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Filosofia - Forum filosofico sulla ricerca del senso dell’essere.
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Vecchio 21-02-2013, 10.30.40   #81
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Il tuo discorso, maral, in generale lo accolgo, eppure non capisco come puoi predicare questo divenire degli enti. Cioè è vero che ogni ente partecipa dell'Essere anche nella sua specificità, ma la partecipazione dell'essere nel tuo caso mi pare problematica; nel senso che l'Ente è ciò che è definito e precisamente in un certo modo, metre l'Essere, in realtà, è il contrario.

In altre parole l'Ente parteciperebbe della possibilità se non fosse davvero definito, ma essendo "quell'Ente" lui non è più possibilità, è una necessità e basta. Per cui se ammettiamo che "una sfera Esiste", quando diventerà, chessò, un cubo, essa, si potrà dire, "non esiste più". Infatti tu stesso ammetti che l'Ente è "possibilità realizzata" e non possibilità, e a me pare che questa possibilità realizzata sia, per sé, una necessità.


La mia posizione è di distinguere l'apparire dal soggetto delle predicazioni (e la forma sferica, o il colore di un oggetto, sarebbero esempi di "apparire"), e in realtà si tratta di una operazione abbastanza sottile da farla confondere con la tua. Cioè tu parli dell'esistenza degli Enti, che però, come abbiamo avuto modo di appurare, non sarebbero che le proprietà stesse, o un substrato già definito in quanto insieme di proprietà, a cui poi si ascrivono altre proprietà. Per esempio: "questa sfera è rossa"; l'essere rossa è una proprietà che si aggiunge a quella di "essere sferico", perciò gli enti non sono che insiemi di proprietà o le proprietà stesse secondo la tua prospettiva (e anche la mia), ma è a queste proprietà che tu additi l'esistenza, come se fossero il soggetto delle predicazioni. Ma se gli enti sono predicati non potranno essere al contempo il soggetto di se stessi... per cui, dicevo, credo che sarebbe più giusto non additare l'Esistenza agli Enti, cioè alle proprietà, (anche in base al fatto che la sussitenza delle proprietà è legata indissolubilmente a quella del contesto -mentre dai tuoi ragonamenti, dapprima si ammette questo, e poi si conferisce autonomia esistenziale alle singole cose, come se potessero "essere" al di fuori del contesto, nel momento in cui ammetti che si possa dire che uno specifico ente esiste- e che l'esistenza di ogni contesto è legata a quella di un'altro contesto ancora e così si arriva all'insieme di tutti i contesti) ma all'Essere stesso, come se non si potesse davvero predicare l'Esistenza, in linea con il precetto logico che se si deve additare l'Esistenza a tutti, non ha senso in realtà farlo. Cioè "questo Esiste" ha valore solo se si può dire "questo non esiste".


Il soggetto della predicazione sarebbe la denotazione, il riferimento di un significato, e non il suo apparire contingente. Questo è un passo di Willard Van Orman Quine, preso dal saggio "Su ciò che vi è", che potrà chiarire ciò che intendo:

...La locuzione "Stella della sera" denota un certo oggetto fisico grande e di forma sferica che viaggia per lo spazio a parecchi milioni di miglia dalla terra. La locuzione "Stella del mattino" denota la stessa cosa, come probabilmente fu stabilito la prima volta da qualche attento babilonese. Ma non si può dire certo che le due locuzioni abbiano lo stesso significato; altrimenti quel babilonese si sarebbe potuto risparmiare le sue osservazioni e gli sarebbe bastato riflettere sul significato delle parole impiegate. Dal momento che i due significati sono diversi tra loro, devono allora essere altro dall'oggetto denotato, che invece è uno e il medesimo in entrambi i casi... ...Ciò che è avvenuto, in pratica, è che McX ha confuso il presunto oggetto denotato Pegaso, con il significato della parola <<Pegaso>>, e ha tratto perciò la conclusione che Pegaso deve essere perché la parola abbia significato.


La mia conclusione è che non esistendo ciò che generalmente chiamiamo Enti al di fuori dei campi di senso, come al di fuori di campi di forze (e per campo di forze intendo un sistema di relazioni fisiche), gli oggetti denotati, cioè quegli oggetti obbiettivi che stanno "dietro" ogni apparire, sarebbero in realtà l'Essere stesso. In questo caso specifico "la stella che viaggia a milioni di miglia dalla terra" non può essere considerato come la denotazione degli altri significati ("stella della sera", "stella del mattino"), poiché essa è una descrizione contingente e non effettivamente "l'unico oggetto da cui le varie descrizioni andrebbero a trarre la propria specificità", cioè è una descrizione che non coincide col noumenico oggetto in sé di cui si vorrebbe tanto parlare. Per cui quando parlo dell'esistenza di qualcosa, che io vedo in un certo modo, questa esistenza non è legata alla manifestazione contingente, e non perché gli Enti parteciperebbero della possibilità pur essendo in realtà qualcosa di definito e determinato , ma prorprio perché loro sono l'Essere e non le predicazioni; il soggetto, l'Enità che appare a chi in un modo e a chi in un altro, è l'Essere, non l'Ente. Così, mi pare, possono trovare più senso le tue citazioni circa l'Uno.

