza che probabilmente non è solo questione che riguardi solo ciò che si dice, proprio questa mattina pensavo che potrebbe essere interessante introdurre un thread specifico in merito, forse lo farò.

Citazione:
La posizione (con relativa definizione di “esistenza”) proposta all’origine di questo thread non è quindi solipsistica. SI ridefinisce la “realtà” come ciò che io mi creo per organizzare le mie percezioni, l’io, lungi dall’essere tutta la realtà, è una “discontinuità”.
Ecco, questa definizione da un lato mi sembra che si avvicini molto alla mia posizione, dall'altro mi appare come problematica. Mi spiego: la mia definizione di realtà comprende sia quanto sta a monte del mio organizzare (se vogliamo l'input) sia quanto questo organizzare produce (l'output) sia la stessa attività dell'organizzare. L'input è ciò che chiamo (a dire la verità non dovrei chiamarlo, ma in qualche modo devo indicarlo con una successione di grafemi) l'indefinito, o anche l'inconscio, o semplicemente X e che sento come Uno; L'output è ciò che chiamo rappresentazione, corrisponde all'apparire cosciente delle cose e le rappresentazioni sono molteplici e si presentano finite, quindi tali da esistere nello spazio e nel tempo che esse stesse costruiscono con il loro apparire; l'attività di organizzare è ciò che chiamo io (che può apparire a se stesso anche come oggetto, oltre che come attività), anch'esso essenzialmente uno pur riflettendosi continuamente nel molteplice rappresentato.
Se ci si limitasse a definire la realtà come "ciò che io mi creo per organizzare le mie percezioni", dunque, se ben capisco, come una serie di metodi operativi che io stabilisco magari in base alla da me presunta utilità organizzativa che possiedono, dove stanno le mie percezioni prima di venire organizzate? E dove finiscono le organizzazioni una volta prodotte? Fuori dalla realtà perché non sono ancora o non non sono più processate? Ma che senso avrebbe in tal caso questo "fuori dalla realtà"?

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Vecchio 28-10-2013, 15.58.20   #172
albert
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Originalmente inviato da sgiombo
Devo confessare che non so cosa sia "Matrix".

Incomincio a rispondere su Matrix, che è un film del 1999 che a detta di molti ha notevole implicazioni filosofiche, vedi ad esempio Diego Fusaro http://www.filosofico.net/filos59.htm

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Vecchio 30-10-2013, 20.22.01   #173
albert
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Originalmente inviato da sgiombo
Ma esiste anche una sana curiosità disinteressata (senza finalità pratiche) di conoscere com' è il mondo in cui si vive e in generale la realtà!

E “realtà oggettiva che consenta di trascendere il solipsismo” significa per esempio (se esiste realmente) che oltre a me con la mia esperienza esistono anche altri soggetti di esperienza: fatto di notevole rilevanza per lo meno etica!

Ma è proprio questo il punto! "realtà" è ridefinita come ciò che ci creiamo a partire dalle nostre percezione, altrimenti non avrebbe senso (perché non possiamo sapere niente al di là delle nostre percezioni). "Esistere" in sensi diverso da questo secondo me non ha proprio senso

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Originalmente inviato da maral
Forse potremmo intendere coscienza come quella funzione o complesso di funzioni che mi fa dire questa cosa è una mela, oppure una penna ecc. e soprattutto questa cosa sono io, ove la cosa che sono io ha indiscutibilmente per ciascuno una rilevanza estrema.

Converrai con me che questa definizione non è certo un esempio di chiarezza! Faccio persino fatica a considerarla una "definizione"

Citazione:
Originalmente inviato da maral

Se ci si limitasse a definire la realtà come "ciò che io mi creo per organizzare le mie percezioni", dunque, se ben capisco, come una serie di metodi operativi che io stabilisco magari in base alla da me presunta utilità organizzativa che possiedono, dove stanno le mie percezioni prima di venire organizzate?

Risposta "brutale": non lo posso sapere e quindi non mi deve interessare

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Vecchio 30-10-2013, 21.15.57   #174
sgiombo
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Originalmente inviato da Sgiombo:

Ma esiste anche una sana curiosità disinteressata (senza finalità pratiche) di conoscere com' è il mondo in cui si vive e in generale la realtà!

