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Filosofia - Forum filosofico sulla ricerca del senso dell’essere.
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Vecchio 30-08-2012, 10.21.47   #61
CVC
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Data registrazione: 30-01-2011
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Riferimento: Il tempo esiste?

Citazione:
Originalmente inviato da bobgo
Sono dell’idea che Eraclito e Parmenide volessero in sostanza dire la medesima cosa. Uno si focalizzava sul divenire, l’altro sull’essere, ma il loro fine è lo stesso: la messa in discussione dell’interpretazione della Realtà intesa come Essere soggetto al Divenire.

Non è il nichilismo il punto di partenza, il nichilismo è una sfida. Per sperare di vincere questa sfida è necessario partire dal relativismo, ossia dalla tabula rasa su verità assolute.

Ogni filosofia nasce perché ha come humus il relativismo. Nasce fluida, aperta all’ignoto, con fede nella Verità che non conosce. Poi lo slancio si esaurisce e la filosofia diventa “sistema” con le sue “verità” ormai fissate, in sostanza non è più filosofia.

Sul fatto che l’avvento della razionalità sia drammatico non mi pare vi possano essere dubbi. I miti di Prometeo e di Adamo non fanno che narrare la drammaticità di questo evento epocale.

Il ritorno allo stato animale, che corrisponde al paradiso terrestre, non è possibile. Ma sovente questo è il desiderio di chi è succube del nichilismo.
Occorre invece andare avanti, e per farlo è necessario riconoscere che non vi è nulla, ma proprio nulla di assolutamente certo.

Ben detto!

Vorrei solo aggiungere che cadendo il castello, nel quale c’eravamo imprigionati da soli… siamo liberi!
Come mai Eraclito metterebbe in discussione l’interpretazione della Realtà intesa come Essere soggetto al Divenire?
A me pare che sia il contrario, ma forse non ho inteso cosa volevi dire.

Il nichilismo più che una sfida è una provocazione, una reazione all'assolutismo idealista. Ma il nichilismo e l'esistenzialismo non offrono nessuna soluzione. Vivere la propria problematicità e la propria contingenza non risolve nulla.
L'esistenzialismo si pone a metà fra l'idealismo ed il realismo, è un ritorno a Kant, al noumeno, ad una realtà oscura ed inaccessibile.
Accetto l'esistenzialismo come provocazione, ma vivere la provocazione come filosofia mi sembra un'assurdità.

Il problema è che il relativismo ormai non è più un punto di partenza ma un punto di arrivo.
Un folle non è più un folle e un delinquente non è più un delinquente, perchè se si considera che è la società ad essere folle o delinquente allora anche il folle ed il delinquente sono normali relativamente alla società. Ma a sua volta la follia e la delinquenza della società non sono assolute, perchè rispecchiano la relazione fra la società e le conflittualità dell'individuo, che in quanto tale è spinto da più parti: dall'ego, dai suoi istinti, dall'amore, dall'odio. Ed ognuna di queste cose non sono realtà assolute perchè l'ego, le pulsioni, l'amore, l'odio, sono tutte realtà relative a qualcos'altro. Procedendo di questo passo dove arriviamo? Arriviamo a dubitare delle cose di cui siamo certi: l'anima, la morale, la razionalità, il senso delle cose.

Ti chiedo venia, ma se per sostenere la tragicità della razionalità usiamo come premessa i miti, siamo all'opposto della filosofia
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Vecchio 30-08-2012, 13.25.03   #62
Giorgiosan
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Riferimento: Il tempo esiste?

Citazione:
Originalmente inviato da Il_Dubbio
Noto che per comprendere il tempo (e la sua esistenza) si sia dovuta, per necessità, aggiungere anche lo spazio, e qualcuno anche il movimento.

Insomma il tempo da solo pare non avere senso.

Dovremmo però aggiungere (per necessità) anche l'oggetto, altrimenti sembra (e sarà possibile?) che sia lo spazio/tempo a muoversi.

Poi, sempre per necessità, avremmo bisogno di una unità che indichi
l'oggetto+spazio/tempo. E' questa unità a muoversi. Il fatto è che noi non sappiamo indicare (se no intuitivamente) cosa sia questa unità.
Secondo intuizione a muoversi sono "punti" adimensionali. Il fatto è che i punti adimensionali (per loro stessa ammissione) non hanno dimensioni, quindi non sono ne spazialmente ne temporalmente individuabili.

l'oggetto+spazio/tempo perde quindi l'oggetto. Rimane lo spazio/tempo. Ma allora è lo spazio/tempo che si muove come un oggetto? Non mi pare sia una conclusione giustificata dall'intuizione.

A questo punto tutto il castello cade.

Sembra che il movimento nel tuo immaginario sia una ultima "appendice" per comprendere lo spazio/tempo.
Il moto è invece la primo indiscutibile, imprescindibile realtà da cui originano le altre: possiamo dire che è il moto in certo senso che da luogo allo spazio, il tempo poi non è che una relazione fra questi due.
Se immagini una ipotetica immobiilità, la categoria tempo non ha alcun senso.
E' il moto, se vuoi il big bang, la messa in moto della materia. Prima del moto della materia lo spazio semplicemente non è.
Bisgna cercare di uscire dall'ottica newtoniana per la quale si immagina uno spazio "fisso", una cornice o una scena tridimensionale entro la quale avviene il moto.