In realtà, maral, per essere più specifico, quando ti ho spiegato questa mia posizione, mi hai risposto che alla fine si può trattare da soggetto anche un ente (insieme di predicati), nel senso che, per esempio, "un uomo (=> insieme di predicati) è alto". Ma io ti chiedo, ha davvero senso dire che a distorcersi sono quei predicati quando si additano altre caratteristiche? Cioè te diresti che se un cubo viene pitturato di rosso è la proprietà d'essere cubico che viene alterata o qualcosa, che è il soggetto dell'essere cubico, a distorcersi?



Prima ho detto di non conferire esistenza alle proprietà (agli enti), ma con ciò (per non risultare assurdo) devo specificare di aver voluto dire che additando l'esistenza ad un Ente o ad una proprietà, si stà già conferendo esistenza a tutto il contesto (essere-con-l'altro, ma davvero), e così ai contesti che rendono tale quel contesto arrivando all'Essere; in altre parole puoi forse conferire esistenza ad un Ente, ma in realtà così facendo stai indicando l'Esistenza di tutti gli altri enti (che insieme formano un contesto), che nel linguaggio tecnico consideri separatamente.

PS: scusate la lunghezza del post e il ritardo nella risposta, ma avevo degli esami.

Ultima modifica di Aggressor : 21-02-2013 alle ore 15.43.40.
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Vecchio 21-02-2013, 10.59.57   #82
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maral
Ciò che sto tentando di sostenere è che non c'è una rapporto di esclusione tra l'Essere come necessità e l'Essere come possibilità di un molteplice esserci, ma che è proprio la singola necessità a implicare immediatamente la molteplice possibilità e viceversa.

Una cosa è implicare la possibilità degli altri, altra cosa è essere per sé già una possibilità (qualcosa, dunque, che può divenire).

Stò solo cercando di evidenziare in tutti i modi i punti che, personalmente, trovo problematici nel tuo discorso; che poi ripeto, era una visione in cui mi ritrovavo perfettamente fino a un annetto fa.