E “realtà oggettiva che consenta di trascendere il solipsismo” significa per esempio (se esiste realmente) che oltre a me con la mia esperienza esistono anche altri soggetti di esperienza: fatto di notevole rilevanza per lo meno etica!

Albert:
Ma è proprio questo il punto! "realtà" è ridefinita come ciò che ci creiamo a partire dalle nostre percezione, altrimenti non avrebbe senso (perché non possiamo sapere niente al di là delle nostre percezioni). "Esistere" in sensi diverso da questo secondo me non ha proprio senso.

Sgiombo:
Non: “non possiamo sapere niente al di là delle nostre percezioni”, bensì: "non si può (impersonale!) conoscere con certezza (lo si può ipotizzare ed eventualmente credere immotivatamente, “per fede”) l’esistenza di altro che le percezioni".

L’ esistenza di un “io” o soggetto delle percezioni stesse esistente oltre il loro immediato accadere (sentirsi) e anche allorché esse non accadono (per esempio nel sonno senza sogni) è altrettanto indimostrabile dell’ esistenza di oggetti esterni di esse esistenti oltre il loro immediato accadere (sentirsi) anche allorché esse non accadono (per esempio qualcosa di corrispondente alla visione di una montagna -diciamo: il solito Monte Bianco- anche allorché non lo vediamo).
Dunque, non essendo certa la nostra esistenza (di eventuali “creatori” -?- o comunque soggetti delle percezioni), le percezioni non ce le creiamo, né tantomeno ad libitum (almeno questo non lo si può affermare con certezza, esattamente come l’ esistenza di altre esperienze coscienti, oltre a quella immediatamente accadente, nonché quella di eventuali soggetti di esse): esse accadono, punto e basta (se vogliamo attenerci unicamente a ciò che é certo, credere solo ciò che é certo, evitare fideismi).

L’ esistere:

a) di altre esperienze coscienti;

b) di soggetti di esse (“io” per quella immediatamente esperita: unico insieme di eventi certi) ed eventualmente di altre persone umane o entità animali per le altre);

c) di oggetti di quelle esteriori o materiali di esse (del “mondo intorno a me”; mentre di quelle interiori o mentali l' oggetto -se c'é- coincide con il soggetto).

Non è parimenti dimostrabile.

Ma ciò non significa :

a) che si tratti di locuzioni (per lo meno ipotetiche) senza senso: hanno tutte un chiaro significato.

b) Che necessariamente non siano reali: non si può dimostrare che esistono, ma nemmeno che non esistono, e ragionare sull’ ipotesi indimostrabile che esistano è altrettanto sensato che ragionare sull’ ipotesi altrettanto indimostrabile che non esistano.

(Se tu esisti e hai una esperienza fenomenica, cosa indimostrabile ma che personalmente credo immotivatamente, “per fede” essendone ben consapevole) Può darsi che queste questioni per te non abbiano importanza alcuna (peraltro ne dubito: mi sembra che per il fatto di partecipare alle discussioni di questo forum tu una credenza fideistica nell' indimostrabile esistenza di altre esperienze fenomeniche e dei loro soggetti ce la debba avere).
Ma questo non significa comunque che non ne debbano avere per altri (qualora esistessero realmente altri), né tantomeno che non abbiano senso (=che non significhino nulla, che siano autocontraddittorie, come il concetto di "triangolo quadrato" o la locuzione "esiste realmente il Monte Bianco, la cima più alta delle Alpi, le quali non esistono realmente"; ovvero che siano mere sequele di -pretesi- simboli grafici o fonetici non connotanti né denotanti alcunché, come per esempio “trallallerollerollà”).