Insomma è il moto l'origine di tutto ... per così dire.

Non badare troppo a come ho espresso questa idee perchè ho solo voluto provocare una intuizione.

Ultima modifica di Giorgiosan : 30-08-2012 alle ore 15.17.56.
Giorgiosan is offline  
Vecchio 30-08-2012, 21.06.14   #63
bobgo
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Messaggi: 128
Riferimento: Il tempo esiste?

Citazione:
Originalmente inviato da CVC
Come mai Eraclito metterebbe in discussione l’interpretazione della Realtà intesa come Essere soggetto al Divenire?
A me pare che sia il contrario, ma forse non ho inteso cosa volevi dire.
Secondo me, la razionalità, nel cercar di comprendere la Realtà fisica, deve necessariamente scomporla in parti distinte una dall’altra.
La prima distinzione, da cui seguono tutte le altre, è quella tra Essere e Divenire, dove l’Essere è ciò che abita il presente, mentre il Divenire è la condizione a cui l’Essere deve sottostare. Dopo di che, nello sforzo di comprendere l’Essere lo si scompone in oggetti distinti, mentre il senso del Divenire, con le cause e gli effetti, emerge nella suddivisione degli stati che questi oggetti assumono nel tempo.

La razionalità comprende solo le relazioni nello spazio e nel tempo, tra gli oggetti che riesce a distinguere, ma gli è incomprensibile l’oggetto in sé nella sua spazio-tamporalità. Di modo che essa, per capire sempre più la Realtà, deve scomporre ancor più finemente gli oggetti a cui è giunta, operando sia spazialmente sia temporalmente. L’oggetto in sé resta però sempre inaccessibile.

Oggetto in sé, che è però il fondamento che dà concretezza a questa stessa interpretazione razionale della Realtà.

Secondo me, sia Parmenide sia Eraclito vogliono mettere in guardia dal considerare l’oggettività in sé come Verità assoluta.

Parmenide si muove nella direzione dell’Essere, portandone alle estreme conseguenze la concezione razionale, mentre Eraclito esaspera il Divenire fino a mettere in crisi “ciò che è”. In entrambi si tende all’assoluto, che traspare però solo nella dissoluzione delle oggettività.

Così almeno io ritengo di interpretare frammenti di Eraclito come i seguenti:
“Immortali mortali, mortali immortali, viventi la morte di quelli e morenti la vita di questi”
“Nello stesso fiume entriamo e non entriamo, siamo e non siamo”

Citazione:
Il nichilismo più che una sfida è una provocazione, una reazione all'assolutismo idealista. Ma il nichilismo e l'esistenzialismo non offrono nessuna soluzione. Vivere la propria problematicità e la propria contingenza non risolve nulla.
L'esistenzialismo si pone a metà fra l'idealismo ed il realismo, è un ritorno a Kant, al noumeno, ad una realtà oscura ed inaccessibile.
Accetto l'esistenzialismo come provocazione, ma vivere la provocazione come filosofia mi sembra un'assurdità.
Più che l’esistenzialismo, è secondo me la filosofia dell’esistenza, così come formulata da Karl Jaspers, che può fornire una soluzione. Da parte mia, questa è l’unica soluzione possibile.
E pure Kant, ne sono convinto, ha ancora molto da dare. Non solo per quel che ha detto, ma, soprattutto per quello che non ha detto, e che traspare nelle inevitabili antinomie e tautologie nel suo onesto sforzo di giungere a comprendere con l’esclusivo uso della ragione.

Citazione:
Il problema è che il relativismo ormai non è più un punto di partenza ma un punto di arrivo.
Un folle non è più un folle e un delinquente non è più un delinquente, perchè se si considera che è la società ad essere folle o delinquente allora anche il folle ed il delinquente sono normali relativamente alla società. Ma a sua volta la follia e la delinquenza della società non sono assolute, perchè rispecchiano la relazione fra la società e le conflittualità dell'individuo, che in quanto tale è spinto da più parti: dall'ego, dai suoi istinti, dall'amore, dall'odio. Ed ognuna di queste cose non sono realtà assolute perchè l'ego, le pulsioni, l'amore, l'odio, sono tutte realtà relative a qualcos'altro. Procedendo di questo passo dove arriviamo? Arriviamo a dubitare delle cose di cui siamo certi: l'anima, la morale, la razionalità, il senso delle cose.
Come non darti ragione?
La situazione è tragica. E mi sa tanto che non si può tornare indietro, alle verità assolute che consolavano il vivere.
Tuttavia, sono convinto che sia anche un’occasione unica, perché è proprio quando non vi è più nulla cui aggrapparsi che possiamo riuscire a trarre da noi stessi ciò che davvero conta.

Donati a noi stessi. Questa è la nostra situazione. Dipende tutto da noi e, allo stesso tempo seppur assurdamente, niente possiamo senza aiuto.