Un saluto come sempre, stammi bene

Ultima modifica di Aggressor : 21-02-2013 alle ore 15.21.48.
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Vecchio 21-02-2013, 21.27.58   #83
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@ Maral
No, non ho mai letto alcuna opera completa di Severino (un filosofo che ho iniziato ad apprezzare solo negli
ultimi tempi). E quindi diciamo che, sì, conosco "La Struttura Originaria" come la sua opera fondamentale, ma
ovviamente vi sono degli aspetti che mi sfuggono.
Concordo tuttavia con l'affermazione per cui l'uso predicativo e quello esistenziale convergono (convergono,
io trovo, nel momento in cui il rapporto predicativo assume significati diversi in relazione ad una "esistenzialità"
diversa).
Per me, resta comunque il (gran) problema di un Essere che è NEGLI enti (io trovo che anche l'"y'a", il "c'è"
di cui parla Levinas, e che definisce "essere senza essenti", sia in definitiva un qualcosa che "è", e quindi
un essente) non come una aristotelica sostanza, quindi non come un essente nel senso canonico del termine; ma
come, dicevo, nel senso di un significato.
Com'è possibile, infatti, che l'Essere sia NEGLI enti senza identificarsi con essi? Oppure, com'è possibile
che l'Essere sia FUORI dagli enti senza essere a sua volta un ente?
Ora, lasciando perdere il discorso sulla necessità e sulla possibilità dell'Essere (che, semmai, riprenderemo),
a me pare che il punto di partenza, per così dire, non possa essere che quello definito da Aristotele: "l'Essere
si dice in molti modi (possiamo infatti dire che la matita è rossa, oppure nera, etc.), ma uno solo è il suo
significato primario e fondamentale".
E dunque: potremmo forse mai dire che il significato primario e fondamentale dell'Essere della matita è il suo
essere rossa o di qualsiasi altro colore? Io non credo. Ma allora cosa intendeva Aristotele con quella
affermazione?
Io penso che Aristotele abbia voluto dire che l'Essere della matita rossa è necessariamente il suo essere
una matita rossa. Cioè che la matita rossa non possa essere che quella che è (nel medesimo tempo e nel medesimo
modo, come sappiamo aggiunge Aristotele).
E' solo da qui, da questo preciso "punto" che comincia il mio (mio si fa per dire...) discorso sulla necessità
e sulla possibilità dell'Essere. Discorso al quale mancava un preambolo importante, e che io individuo in
questo ragionamento.
un saluto
0xdeadbeef is offline  
Vecchio 21-02-2013, 23.51.35   #84
maral
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Citazione:
Aggressor: Una cosa è implicare la possibilità degli altri, altra cosa è essere per sé già una possibilità (qualcosa, dunque, che può divenire).
Ma la possibilità dell'Essere sono appunto gli essenti nel modo in cui ciascuno di essi è, mentre la necessità degli enti è l'Essere.
Gli enti, proprio come l'Essere non sono mai totalmente definiti, essi rappresentano la necessità dell'Essere di definirsi e dunque di apparire (perché ciò che è per necessità appare e apparendo mostra le possibilità), ma questa definizione lascia sempre qualcosa di non definito, e in questo indefinito residuo prende forma l'altro (l'altra possibilità)
L'essente non è mai separato dall'Essere, ogni essente è l'Essere intero nei modi in cui via via va definendosi. Certo che l'essere rosso, l'essere sferico ecc. appartengono all'Essere come essenti, proprio come l'essere rossa di questa sfera (o l'essere di una sfera questo rosso ) è un modo di essere (una possibilità) a cui compete per intero la necessità dell'Essere. Questa sfera rossa non sarà mai (né mai è stata) questa stessa sfera blu su un piano prettamente ontologico e non semplicemente gnoseologico.
Se:
Citazione:
...La locuzione "Stella della sera" denota un certo oggetto fisico grande e di forma sferica che viaggia per lo spazio a parecchi milioni di miglia dalla terra. La locuzione "Stella del mattino" denota la stessa cosa, come probabilmente fu stabilito la prima volta da qualche attento babilonese. Ma non si può dire certo che le due locuzioni abbiano lo stesso significato; altrimenti quel babilonese si sarebbe potuto risparmiare le sue osservazioni e gli sarebbe bastato riflettere sul significato delle parole impiegate. Dal momento che i due significati sono diversi tra loro, devono allora essere altro dall'oggetto denotato, che invece è uno e il medesimo in entrambi i casi... ...Ciò che è avvenuto, in pratica, è che McX ha confuso il presunto oggetto denotato Pegaso, con il significato della parola <<Pegaso>>, e ha tratto perciò la conclusione che Pegaso deve essere perché la parola abbia significato.
in base a cosa affermo che la stella del mattino e la stella della sfera sono la stessa stella? Qual è il motivo ontologico per cui credo di poterlo affermare? ci sarà pure qualcuno che ha visto una stella al mattino e l'ha chiamata stella del mattino e un altro che ha visto una stella alla sera e l'ha chiamata stella della sera, perché dovrei escludere questo qualcuno, questo qualcun altro, questo apparire al mattino e questo apparire alla sera dall'essere stella di queste stelle di modo che esse mi appaiano sostanzialmente una con appiccicati attributi diversi appartenenti all'Essere e non al loro diverso essere stella?
Non credo che questo sia un confondere, come dice green&grey pocket ontologia e gnoseologia, la cosa dal significato o segno di quella cosa, è che proprio non riesco a capire come si possa pensare di separare la cosa che è dal significato che la mostra e che per intero indissolubilmente le appartiene. Come possono le cose restare le stesse cose ancorché prive del loro specifico intero significare e i predicati ritrovarsi ad aleggiare senza cose nel puro Essere, resta per me un mistero.
Qui mi fermo per ora, ripromettendomi di rileggere bene le tue obiezioni, scusandomi per adesso.
Un saluto a tutti.
maral is offline  
Vecchio 22-02-2013, 09.10.39   #85
sgiombo
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Citazione:
Originalmente inviato da green&grey pocket
@sgiombo

A proposito di ritardi...il mio è di quelli siderali, ma anche viste le elezioni vicine ho incontrato un pensiero più urgente da sviluppare (e che ovviamente è degenerato in una serie di diramazioni infinite).
In questi giorni ho letto il 3d piuttosto oneroso (sono arrivato ad alcune considerazioni di maral ma penso che tu abbia lasciato perdere)
Mi spiace che gli altri non riescano a seguirti, io invece mi ci ritrovo perfettamente, e quindi non so se qui o su un 3d a parte (penso sia giusto lo apra tu) vorrei continuassi, perchè mancano molti parametri a quella visione che nel primo post esponevi.(potrebbe chiamarsi fatti ed evento come in un topic americano, in cui si discuteva di Hume, e di cui non ho capito bene la questione della differenza. Un pretesto per ampliare ovviamente!)

Troppo umile comunque, è evidente che hai una visione molto completa e pertinente dei vari problemi della filosofia (forse non così vasta, ma a questo punto non saprei se crederti).

Non sai quanto mi rallegri il fatto che qualcuno (tu) segua i miei ragionamenti.
Ti ringrazio di cuore (anche per i complimenti esagerati).

A questo punto cercherò di proseguire l’ esposizione sintetica delle mie convinzioni su conoscenza e realtà (parto citando questo tuo intervento e non rivolgendomi esplicitamente @ green&grey pocket nell’ ottimistica speranza che anche qualcun altro mi segua e mi rivolga qualche critica (me ne aspetto naturalmente anche da te).