Ultima modifica di sgiombo : 31-10-2013 alle ore 18.55.59.
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Vecchio 30-10-2013, 21.53.40   #175
maral
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Originalmente inviato da albert

Converrai con me che questa definizione non è certo un esempio di chiarezza! Faccio persino fatica a considerarla una "definizione"
Sì ne convengo, più che altro è un punto di partenza. Resta il fatto che se il fenomeno coscienza è quanto mi permette di accorgermi che questa cosa è questa cosa (e che io sono io) sia un discorso importante da analizzare, anche se assai probabilmente non ci è dato di venirne a capo (nel senso di concluderlo con una spiegazione ultimativa)



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Risposta "brutale": non lo posso sapere e quindi non mi deve interessare
Quel non mi deve mi suona male. Se mi interessa mi interessa, anche se non mi deve. Gli imperativi categorici mi lasciano sempre alquanto perplesso, trovo che rappresentino solo una forzatura artificiosa della volontà, una sorta di rimozione mentale.
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Vecchio 31-10-2013, 08.55.40   #176
albert
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Originalmente inviato da maral
Quel non mi deve mi suona male. Se mi interessa mi interessa, anche se non mi deve. Gli imperativi categorici mi lasciano sempre alquanto perplesso, trovo che rappresentino solo una forzatura artificiosa della volontà, una sorta di rimozione mentale.

Sì, hai ragione, mi sono lasciato trascinare dalla foga. Lungi da me l'idea di definire degli imperativi categorici. Diciamo che lo ritengo un inutile passatempo, come dedicarsi all'astrologia. Ma se a uno piace, perché no? Sarebbe comunque, a mio giudizio, un po' come cercare di costruire un perpetuum mobile, un tentativo destinato dall'inizio all'insuccesso

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Vecchio 31-10-2013, 12.52.20   #177
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@maral e albert

il tuo "problema" maral è quello che peirce definiva l'errore fondamentale comune a molti filosofi: scambiare la denotazione con la connotazione.

è l'errore di tutta la semiotica di umberto eco che fraintende completamente il noumeno.

sostanzialmente saltando tutti i passaggi logici (che compongono i libelli peirciani) si arriva a capire come noi organizziamo in pensieri la differenza del noumeno percepito.
il tema della nominazione, così rilevante nella metafisica, sottende però un oblio, che rende quella nominazione perversa, ossia che noi siamo sempre e solo tramite uno scarto che chiamiamo principio del terzo escluso.

E' paradossale che l'io emerga da quella istantaneità (come la nomina HEGEL) con l'altro, ma subito dopo quello stesso "io" , per i noti principi di conservazione darwiniani, dimentichi ciò che lo ha determinato.
in questo senso l'ippogrifo è una dimenticanza delle categorie di determinazione, una confusione, una rimozione direbbe la psicanalisi.
in questo senso sia peirce che hegel nominano 2 "io", il primo originario e il secondo camuffato.

E' a partire da questo secondo io che sembra la nominazione possibile in ordine solo al pensiero, quando invece il pensiero è solo un calcolo approssimativo delle percezione della differenza. (in questo sgiombo cade in un sorta di paradosso, perchè non parte da quell'io originario, da cui deduce correttamente il carattere indimostrabile dell'assunto(della nominazione appunto), ma sempre dal secondo e cioè da un carattere rimosso a cui non sa spiegare il suo essere metafisico, se non in via di presa di coscienza arbitraria, che è infatti sempre una metafisica, come lo è la fede d'altra parte.)


è per questo che non sono d'accordo nemmeno con albert che pure è a un soffio dall'enigma, quando dice che noi creiamo concetti a partire dagli oggetti.
noi non creiamo niente, non esiste autocoscienza ma sempre e solo uno slittamento della differenza io-noumeno-altro, che si autocompone tramite un interpretante, certo, ma solo appunto per denotazione(nominazione).
l'istantaneità è quindi posticipata nell'io (come anche le neuroscienze stanno dimostrando) nominante.
il solipsismo è dunque un errore metafisico.
l'idealismo invece (che io conosco tramite la coppia kant(rivisto da peirce)-hegel) ha ben presente questa distinzione.

l'enigma sta appunto nella connotazione, ossia nell'animalità come nietzsche aveva intuito, e tentato di rispondere.