Citazione:
Ti chiedo venia, ma se per sostenere la tragicità della razionalità usiamo come premessa i miti, siamo all'opposto della filosofia
Sono io che devo scusarmi: sono stato troppo sintetico…
Il mito è infatti sintetico, perché intuizione ancora non chiarita dalla razionalità.

Parliamo perciò dell’oggi. Non è proprio questa nostra situazione, che tu stesso consideri tragica, dovuta all’intendere Realtà ciò che è data per scontata dalla razionalità? A che altro se no?
La razionalità fa piazza pulita di ogni Trascendenza, e l’assoluto è necessariamente trascendente.
Tuttavia, il dramma non è in quest’azione purificatrice, che non può che essere benvenuta se ciò che vogliamo è la Verità, ma nell’errore di sostituire la Trascendenza con “la verità razionale dell’esserci”. Nell’esserci non vi è alcuna Verità assoluta!

Non disprezzerei comunque i miti, la filosofia nasce da essi, e a essi sempre ritorna per trovare nuova linfa.
Lo stesso Eraclito, così come Parmenide, si situano nel passaggio tra mito e filosofia. Laddove la razionalità prende il sopravvento, ma dove ancora si odono gli echi di ciò che fu solo intuito.
Essi appartengono a quel Periodo Assiale nel quale Jaspers individua la presa di coscienza dell’Essere da parte dell’umanità.

Confido che noi si stia per entrare in nuovo periodo assiale, dove diverremo finalmente coscienti dell’Esistenza.
L’alternativa? Non oso neppure immaginarmela…
bobgo is offline  
Vecchio 01-09-2012, 09.11.29   #64
CVC
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Riferimento: Il tempo esiste?

Citazione:
Originalmente inviato da bobgo
Secondo me, la razionalità, nel cercar di comprendere la Realtà fisica, deve necessariamente scomporla in parti distinte una dall’altra.
La prima distinzione, da cui seguono tutte le altre, è quella tra Essere e Divenire, dove l’Essere è ciò che abita il presente, mentre il Divenire è la condizione a cui l’Essere deve sottostare. Dopo di che, nello sforzo di comprendere l’Essere lo si scompone in oggetti distinti, mentre il senso del Divenire, con le cause e gli effetti, emerge nella suddivisione degli stati che questi oggetti assumono nel tempo.

La razionalità comprende solo le relazioni nello spazio e nel tempo, tra gli oggetti che riesce a distinguere, ma gli è incomprensibile l’oggetto in sé nella sua spazio-tamporalità. Di modo che essa, per capire sempre più la Realtà, deve scomporre ancor più finemente gli oggetti a cui è giunta, operando sia spazialmente sia temporalmente. L’oggetto in sé resta però sempre inaccessibile.

Oggetto in sé, che è però il fondamento che dà concretezza a questa stessa interpretazione razionale della Realtà.

Secondo me, sia Parmenide sia Eraclito vogliono mettere in guardia dal considerare l’oggettività in sé come Verità assoluta.

Parmenide si muove nella direzione dell’Essere, portandone alle estreme conseguenze la concezione razionale, mentre Eraclito esaspera il Divenire fino a mettere in crisi “ciò che è”. In entrambi si tende all’assoluto, che traspare però solo nella dissoluzione delle oggettività.

Così almeno io ritengo di interpretare frammenti di Eraclito come i seguenti:
“Immortali mortali, mortali immortali, viventi la morte di quelli e morenti la vita di questi”
“Nello stesso fiume entriamo e non entriamo, siamo e non siamo”


Più che l’esistenzialismo, è secondo me la filosofia dell’esistenza, così come formulata da Karl Jaspers, che può fornire una soluzione. Da parte mia, questa è l’unica soluzione possibile.
E pure Kant, ne sono convinto, ha ancora molto da dare. Non solo per quel che ha detto, ma, soprattutto per quello che non ha detto, e che traspare nelle inevitabili antinomie e tautologie nel suo onesto sforzo di giungere a comprendere con l’esclusivo uso della ragione.


Come non darti ragione?
La situazione è tragica. E mi sa tanto che non si può tornare indietro, alle verità assolute che consolavano il vivere.
Tuttavia, sono convinto che sia anche un’occasione unica, perché è proprio quando non vi è più nulla cui aggrapparsi che possiamo riuscire a trarre da noi stessi ciò che davvero conta.

Donati a noi stessi. Questa è la nostra situazione. Dipende tutto da noi e, allo stesso tempo seppur assurdamente, niente possiamo senza aiuto.


Sono io che devo scusarmi: sono stato troppo sintetico…
Il mito è infatti sintetico, perché intuizione ancora non chiarita dalla razionalità.

Parliamo perciò dell’oggi. Non è proprio questa nostra situazione, che tu stesso consideri tragica, dovuta all’intendere Realtà ciò che è data per scontata dalla razionalità? A che altro se no?
La razionalità fa piazza pulita di ogni Trascendenza, e l’assoluto è necessariamente trascendente.
Tuttavia, il dramma non è in quest’azione purificatrice, che non può che essere benvenuta se ciò che vogliamo è la Verità, ma nell’errore di sostituire la Trascendenza con “la verità razionale dell’esserci”. Nell’esserci non vi è alcuna Verità assoluta!