Nei precedenti interventi abbiamo ammesso -arbitrariamente, senza poterlo dimostrare- che esistono anche altre esperienze coscienti (fenomeniche) oltre alla “nostra propria” e che vi è una corrispondenza puntuale ed univoca fra una parte dei loro “contenuti” (ciò che ciascun senziente percepisce), quella costituita dalle sensazioni materiali naturali di ciascuna di esse (corrispondenza relativa fra l’ altro alle forme e ai rapporti quantitativi; per esempio quello di ¼ fra ramo e tronco dell’ albero nel giardino visto da vari uomini e animali).
Questa intersoggettività (e anche questa misurabilità secondo rapporti quantitativi esprimibili con numeri) é propria delle sensazioni materiali o esteriori e non di quelle mentali o interiori: posso forse -non sempre- stabilire se un desiderio -per esempio quello di comportarmi onestamente- è maggiore o minore di un altro -per esempio quello di possedere un oggetto altrui- ma non certo “di quante volte” lo è (tre volte? Quindici volte? Trecentomila volte?); questi desideri contrastanti li si può esprimere e comunicare linguisticamente ad altri in maniera più o meno precisa e dettagliata ma, contrariamente agli oggetti materiali, non si possono indicare, non si possono far direttamente esperire agli altri (come insiemi di percezioni perfettamente corrispondenti fra loro in ciascuna delle esperienze personali coscienti nelle quali accadono).
Il mondo naturale o materiale (l’ insieme generale delle sensazioni materiali o esteriori in divenire nelle varie esperienze coscienti) proprio per queste sue caratteristiche di poter essere direttamente esperito anche dagli altri uomini (e da diversi animali) -intersoggettività- e di presentare aspetti misurabili tramite rapporti esprimibili con numeri, al contrario del mondo interiore o mentale di ognuno, che invece può soltanto essere comunicato indirettamente col linguaggio, “descritto” più o meno fedelmente, e comunque con qualche approssimazione e incertezza mai totalmente superabili ma non direttamente “mostrato” può essere oggetto, di conoscenza scientifica (cioè generale-astratta dei modi del suo divenire; oltre che di conoscenza in generale, anche dei suoi aspetti particolari-concreti; che è anche il caso del mondo mentale o interiore).
Come ci ha insegnato Hume, la verità della conoscenza scientifica è condizionata anche dalla verità di un presupposto arbitrario, non dimostrabile essere vero (nè essere falso) ma credibile soltanto per fede, e cioè del divenire della realtà naturale materiale secondo modalità o leggi universali e costanti (che è come dire il divenire relativo o parziale, ovvero -è la medesima, identica cosa detta in un altro modo, con diverse parole- la fissità relativa o parziale della realtà naturale stessa: la sintesi, per così dire, fra una fissità assoluta ed integrale, "parmenidea" -tesi- e un mutamento assoluto ed integrale, "pseudoeracliteo" -antitesi-).
La scienza astrae gli aspetti universali e costanti (e necessari, fissi, non divenienti) del relativo e parziale divenire naturale dai suoi concreti aspetti particolari (e mutevoli, contingenti): è contingente che la terra abbia un unico satellite naturale, necessario che, date le loro masse, l' orbita di esso sia quella che è: tutto ciò accadrebbe sempre e dovunque -per così dire, immutabilmente o fissamente- ogni qualvolta accadessero tali condizioni di fatto, senza eccezione alcuna).
Come ci ha mostrato Hume, la verità del divenire della natura materiale secondo le leggi universali e costanti scientificamente conoscibili non è dimostrabile dal momento che il costante rispetto di esse che si fosse (apparentemente?) osservato fino ad un certo momento potrebbe sempre essere messo in dubbio in modo logicamente corretto o non autocontraddittorio a proposito di ogni futura osservazione particolare: per quante siano le osservazioni passate che confermano tutte, ineccepibilmente che nel campo gravitazionale della terra una massa piccola rispetto ad essa è attirata verso il suo centro (in una determinata misura), niente vieta di considerare in modo non contraddittorio, e dunque di ipotizzare come possibile, che la prossima volta che una mela matura si staccherà dall' albero sarà invece sospinta verso il cielo.

Qui mi fermerei per ora, in attesa di eventuali obiezioni.

Grazie innanzitutto a green&grey pocket, ma auspicabilmente anche ad altri per l’ attenzione.
sgiombo is offline  
Vecchio 22-02-2013, 15.26.39   #86
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Mi pare di poter concordare con ciò che scrivi sgiombo, l'unico commento che mi viene da dire è che la scienza attuale spesso considera effettivamente che qualcosa come la forza di gravità ed altre leggi che sono state viste come necessarie e "incorruttibilibi" in realtà facciano parte della sfera del contingente. Cioè, sopratutto si mette in discussione la necessità del valore dei rapporti delle quattro forze fondamentali (quella nucleare forte, debole ecc.), ma per rimediare a questo aspetto del nostro universo (cioè il fatto che non si trova una motivazione per cui dovrebbe essere così e non altrimenti), si ipotizza che in altri universi "paralleli" tutto ciò che nel nostro si è rivelato in un certo modo si realizzi negli altri possibili.


Questo tipo di argomento (almeno molto simile) era utilizzato anche da alcuni atomisti per dimostrare che l'apparente contingenza delle modalità del mondo (considerata dai più qualcosa di così "favorevole" da poter essere ascritto solo ad una mente intelligente) fosse semplicemente una necessità scaturita dalla "potenza" dell'infinito; nel senso che esistendo infiniti mondi, uno tra questi doveva presentarsi come il nostro.