inciso importante fuori tema:
ovvia una animalità dell'istante, perchè quella che presuppone l'uomo come un animale categoriale, è la peggiore delle metafisiche ed è quella che sottende l'epoca del nichilismo scientifico.
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Vecchio 31-10-2013, 19.25.21   #178
maral
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Originalmente inviato da albert
Sì, hai ragione, mi sono lasciato trascinare dalla foga. Lungi da me l'idea di definire degli imperativi categorici. Diciamo che lo ritengo un inutile passatempo, come dedicarsi all'astrologia. Ma se a uno piace, perché no? Sarebbe comunque, a mio giudizio, un po' come cercare di costruire un perpetuum mobile, un tentativo destinato dall'inizio all'insuccesso
Forse non è solo questione di piacere (anche se un elemento di piacere certamente c'è), ma anche di necessità, perché sempre alla fine si arriva a domande che hanno per risposta ultima la domanda stessa che continua a reiterarsi dischiudendo nuovi scenari semantici. E anche partendo dal concetto di utile per forza di cose si arriva al problema della coscienza che sceglie definendolo ciò che è utile e ciò che non lo è, senza peraltro poterne esaurire il concetto.
E' un po' come mettersi in viaggio per raggiungere una meta che si allontana via via che procedi, ma che pur tuttavia indica il percorso, per cui questo viaggiare non è un inutile vagare, ma un continuo proseguire il cammino e mentre prosegui il cammino, anche se sai che non arriverai mai a destinazione, scopri un sacco di cose interessanti e affascinanti. Certo, ti godi il viaggio per se stesso, ma hai anche la necessità di continuare e senti che non è un inutile perdita di tempo. Capisco che ci sia chi invece ha la necessità di arrivare e quindi, di una meta ben definibile e raggiungibile.
Wittgenstein diceva che ciò di cui non possiamo parlare bisogna tacere, ma così dicendo forse non si accorgeva di contraddirsi, stava infatti comunque dicendo qualcosa di ciò che non possiamo parlare. Mi sa che sia impossibile non parlare anche di ciò di cui non potremmo parlare, che lo si voglia o meno.
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Vecchio 31-10-2013, 19.40.03   #179
maral
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il tuo "problema" maral è quello che peirce definiva l'errore fondamentale comune a molti filosofi: scambiare la denotazione con la connotazione.

è l'errore di tutta la semiotica di umberto eco che fraintende completamente il noumeno.

sostanzialmente saltando tutti i passaggi logici (che compongono i libelli peirciani) si arriva a capire come noi organizziamo in pensieri la differenza del noumeno percepito.il tema della nominazione, così rilevante nella metafisica, sottende però un oblio, che rende quella nominazione perversa, ossia che noi siamo sempre e solo tramite uno scarto che chiamiamo principio del terzo escluso.

E' paradossale che l'io emerga da quella istantaneità (come la nomina HEGEL) con l'altro, ma subito dopo quello stesso "io" , per i noti principi di conservazione darwiniani, dimentichi ciò che lo ha determinato.
in questo senso l'ippogrifo è una dimenticanza delle categorie di determinazione, una confusione, una rimozione direbbe la psicanalisi.
in questo senso sia peirce che hegel nominano 2 "io", il primo originario e il secondo camuffato.

E' a partire da questo secondo io che sembra la nominazione possibile in ordine solo al pensiero, quando invece il pensiero è solo un calcolo approssimativo delle percezione della differenza. (in questo sgiombo cade in un sorta di paradosso, perchè non parte da quell'io originario, da cui deduce correttamente il carattere indimostrabile dell'assunto(della nominazione appunto), ma sempre dal secondo e cioè da un carattere rimosso a cui non sa spiegare il suo essere metafisico, se non in via di presa di coscienza arbitraria, che è infatti sempre una metafisica, come lo è la fede d'altra parte.)