Non disprezzerei comunque i miti, la filosofia nasce da essi, e a essi sempre ritorna per trovare nuova linfa.
Lo stesso Eraclito, così come Parmenide, si situano nel passaggio tra mito e filosofia. Laddove la razionalità prende il sopravvento, ma dove ancora si odono gli echi di ciò che fu solo intuito.
Essi appartengono a quel Periodo Assiale nel quale Jaspers individua la presa di coscienza dell’Essere da parte dell’umanità.

Confido che noi si stia per entrare in nuovo periodo assiale, dove diverremo finalmente coscienti dell’Esistenza.
L’alternativa? Non oso neppure immaginarmela…
E' l'esperienza che comprende le relazioni solo nello spazio e nel tempo, la razionalità può concepire anche in astratto, indipendentemente dalla sensibilità spazio sensoriale.

Per Eraclito l'Assoluto è l'uno, la cui oggettività è data dall'essere presente in tutte le cose
"tutte le cose escono da una cosa e una cosa da tutte le cose, ma le molte cose hanno meno realtà dell'una che è Dio"

La costruzione dei concetti è ciò che ci permette di oggettivare l'esperienza, nei concetti si cerca l'universale delle cose.
La scomposizione degli oggetti è un'operazione analitica che serve per vedere sotto quale categoria o concetto si trova l'oggetto in questione

La razionalità per Popper è la ricerca costante dell'errore. In questo senso la realtà non può essere ciò che è dato per scontato dalla razionalità. Anzi tale razionalità non da niente per scontato

Per i greci la tragedia aveva un effetto catartico, purificatorio. Ma la tragedia è un'imitazione della realtà. E un'imitazione rimane sempre un'imitazione. Del resto nelle rappresentazioni teatrali i protagonisti hanno sempre lo stesso carattere in tutte le situazioni, nella vita reale non è così.

L'alienazione del disagio esistenziale ha per me cause razionali, ciò non significa che sia la razionalità la causa di tale alienazione ma bensì l'uso che si fa della razionalità
Prendiamo ad esempio la concezione dominante nella società ed economia attuale che l'egoismo del singolo sia mosso da una mano invisibile che porta tale egoismo a ad essere un vantaggio per l'intera comunità. E' un'idea viziosa secondo me, perchè se il singolo si arricchisce aumenta si l'economia in generale creando più occupazione, più consumo eccetera. Ma non cambia il meccanismo che chi ha il capitale lo aumenta e chi possiede unicamente il proprio lavoro deve correre per star dietro ad una produttività di capitale che più aumenta più diventa difficile da aumentare. Ciò perchè il fine di questo meccanismo è l'aumento del capitale e non la soddisfazione del bisogno che viene usata come mezzo per produrre il capitale.
Io ho un'ipotesi, e se l'alienzazione esistenziale derivasse dall'aver voluto applicare i metodi delle scienze naturali alle scienze cosiddette umanistiche? Chi ha mai potuto dimostrare che l'economia, la sociologia e la psicologia siano discipline da impostare su rigorose relazioni matematiche come la fisica e la chimica?
Chi può stabilire che il mercato sia la veramente il provvidenziale regolatore dell'economia?
La differenziazione del lavoro, parole di Adam Smith, produce individui stupidi. Il mercato regola la differenziazione della produzione così che ognuno possa produrre un unico prodotto, ci penserà il mercato a rendere eterogenea l'offerta. Ma la stupidità che si viene a creare con la differenziazione chi la regola? Nessuno, anzi quanto più l'individuo diventa stupido e tanto più diventa un buon consumatore di beni inutili.

Questo post si interroga sull'esistenza del tempo, io ho fatto una distinzione fra il tempo della scienza ed il tempo della coscienza che non possono essere la stessa cosa. Mi rifaccio a Bergson.
Come ho detto la scienza ha bisogno di unità di misura omogenee, la coscienza ha bisogno di un tempo eterogeneo.
L'alienazione nasce, questa è la mia ipotesi, quando l'uomo vuole fare diventare omogeneo anche il tempo della coscienza. E' il lavoratore che diventa una macchina svolgendo per otto ore al giorno un lavoro che gli fa compiere sempre gli stessi pochi e ripetitivi gesti, è la pubblicità martellante che decide per te ciò di cui hai bisogno, è l'ossessione della crescita economica, è lo sfruttamento indiscriminato del pianeta, è l'arte dove la sistematicità ha preso il posto della fantasia, è l'incapacità di comprendere la propria umanità, è il paradosso di inetragire con strumenti tecnologici che finiscono per controllarci invece di essere noi a controllarli.
Questa è per me l'alienazione: restituiamo al tempo della coscienza la sua vera natura!

Mi scuso per l'eccessiva lunghezza
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Vecchio 03-09-2012, 22.32.26   #65
bobgo
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Riferimento: Il tempo esiste?