Questo mondo potrebbe essere quello in cui certe costanti non sono mai cambiate e non cambieranno mai, non perché le cose devono essere così, ma perché il caso ha voluto che noi ci trovassimo in un simile universo possibile.



Io sono scettico riguardo queste posizioni. Se le cose potessero andare diversamente, ci sarebbero troppe probabilità che la prossima volta che lancio una mela quella inizi a viaggiare verso la troposfera per non assistere davvero ad una scena del genere. Cioè volendo calcolare la probabilità che le cose possano essere così, troveremmo che il risultato di una simile operazione tenderebbe ad un numero che suonerebbe nullo. Questo non dimostra a livello di verità assoluta che le leggi non possono mutare, ma può darci lo spunto per delle riflessioni logiche che ci permettano di escludere definitivamente questa possibilità. Anche se nella storia dell'uomo qualcosa del genere non è mai stato pensato, c'è più probabilità che una siffatta teoria venga scoperta che io mi decomponga tra qualche minuto su questa sedia perché la natura ha cambiato casualmente le sue costanti.
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Vecchio 23-02-2013, 10.28.47   #87
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Ci sono alcuni punti che vorrei riprendere dalle tue considerazioni Sgiombo:
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Originalmente inviato da sgiombo
Nei precedenti interventi abbiamo ammesso -arbitrariamente, senza poterlo dimostrare- che esistono anche altre esperienze coscienti (fenomeniche) oltre alla “nostra propria” e che vi è una corrispondenza puntuale ed univoca fra una parte dei loro “contenuti” (ciò che ciascun senziente percepisce), quella costituita dalle sensazioni materiali naturali di ciascuna di esse (corrispondenza relativa fra l’ altro alle forme e ai rapporti quantitativi; per esempio quello di ¼ fra ramo e tronco dell’ albero nel giardino visto da vari uomini e animali).
Non ho partecipato alla precedente discussione, ma questa tematica dell'altrui esperire la trovo estremamente interessante e vorrei approfondirne un poco il senso. Se esistono altre esperienze coscienti (e si può certamente ammetterlo in virtù del normale modo di sentire per come ora si presenta dato, pur senza poterlo dimostrare), queste esperienze possono essere altre (riferiti ad altri soggetti) solo in quanto esiste una mia esperienza che include l'esperire gli altri che non sono io, ma che di nuovo a partire dagli altri esperiti pone un me come soggetto esperiente da essi oggettivato. In altre parole l'altrui esperire e il mio esperire sono tra loro sempre e indissolubilmente collegati, non può esservi un altro esperire o un mio esperire in sé isolabili se non con un atto che li vuole man-tenere separati, come non può esservi un altro soggetto o un io soggetto presi in sé, perché è proprio l'io che pone gli altri nel suo esperire che parte da sé e al contempo sono gli altri a porre l'io determinando quel nucleo di esperienze che lo costituiscono come mia essenza. Tra l'altrui esperire e il mio esperire vi è quindi qualcosa di fondamentalmente identico e condiviso e qualcosa di diverso che fa apparire distinguibili (e dunque riconoscibili) l'io dall'altro e scinde inizialmente in due l'unità di una comune essenza determinando l'apparizione di oggetto-soggetto distinguibili da cui l'oggetto continua a moltiplicarsi in una pluralità che rimanda nel suo senso sempre allo stesso soggetto originariamente unico (possiamo rifarci forse alla fenomenologia del'io trascendentale di Husserl in ripresa rivista e corretta del "Cogito ergo sum" cartesiano), mentre ogni elemento di questa pluralità assume il carattere riflesso di possibile altro soggetto.
E' a partire da questo fondo comune dell'esperienza che la grande messa in scena dell'interpretazione scientifica del mondo cerca i fondamenti della realtà ed evidentemente vuole queste fondamenta stabili , non solo fenomeniche, ma garantite da una ratio quantitativa costantemente misurabile nel modo più accurato possibile, di modo che, una volta che si seguano determinati procedimenti standard operativi, sia sempre possibile ottenere gli stessi risultati, ma non perché la stabilità è il prodotto di quei procedimenti, ma perché la stabilità è il presupposto prefissato reale che quei procedimenti fanno emergere. Ed è qui che a mio avviso è richiesta la fede, quella fede nell'episteme della costanza del mutamento dei fenomeni (preceduta dalla fede nella stessa mutabilità dei fenomeni) a cui fai riferimento citando Hume: la fede indubitabile di una inalterabilità di norme del divenire che si traduce nelle leggi scientifiche che non possono apparire però come il risultato di un volere, ma come inderogabile necessità insita nella stessa realtà.
In tal senso il lavoro dello scienziato assomiglia a quello di un intagliatore di perle che tagliando via le scaglie impure mette a nudo la perla minima dell'essenza, il fondo oggettivo (presunto in sé) di quel fondo condiviso per noi e scarta le scorie usando come lama affilatissima i protocolli standard di verifica basati sui procedimenti statistici che definiscono matematicamente e con la massima precisione possibile la probabilità di errore e di anomalia tollerabile.
Laddove questa massima precisione possibile non è raggiungibile attraverso rapporti quantificati si procede al taglio della scoria, ossia di quel mondo interiore che, pur essendo condivisibile (a meno di non essere autistici) e sicuramente reale in quanto fenomenicamente esperito, non è dicibile a mezzo di rapporti quantificabili che esprimono l'essere per il numero, l'ente Essere numerico che vuole esaurire in sé ogni significato dell'Essere Tutto. Queste scorie possono venire semplicemente gettate, oppure conservate a parte in attesa di isolare pure in esse l' essenza numerica che né potrà dare corretta definizione come rapporto di misure riconducendole alla realtà sempre controllabile della ratio numerica (tutto dunque prima o poi si riduce alla fisica, alla misurabilità della materia-energia).
In questo contesto operativo atto a costruire una rappresentazione che si vuole indiscutibilmente universale è evidente che il principio di fede sulla costanza formale che consente la misura come certezza sicura non può mai venire a mancare, ma sappiamo anche che a un certo punto molto avanzato dell'intaglio, proprio questa certezza di fede si è trovata minacciata in virtù della profondità dell'intaglio stesso (mi riferisco al principio di indeterminazione che riguarda proprio ed essenzialmente i processi di misura, dunque l'essenza della materia energia e fa tornare per forza di cose in ballo quella soggettività che si voleva tenere fuori dalla porta, proprio nel cuore più intimo della fisica). Forse oggi non riusciamo appieno a capire quanto debba essere stato sconcertante lo shock per il mondo della fisica, non per nulla Einstein dedicò buona parte della sua vita per cercare di rimettere insieme la tenuta oggettiva perfettamente misurabile del mondo senza riuscirci.
Il cigno nero rischiava di entrare nel cuore originario dell'intera scienza ormai occupata da tempo a codificare solo i cigni bianchi. Sarebbe interessante vedere filosoficamente come questa minaccia fu affrontata e in diversi modi risolta, ma per questo, per capire come la probabilità statistica sia divenuta da strumento di oltrepassamento epistemico di ogni limite essenza stessa, ontologica della realtà fisica che ha mantenuto la sua pretesa esaustiva di ogni significato certo dell' esistere occorrerebbe ben altro spazio. Quindi per ora qui mi fermo, grato della pazienza di chi mi ha fin qui letto.
Un saluto
maral is offline  
Vecchio 23-02-2013, 18.49.28   #88
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Aggressor:
la scienza attuale spesso considera effettivamente che qualcosa come la forza di gravità ed altre leggi che sono state viste come necessarie e "incorruttibilibi" in realtà facciano parte della sfera del contingente. Cioè, sopratutto si mette in discussione la necessità del valore dei rapporti delle quattro forze fondamentali (quella nucleare forte, debole ecc.), ma per rimediare a questo aspetto del nostro universo (cioè il fatto che non si trova una motivazione per cui dovrebbe essere così e non altrimenti), si ipotizza che in altri universi "paralleli" tutto ciò che nel nostro si è rivelato in un certo modo si realizzi negli altri possibili.