Il discorso mi pare interessante, ma se è possibile, non conoscendo Peirce, ti dispiacerebbe tentare di farmelo comprendere meglio per evitare fraintendimenti in particolare per quanto riguarda le asserzioni che ho evidenziato? Come va posta la differenza di significato tra la denotazione e la connotazione? E' questa differenza che mi farebbe distinguere tra i livelli di esistenza tra l'ippogrifo e un cavallo o tra il mondo e il noumeno? In che senso?
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Vecchio 31-10-2013, 21.05.00   #180
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Originalmente inviato da albert
La mia tesi non è x esiste se è percepita, ma x esiste se è una entità che mi serve per organizzare le mie percezioni.
Per quanto possa sembrarare paradossale, secondo me questa tesi permette di dare una definizione chiara alla parola "esistere", ed è compatibile con il modo in cui tale parola si usa abitualmente, tranne che in campo metafisico. Questa tesi deriva dalla scelta di concentrarsi esclusivamente sulle mie percezioni, e tutto costruire a partire da esse. Secondo me la eventuale discussione andrebbe concentrata su questa scelta.
Accettato questo, non ha senso dare uno status particolare a ciò che percepiscono gli altri, o occuparsi di ciò che non può influenzare le mie percezioni. Rispetto alle tue obiezioni, quindi, non c'è il problema di chi osserva. Ci sono solo io, importa solo ciò che io vedo, gli "altri" sono delle entità esattamente come tutte le altre. Rispetto alla obiezione che fondamentalmente chiede "che cosa succede a una entità quando non è percepita", la discriminante per l'esistenza non è l'essere percepito direttamente, ma avere comunque qualche influenza – anche se del tutto indiretta - sulle mie percezioni.
Mi piacerebbe partecipare a questa interessante discussione. Prima però vorrei chiederti albert se per favore mi puoi aiutare a chiarire dei dubbi sortimi leggendo questo suo discorso:

1) leggendo le prime due frasi, se non ho capito male ciò che per te esiste in primo luogo non è l'oggetto percepito dal soggetto ma l'atto stesso del percepire che "organizza" le sensazioni (stati del soggetto), e quindi la struttura formale immanente della mente, poichè posso dubitare dell'esistenza della mela di fronte a me ma non posso dubitare di me che intendo la mela altrimenti mi contraddirei, giusto? Tuttavia più avanti affermi che "esiste ciò che ha influenza sulle mie percezioni"; questa frase mi è parecchio oscura e occorre chiarire cosa si intende per influenza sulla percezione. A prima vista "influenza sulle percezioni" sembra voler indicare un qualcosa riscontrato nella percezione, quindi un oggetto (l'America) trascendente (esterno al soggetto dunque) che esiste in quanto è percepito; ma questo non sembra essere la tua tesi iniziale, anzi è ciò da cui subito hai preso le distanze ("La mia tesi non è x esiste se è percepita"). Quindi purtroppo in questo discorso leggo due tesi leggermente diverse, quale delle due salvi?

2) Mi piacerebbe discutere e chiarire cosa vuol dire "percezione indiretta"; personalmente definirei "percezione" come quell'atto del soggetto intenzionalmente diretto ad un oggetto; sei d'accordo? Se quindi percezione implica intenzionalità, ovvero mirare ad un qualcosa di esterno, ed il "mirare a" implica sempre un "raggio attenzionale limitato" da parte del soggetto, allora l'atto del percepire è sempre un qualcosa che mira ad un insieme di cose finite, che sono solo una parte limitata di tutto ciò che può essere conosciuto/percepito; nonostante il raggio attenzionale possa essere spostato su altri oggetti, ci sarà sempre qualcosa di non inteso che sfugge allo "sguardo luminoso del soggetto": mi guardo i piedi e non vedo il cielo, alzo la testa verso il cielo e non vedo i piedi (scusa la banalità dell'esempio). Quindi o il nostro raggio attenzionale è infinito e "indirettamente" percepiamo già tutto; e perciò quella che per noi ci sembra conoscenza di qualcosa di nuovo non è altro che un riapprendere qualcosa già intesa (paradossalmente si giungerebbe quindi alla prospettiva platonica della conoscenza come reminiscenza); oppure più plausibilmente l'espressione "percezione indiretta" non ha senso o almeno non sembra esaurientemente rispondere all'obiezione che ti sei fatto. Pertanto secondo la tua prospettiva nell'anno mille l'America non esisteva poichè non era stata costituita dal raggio attenzionale dei soggetti dell'epoca. Il problema di dare primarietà ontologica agli atti soggettivi come la percezione, è che essi sono sempre atti che illuminano una certa porzione di spazio in un preciso momento temporale e perciò sempre relativi e incapaci di dare una struttura globale e uniforme alla realtà.
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