Citazione:
Originalmente inviato da CVC
E' l'esperienza che comprende le relazioni solo nello spazio e nel tempo, la razionalità può concepire anche in astratto, indipendentemente dalla sensibilità spazio sensoriale.

Per Eraclito l'Assoluto è l'uno, la cui oggettività è data dall'essere presente in tutte le cose
"tutte le cose escono da una cosa e una cosa da tutte le cose, ma le molte cose hanno meno realtà dell'una che è Dio"

La costruzione dei concetti è ciò che ci permette di oggettivare l'esperienza, nei concetti si cerca l'universale delle cose.
La scomposizione degli oggetti è un'operazione analitica che serve per vedere sotto quale categoria o concetto si trova l'oggetto in questione

La razionalità per Popper è la ricerca costante dell'errore. In questo senso la realtà non può essere ciò che è dato per scontato dalla razionalità. Anzi tale razionalità non da niente per scontato

Per i greci la tragedia aveva un effetto catartico, purificatorio. Ma la tragedia è un'imitazione della realtà. E un'imitazione rimane sempre un'imitazione. Del resto nelle rappresentazioni teatrali i protagonisti hanno sempre lo stesso carattere in tutte le situazioni, nella vita reale non è così.

L'alienazione del disagio esistenziale ha per me cause razionali, ciò non significa che sia la razionalità la causa di tale alienazione ma bensì l'uso che si fa della razionalità
Prendiamo ad esempio la concezione dominante nella società ed economia attuale che l'egoismo del singolo sia mosso da una mano invisibile che porta tale egoismo a ad essere un vantaggio per l'intera comunità. E' un'idea viziosa secondo me, perchè se il singolo si arricchisce aumenta si l'economia in generale creando più occupazione, più consumo eccetera. Ma non cambia il meccanismo che chi ha il capitale lo aumenta e chi possiede unicamente il proprio lavoro deve correre per star dietro ad una produttività di capitale che più aumenta più diventa difficile da aumentare. Ciò perchè il fine di questo meccanismo è l'aumento del capitale e non la soddisfazione del bisogno che viene usata come mezzo per produrre il capitale.
Io ho un'ipotesi, e se l'alienzazione esistenziale derivasse dall'aver voluto applicare i metodi delle scienze naturali alle scienze cosiddette umanistiche? Chi ha mai potuto dimostrare che l'economia, la sociologia e la psicologia siano discipline da impostare su rigorose relazioni matematiche come la fisica e la chimica?
Chi può stabilire che il mercato sia la veramente il provvidenziale regolatore dell'economia?
La differenziazione del lavoro, parole di Adam Smith, produce individui stupidi. Il mercato regola la differenziazione della produzione così che ognuno possa produrre un unico prodotto, ci penserà il mercato a rendere eterogenea l'offerta. Ma la stupidità che si viene a creare con la differenziazione chi la regola? Nessuno, anzi quanto più l'individuo diventa stupido e tanto più diventa un buon consumatore di beni inutili.

Questo post si interroga sull'esistenza del tempo, io ho fatto una distinzione fra il tempo della scienza ed il tempo della coscienza che non possono essere la stessa cosa. Mi rifaccio a Bergson.
Come ho detto la scienza ha bisogno di unità di misura omogenee, la coscienza ha bisogno di un tempo eterogeneo.
L'alienazione nasce, questa è la mia ipotesi, quando l'uomo vuole fare diventare omogeneo anche il tempo della coscienza. E' il lavoratore che diventa una macchina svolgendo per otto ore al giorno un lavoro che gli fa compiere sempre gli stessi pochi e ripetitivi gesti, è la pubblicità martellante che decide per te ciò di cui hai bisogno, è l'ossessione della crescita economica, è lo sfruttamento indiscriminato del pianeta, è l'arte dove la sistematicità ha preso il posto della fantasia, è l'incapacità di comprendere la propria umanità, è il paradosso di inetragire con strumenti tecnologici che finiscono per controllarci invece di essere noi a controllarli.
Questa è per me l'alienazione: restituiamo al tempo della coscienza la sua vera natura!

Mi scuso per l'eccessiva lunghezza
Indubbiamente non è la razionalità in sé la causa del degrado, bensì l’uso che se ne fa.
Il ritenere “reale” solo ciò che è razionale, se può sul momento dare sicurezza diventa poi motivo d’angoscia.
La certezza, l’esattezza, così tanto apprezzate nella nostra società, quando diventano assolute creano il deserto.

Concordo sui tanti significati che può avere il tempo. E che il suo significato fisico, meccanico, sia diventato quello predominante. Ma non poteva che andare così. Perché la tecnologia è ormai il nuovo rimedio, che sta soppiantando gli altri vecchi rimedi escogitati per combattere l’angoscia esistenziale.
Un rimedio che seppur limitatamente funziona, e che fa sperare in un suo perfezionamento infinito (quasi che possa in futuro permettere la vita eterna).