Sgiombo:

Una motivazione necessita ciò che è fatto da un agente cosciente, che si pone dei fini (il peresguimento dei quali è per l’ appunto la motivazione dei mezzi impiegati nelle circostanze date), e magari é dotato di libero arbitrio.

Cercare una motivazione di ciò che “semplicemente è” senza essere stato fatto da nessuno non ha senso.
Che molti ricercatori di professione, anche validissimi nel loro specifico, angustissimo campo iperspecialstico, si pongano irrazionalistissimamente questo pseudoproblema e gli diano l’ irrazionalistissima, assurda, soluzione antiscientifica, “metafisica (cosiddetta, impropriamente) in senso deteriore" del cosiddetto “multiverso” o “pluralità di universi paralleli” mi conferma la straordinaria perspicacia del mio amatissimo Friederich (…ma cosa avete capito??? Si tratta di Engels, non di quell’ altro suo omonimo, connazionale e quasi perfettamente contemporaneo, che mi è invece odiosissimo!!!) allorché affermava testualmente:

“Gli scienziati credono di liberarsi della filosofia ignorandola o insultandola. Ma poiché senza pensiero non vanno avanti e per pensare hanno bisogno di determinazioni di pensiero, essi accolgono queste categorie, senza accorgersene, dal senso comune delle cosiddette persone colte, dominato dai residui di una filosofia da gran tempo tramontata, o da quel poco di filosofia che hanno ascoltato obbligatoriamente all’ università (che è, non solo frammentaria, ma un miscuglio delle concezioni delle persone appartenenti alle più diverse, e spesso peggiori, scuole), o dalla lettura acritica e asistematica di scritti filosofici di ogni specie.
Pertanto essi non sono affatto meno schiavi della filosofia, ma lo sono il più delle volte, purtroppo, della peggiore. Quelli poi che la insultano di più sono schiavi proprio dei peggiori residui volgarizzati della peggiore filosofia…” (Dalla Dialetica della natura, circa 1883).