Ma è proprio la concezione che sta alla base dello sviluppo tecnologico la causa dell’angoscia: il credere verità assoluta l’esserci, con i suoi oggetti distinti e il suo divenire che crea e distrugge.
Non penso sia sufficiente il ritorno al tempo della coscienza, ma che sia necessario andare più avanti, e cogliere la nostra Coscienza Assoluta, che è senza tempo, ed è ciò che siamo.

Ne saremo in grado, o dovrà il deserto mostrarsi in tutto il suo orrore?
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Vecchio 04-09-2012, 09.30.21   #66
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Indubbiamente non è la razionalità in sé la causa del degrado, bensì l’uso che se ne fa.
Il ritenere “reale” solo ciò che è razionale, se può sul momento dare sicurezza diventa poi motivo d’angoscia.
La certezza, l’esattezza, così tanto apprezzate nella nostra società, quando diventano assolute creano il deserto.

Concordo sui tanti significati che può avere il tempo. E che il suo significato fisico, meccanico, sia diventato quello predominante. Ma non poteva che andare così. Perché la tecnologia è ormai il nuovo rimedio, che sta soppiantando gli altri vecchi rimedi escogitati per combattere l’angoscia esistenziale.
Un rimedio che seppur limitatamente funziona, e che fa sperare in un suo perfezionamento infinito (quasi che possa in futuro permettere la vita eterna).

Ma è proprio la concezione che sta alla base dello sviluppo tecnologico la causa dell’angoscia: il credere verità assoluta l’esserci, con i suoi oggetti distinti e il suo divenire che crea e distrugge.
Non penso sia sufficiente il ritorno al tempo della coscienza, ma che sia necessario andare più avanti, e cogliere la nostra Coscienza Assoluta, che è senza tempo, ed è ciò che siamo.

Ne saremo in grado, o dovrà il deserto mostrarsi in tutto il suo orrore?
Nemmeno la tecnologia in sè è fonte di degrado. Il degrado o alienazione nasce dalla volontà quantificatrice economico politica che spinge alla produzione ed al consumo illimitati, voltando le spalle a quelle che sono le esigenze della qualità di vita dell'individuo.
La "civiltà della tecnica" ha bisogno dell'opposizione di una nuova corrente di pensiero utilitaristico, bisogna recuparare ciò che Mill intendeva quando diceva che lo stato ideale è quello in cui nessuno è povero e nessuno desidera diventare ricco.
Abbiamo tutti le orecchie tese verso le ultime novità scientificotecnologiche, e appena giunge una nuova scoperta subito ci si interroga su come possa farci vivere di più, o arricchirci di più, o farci provare più piacere. Siamo alla ricerca di un "vivere meglio" quantitativo.
Tutti guardano la quantità perchè è più facile: più soldi significano più potere d'acquisto, più possesso, più potere.
Nessuno sa cosa è realmente meglio per se stesso, perchè per saperlo bisogna interrogarsi, essere capaci di riflettere in solitudine, stare soli con se stessi. Ma la solitudine, ciò che in tempi passati era considerato cibo per lo spirito, oggi è vista come degradazione, come incapacità sociale, forse anche un pò malattia.
La realtà è che il mondo è triste perchè vuole sapere solo quanto e non cosa. Per questo si preferisce la scienza alla filosofia, anzi si considera inutile la filosofia.

Non so quale sia la coscienza assoluta, forse quella che rifiuta ogni assolutismo? Allora dovrebbe rifiutare anche se stessa.

Il fatto problematico della coscienza è questo: che agisce nel tempo. Noi possiamo non dubitare solo di ciò che accade qui ora. Ma la coscienza non agisce solo nel presente, vi lavorano anche il passato ed il futuro. E quante distorsioni, errori o mere fantasticherie infarciscono il passato ed il futuro? Si può addirittura dubitare della loro esistenza. La coscienza del resto svolge il compito di prepararci al presente, facendoci dimenticare gli espisodi più brutti del passato e mettendoci sotto gli occhi le opportunità più favorevoli del futuro.

Quindi anche la coscienza inganna, anche se lo fa per il nostro bene: è l'autoconservazione.
Tanto più ci sforziamo di allargare la coscienza e tanto più ciò che otteniamo è un effetto del nostro istinto.
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Vecchio 04-09-2012, 22.25.48   #67
bobgo
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Nemmeno la tecnologia in sè è fonte di degrado. Il degrado o alienazione nasce dalla volontà quantificatrice economico politica che spinge alla produzione ed al consumo illimitati, voltando le spalle a quelle che sono le esigenze della qualità di vita dell'individuo.
La "civiltà della tecnica" ha bisogno dell'opposizione di una nuova corrente di pensiero utilitaristico, bisogna recuparare ciò che Mill intendeva quando diceva che lo stato ideale è quello in cui nessuno è povero e nessuno desidera diventare ricco.
Abbiamo tutti le orecchie tese verso le ultime novità scientificotecnologiche, e appena giunge una nuova scoperta subito ci si interroga su come possa farci vivere di più, o arricchirci di più, o farci provare più piacere. Siamo alla ricerca di un "vivere meglio" quantitativo.
Tutti guardano la quantità perchè è più facile: più soldi significano più potere d'acquisto, più possesso, più potere.
Nessuno sa cosa è realmente meglio per se stesso, perchè per saperlo bisogna interrogarsi, essere capaci di riflettere in solitudine, stare soli con se stessi. Ma la solitudine, ciò che in tempi passati era considerato cibo per lo spirito, oggi è vista come degradazione, come incapacità sociale, forse anche un pò malattia.
La realtà è che il mondo è triste perchè vuole sapere solo quanto e non cosa. Per questo si preferisce la scienza alla filosofia, anzi si considera inutile la filosofia.