Aggressor:
Questo tipo di argomento (almeno molto simile) era utilizzato anche da alcuni atomisti per dimostrare che l'apparente contingenza delle modalità del mondo (considerata dai più qualcosa di così "favorevole" da poter essere ascritto solo ad una mente intelligente) fosse semplicemente una necessità scaturita dalla "potenza" dell'infinito; nel senso che esistendo infiniti mondi, uno tra questi doveva presentarsi come il nostro.


Questo mondo potrebbe essere quello in cui certe costanti non sono mai cambiate e non cambieranno mai, non perché le cose devono essere così, ma perché il caso ha voluto che noi ci trovassimo in un simile universo possibile.



Io sono scettico riguardo queste posizioni. Se le cose potessero andare diversamente, ci sarebbero troppe probabilità che la prossima volta che lancio una mela quella inizi a viaggiare verso la troposfera per non assistere davvero ad una scena del genere. Cioè volendo calcolare la probabilità che le cose possano essere così, troveremmo che il risultato di una simile operazione tenderebbe ad un numero che suonerebbe nullo. Questo non dimostra a livello di verità assoluta che le leggi non possono mutare, ma può darci lo spunto per delle riflessioni logiche che ci permettano di escludere definitivamente questa possibilità. Anche se nella storia dell'uomo qualcosa del genere non è mai stato pensato, c'è più probabilità che una siffatta teoria venga scoperta che io mi decomponga tra qualche minuto su questa sedia perché la natura ha cambiato casualmente le sue costanti.[/quote]

Sgiombo:
Parlare di probabilità a proposito di un fatto unico, come l’ esistenza dell’ intero universo naturale materiale, è semplicemente senza senso: la probabilità non é che la frequenza media con cui determinati eventi reciprocamente alternativi accadono in seguito a determinati altri eventi in serie sufficientemente numerosi di casi.
Che le leggi del divenire siano realmente “vigenti” non può essere dimostrato.
Se esse mutassero i casi sarebbero due: o si tratterebbe di mutamento interamente caotico, disordinato, nel quale nulla di fisso sarebbe astraibile (e allora per definizione non sarebbe possibile alcuna conoscenza scientifica ma solo la conoscenza di fatti particolari concreti); oppure le leggi di natura muterebbero secondo “metaleggi” del loro mutamento (e allora la conoscenza scientifica sarebbe possibile, ma l’ osservazione humeiana dell’ indimostrabilità si riproporrebbe pari pari per tali “metaleggi”.

Un cordialissimo saluto!
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Vecchio 23-02-2013, 19.50.04   #89
sgiombo
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@ Maral

Sono d’ accordo, se ben ti capisco (ma ho qualche dubbio) sull’ esistenza indimostrabile di più esperienze fenomeniche coscienti reciprocamente “incluse” per così dire le une nelle altre. Nel senso che se per esempio nella “mia” esperienza fenomenica cosciente compari tu (il tuo corpo e in particolare il tuo cervello) che mi parli e mi illustri i contenuti dalla “tua” coscienza credo che tali contenuti -e dunque l’ esperienza cosciente “tua”- esistono realmente e viceversa.
Credo però che non solo le sensazioni fenomeniche materiali non sono “cose in sé” esistenti anche allorché non accadono (allorchè non percepiamo sensazioni materiali), secondo il berkeleiano “esse est percipi”, e se qualcosa è reale come cosa in sé anche allorché esse non accadono (e spiega la relativa costanza del loro accadere in determinate circostanze; anch’ esse sempre fenomeniche), allora si tratta di qualcosa di diverso da esse, non si tratta di sensazioni fenomeniche coscienti (pena la caduta in un patetente contraddizione); ma che ciò valga anche per le sensazioni interiori o mentali: anche per esse vale l’ “esse est percipi” e se esiste un “io” come soggetto di esse, allora "costui" deve essere una cosa in sé diversa dai “miei pensieri” fenomenici coscienti.
E credo che anche l’ esistenza di queste entità o eventualità “noumeniche”, per dirla grossolanamente a la Kant (soggetti ed oggetti delle esperienze fenomeniche coscienti; che nel caso delle loro componenti interiori o mentali si identificano: quando penso percepisco me stesso, la mia attività mentale), non può essere dimostrata in alcun modo ma solo creduta infondatamente, arbitrariamente, “per fede”.


Sulla non-misurabilità del mentale penso che essa sia insuperabile.
Non capisco se usi il termine “scoria” a proposito di essa in senso neutro o dispregiativo, né se lo assumi da parte tua o lo attribuisci unicamente alla pratica scientifica dissentendo da parte tua, o all’ “ideologia dello scientismo” (probabilmente non accetterai o non ti piacerà questa terminologia, ma credo che per lo meno dia l’ idea di ciò che intendo).
Per quel che mi riguarda condivido in pieno l’ affermazione che “quel mondo interiore” é “condivisibile (a meno di non essere autistici) e sicuramente reale in quanto fenomenicamente esperito”; è certamente altrettanto reale (per l' appunto in quanto fenomenicamente esperito) del mondo materiale o esteriore, né più né meno: intersoggettivo =/= non-reale o meramente apparente!