Non so quale sia la coscienza assoluta, forse quella che rifiuta ogni assolutismo? Allora dovrebbe rifiutare anche se stessa.

Il fatto problematico della coscienza è questo: che agisce nel tempo. Noi possiamo non dubitare solo di ciò che accade qui ora. Ma la coscienza non agisce solo nel presente, vi lavorano anche il passato ed il futuro. E quante distorsioni, errori o mere fantasticherie infarciscono il passato ed il futuro? Si può addirittura dubitare della loro esistenza. La coscienza del resto svolge il compito di prepararci al presente, facendoci dimenticare gli espisodi più brutti del passato e mettendoci sotto gli occhi le opportunità più favorevoli del futuro.

Quindi anche la coscienza inganna, anche se lo fa per il nostro bene: è l'autoconservazione.
Tanto più ci sforziamo di allargare la coscienza e tanto più ciò che otteniamo è un effetto del nostro istinto.
Viceversa la coscienza assoluta non inganna, perché è certezza dell’essere.
Ed è proprio dalla tensione tra coscienza nell’esserci e coscienza assoluta che nasce il filosofare.

Tramite la coscienza assoluta avviene la conquista del non-sapere. Ossia di quel non-sapere che si realizza quando il sapere oggettivo, nello sforzo di conoscere sempre più, finisce per annullarsi.
Questo non-sapere non è la semplice negazione del sapere, ma l’esperienza della situazione-limite.
Da questo non-sapere nasce la sollecitazione per la ricerca di ogni sapere.

Nell’esserci, nel mondo oggettivo, la coscienza assoluta è nulla. Ma non può che essere così, visto che essa è coscienza della mia essenza.

Caro CVC, non vi è alcuna età dell’oro in cui vivevamo felici! Non vi è mai stato alcun momento in cui Verità, Giustizia, Bene, trionfassero nel mondo.
Ciò che davvero importa è ciò che si decide qui, ora.
Una decisione che è per l’eternità.

Invece di rimpiangere un immaginario passato felice, non è forse meglio andare avanti fino al limite?
Seguendo la coscienza assoluta, che è certezza dell’essere, si può avanzare nel sapere sempre più fino a giungere al non-sapere. Si è allora nella situazione-limite, e potrà coglierci la vertigine di fronte al naufragio, ma sarà proprio a quel punto che potremo forse avvertire la Trascendenza.
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Vecchio 05-09-2012, 18.21.15   #68
CVC
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Viceversa la coscienza assoluta non inganna, perché è certezza dell’essere.
Ed è proprio dalla tensione tra coscienza nell’esserci e coscienza assoluta che nasce il filosofare.

Tramite la coscienza assoluta avviene la conquista del non-sapere. Ossia di quel non-sapere che si realizza quando il sapere oggettivo, nello sforzo di conoscere sempre più, finisce per annullarsi.
Questo non-sapere non è la semplice negazione del sapere, ma l’esperienza della situazione-limite.
Da questo non-sapere nasce la sollecitazione per la ricerca di ogni sapere.

Nell’esserci, nel mondo oggettivo, la coscienza assoluta è nulla. Ma non può che essere così, visto che essa è coscienza della mia essenza.

Caro CVC, non vi è alcuna età dell’oro in cui vivevamo felici! Non vi è mai stato alcun momento in cui Verità, Giustizia, Bene, trionfassero nel mondo.
Ciò che davvero importa è ciò che si decide qui, ora.
Una decisione che è per l’eternità.

Invece di rimpiangere un immaginario passato felice, non è forse meglio andare avanti fino al limite?
Seguendo la coscienza assoluta, che è certezza dell’essere, si può avanzare nel sapere sempre più fino a giungere al non-sapere. Si è allora nella situazione-limite, e potrà coglierci la vertigine di fronte al naufragio, ma sarà proprio a quel punto che potremo forse avvertire la Trascendenza.
La coscienza della mia essenza deve essere per forza interiore a me, come fa quindi ad essere assoluta?
Se col naufragio percepisco la mia vera essenza che corrisponde alla coscienza assoluta, questa coscienza assoluta è assoluta nel senso che è assoluta per me.
Mi sbaglierò, ma a me pare che il filosofare nasca dalla ricerca di una conoscenza universale, questo ragionamento mira invece alla ricerca di una coscienza assoluta personale che nega qualsiasi altro assoluto, nega quindi l'esistenza stessa dell'universale.

Sarebbe ben ridicolo rimpiangere un'ipotetica e passata età dell'oro, un mondo in cui giustizia e bene regnavano. Se fosse esistita, un'epoca simile non avrebbe certo avuto bisogno di alcuna filosofia.
Si parlava di alienazione ed io ho citato l'avvento dell'età industriale come causa della spersonalizzazione dell'individuo.
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Vecchio 05-09-2012, 23.45.42   #69
bobgo
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Riferimento: Il tempo esiste?

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Originalmente inviato da CVC
La coscienza della mia essenza deve essere per forza interiore a me, come fa quindi ad essere assoluta?
Se col naufragio percepisco la mia vera essenza che corrisponde alla coscienza assoluta, questa coscienza assoluta è assoluta nel senso che è assoluta per me.
Mi sbaglierò, ma a me pare che il filosofare nasca dalla ricerca di una conoscenza universale, questo ragionamento mira invece alla ricerca di una coscienza assoluta personale che nega qualsiasi altro assoluto, nega quindi l'esistenza stessa dell'universale.

Sarebbe ben ridicolo rimpiangere un'ipotetica e passata età dell'oro, un mondo in cui giustizia e bene regnavano. Se fosse esistita, un'epoca simile non avrebbe certo avuto bisogno di alcuna filosofia.
Si parlava di alienazione ed io ho citato l'avvento dell'età industriale come causa della spersonalizzazione dell'individuo.
La coscienza assoluta è certezza dell’essere, è questa la ragione per la quale è assoluta.
Non la posso oggettivare perché è sempre dietro di me. E’ l’origine da cui io mi muovo, ed essendo l’origine, pensarla significa pensare nulla.

Nel naufragio, posso decidere di affidarmi, costi quello che costi, alla coscienza assoluta. Ed è allora che la Trascendenza può manifestarsi.

Sono convinto che sia sbagliato ritenere che la filosofia nasca dalla ricerca di una conoscenza universale. Perché l’universale non ha nulla a che vedere con la realtà.
E’ invece dalla tensione tra coscienza assoluta e conoscenza dell’universale che nasce la filosofia.

L’universale è tutto ciò che si può conoscere, nell’esserci, e in questa direzione siamo costretti a procedere per sapere, ma questa conoscenza è destinata sempre a fallire, perché l’universale finisce inevitabilmente per sgretolarsi di fronte alla coscienza assoluta, che è coscienza di ciò che è.

In effetti, l’universale in sé non esiste. Ma neppure si può allora ritenere che sia il particolare a esistere in sé. Presumibilmente l’esistenza è il superamento dell’universale e del particolare.

Neanche si può assumere che l’esistenza sia totalmente personale, relativa al sé. Perché l’esistenza può manifestarsi solo nella comunicazione con l’altro.
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Vecchio 09-09-2012, 10.32.32   #70
CVC
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Originalmente inviato da bobgo
La coscienza assoluta è certezza dell’essere, è questa la ragione per la quale è assoluta.
Non la posso oggettivare perché è sempre dietro di me. E’ l’origine da cui io mi muovo, ed essendo l’origine, pensarla significa pensare nulla.

Nel naufragio, posso decidere di affidarmi, costi quello che costi, alla coscienza assoluta. Ed è allora che la Trascendenza può manifestarsi.

Sono convinto che sia sbagliato ritenere che la filosofia nasca dalla ricerca di una conoscenza universale. Perché l’universale non ha nulla a che vedere con la realtà.
E’ invece dalla tensione tra coscienza assoluta e conoscenza dell’universale che nasce la filosofia.

L’universale è tutto ciò che si può conoscere, nell’esserci, e in questa direzione siamo costretti a procedere per sapere, ma questa conoscenza è destinata sempre a fallire, perché l’universale finisce inevitabilmente per sgretolarsi di fronte alla coscienza assoluta, che è coscienza di ciò che è.

In effetti, l’universale in sé non esiste. Ma neppure si può allora ritenere che sia il particolare a esistere in sé. Presumibilmente l’esistenza è il superamento dell’universale e del particolare.

Neanche si può assumere che l’esistenza sia totalmente personale, relativa al sé. Perché l’esistenza può manifestarsi solo nella comunicazione con l’altro.
Senza l'universale non può esserci il concetto e senza concetti addio filosofia.

L'idea di Jaspers, che il naufragio liberi dall'immutabile, il quale impedisce il divenire, è già presente in Hegel quando dice che la forza dell'intelletto è nel suo unirsi ed espandersi.
L'aggrapparsi ad un qualcosa di immutabile impedisce all'intelletto di affrontare la realtà del divenire, bisogna liberarsi del vecchio per poter fare spazio al nuovo.
Detto questo rimane che pur sempre a qualcosa ci si aggrappa, che si parli di universale o di naufragio o di coscienza assoluta, si tratta comunque di rappresentazioni che si propongono come permanenti di fronte al divenire.
O si pensa con Parmenide e Severino che il divenire non esiste, oppure a qualcosa bisogna pur aggrapparsi.
E la filosofia in quest'ottica mi si presenta come un continuo distruggere vecchi appigli per poi costruirne di nuovi, cui aggrapparsi nella corrente del divenire che, per riallacciarci al titolo del post, lo possiamo chiamare tempo.
CVC is offline  

 



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