Sul principio di indeterminazione di Heisenberg rilevo innanzitutto che recentemente si sono levate voci assai critiche verso l’ interpretazione “di Copenhagen” (a lungo pressocchè unanime: una sorta di “pensiero unico scientificamente corretto”; tuttora comunque maggioritaria fra gli scienziati) da parte di validissimi ricercatori “militanti” (e filosoficamete ferrati; id est: razionalisti: fra gi altri l’ ottimo Jean Bricmont), che tendono a rimetterla in discussione e a superarla in senso deterministico.
Ma in ogni caso la possibilità della conoscenza scientifica (vera) implica come conditio sine qua non il divenire ordinato o relativo o parziale della natura materiale (che può declinarsi in senso “forte” come meccanicismo “laplaciano” o anche in senso “debole” come probabilismo; e che è in ogni caso indimostrabile).
Come ho scritto in altri interventi nel forum, l’ indeterminismo quantistico (che implica l’ universalità e costanza e consente la calcolabilità non dei singoli eventi ma comunque delle proporzioni fra eventi reciprocamente alternativi in serie sufficientemente numerose di casi) può essere considerato tanto un determinismo debole quanto in casualismo (o indeterminsmo) debole, in opposizione rispettivamente al determinismo “forte” meccanicistico laplaciano e all’ indeterminismo “forte” costituito dall’ incostanza e imprevedibilità di alcunché (nemmeno delle proporzioni fra eventi reciprocamente alternativi in serie numerose di casi) a seconda delle soggettive preferenze di ciascuno, esattamente come il bicchiere mezzo pieno per gli ottimisti e mezzo vuoto per i pessimisti.
E comunque, malgrado le pretese di “quelli di Copenhagen”, l’ indeterminismo quantistico non (re-?) introduce alcuna “soggettività” in fisica: le proporzioni fra gli eventi alternativi che prevede sono ben fisse e determinate, e i casi singoli (imprevedibili in quanto tali) non accadono affatto secondo le arbitrarie preferenze soggettive degli sperimentatori, bensì accadono oggettivamente in modo imprevedibile di per sé (ma prevedibile nelle proporzioni fra casi alternativi in serie numerose di essi).

Ricambio cordialmente il saluto.
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Vecchio 24-02-2013, 01.21.21   #90
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@sgiombo

si fin'ora tutto bene, non hai aggiunto ancora nulla di nuovo.
(interessante è come farai a introdurre spinoza, per il quale se non sbaglio la natura è numero ideale.)

purtroppo con gli altri il problema che affronteremmo è sempre quello base: cioè essi credono che esista un modello, un idea, un "qualcosa" che gli permetta di rilevare una scienza "vera", la cui verità inferenziale è però per l'appunto solo giudizio strumentale.
non si accorgono (e di questo mi dispiace) di far coincidere un giudizio personale ad uno strumentale, ribadendo la sfiducia (che provo) in questo tipo di weltanschauung al contrario che è la fenomenologia contemporanea.

critiche? finora nessuna.
al massimo ti posso ricordare la considerazione di Severino, il problema della filosofia da kant in poi (hume compreso immagino) è che si è sempre ammesso una realtà esterna data (e quindi non percepita).
di modo che le critiche non sono mai sulla visione generale ma appunto su quella del percepito (cosa immagino farai anche tu in futuro).

voglio aiutare mauro e vedere cosa ne pensi tu. (con il loro 3d sono fermo a quando entra maral....mi chiedo chi possa entrare ancora in questo 3d iperdenso!).
(ma mi interessa più andare avanti m raccomando!)

questa relazioni di grandezza del percepito come tu hai ammesso hanno delle costanti, ritieni possa esistere una astrazione umana (un giudizio come diresti tu con hume) che abbia in sè la forza della verità storica?
ovvero se io potessi idealmente andare all'infinito potrei assumere una potenza di verità? una verità insita nella stessa inferenzialità cioè.
ovvero come direbbe peirce un processo che vige come legge di tutti i processi e che per come dire attinge ad una perfettibilità ad infinitum.
penso si riferisca a questo tipo di astrazione il buon mauro.
d'altronde la scienza non è forse questo strumento di decidibilità la cui evidenza sta proprio in quel tipo di astrazione/giudizio?


per quel che mi riguarda però è ancora assai salutare vederla sui due piani come farebbe Hume, di modo che la natura strumentale e formale di quelle costanti sia sempre evidente a tutti (cosa che non è, e che crea scientismo, appunto un atteggiamento di ostentata sicurezza nel vero e di incapacità critica del giudizio (in generale su cosa sia l'uomo) come conseguenza).

saluti e sollevaci di peso in avanti Giulio!

quale sarà la relazione tra giudizio e fenomeno percepito?

e sopratutto che relazione c'è per Hume tra atto ed evento?
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