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Filosofia - Forum filosofico sulla ricerca del senso dell’essere.
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Vecchio 27-02-2013, 07.35.19   #1
QantonioQ
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Essere filosofi

Essere filosofi vuol dire essere come Talete nel dialogo Teeteto. Di questo esempio platonico si è colto il lato divertente della storiella (la caduta di Talete, il riso della serva tracia), invece bisogna proseguire nella lettura. Allora veniamo a sapere che il filosofo è estraneo alla città, vi sta solo col corpo e non con l'anima, non segue l'attualità e ciò che per i suoi contemporanei è importante non lo è per lui. Egli sta lontano dai luoghi della cosiddetta democrazia, cioè della politica. Egli si impegna in politica solo in momenti ecceziaonali (vedi i viaggi di Platone a Siracusa).
Insomma è necessario un distacco dal presente e un porre mente a ciò che è degno d'essere pensato.
Cosa ne pensate, forumisti filosofi? Sono cambiate le cose per la filosofia dai tempi di Talete e Paltone?
Un buon giorno a tutti e un saluto
QantonioQ is offline  
Vecchio 27-02-2013, 21.42.05   #2
0xdeadbeef
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Riferimento: Essere filosofi

@ QantonioQ
Nella "Repubblica" di Platone, abbiamo la scena di Socrate che "scende" al Pireo. Cosa significa?
Il porto è il luogo del commercio, degli scambi, quindi il luogo dell'interesse particolare. Nell'opera di
Platone l'atto di "scendere" è sia reale che metaforico. L'Acropoli è posta in alto, ed è il luogo della
filosofia (o della politica "alta", avrebbero detto una volta), mentre il Pireo è in basso, ed è appunto il
luogo che dicevo.
Oggi, che la politica "alta" non esiste più (ahimè), potremmo immaginare la attuale politica come una attività
che si svolge nel porto; ma una attività necessaria come necessario era considerato l'interesse particolare
nell'opera di Platone.
Quindi in politica si "scende" (non si "sale", come qualcuno ha detto ultimamente), e questa discesa è appunto
necessaria, cioè non eludibile. Certi "epicureismi" mi sembrano davvero fuori luogo, e forse soprattutto sono
per filosofi che, come Epicuro, godono di una certa tranquillità economica...
Io credo che distaccarsi dal presente non sia possibile, e penso che degnissima di riflessione filosofica sia
la condizione reale delle tante persone che non riescono ad arrivare alla fine del mese (oltre che, naturalmente,
delle persone che nel mondo muoiono di fame o a causa delle guerre).
Levinas, un filosofo che personalmente reputo grandissimo, ci ha insegnato che il rispecchiarsi nel volto
dell'"altro" rappresenta uno dei punti più alti che la filosofia può raggiungere.
E non parlo della sola prassi, come sarebbe facile immaginare, ma di una vera e propria teoresi.
un saluto
0xdeadbeef is offline  
Vecchio 01-03-2013, 08.49.24   #3
QantonioQ
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Riferimento: Essere filosofi

Citazione:
Originalmente inviato da 0xdeadbeef
@ QantonioQ
Nella "Repubblica" di Platone, abbiamo la scena di Socrate che "scende" al Pireo. Cosa significa?
Il porto è il luogo del commercio, degli scambi, quindi il luogo dell'interesse particolare. Nell'opera di
Platone l'atto di "scendere" è sia reale che metaforico. L'Acropoli è posta in alto, ed è il luogo della
filosofia (o della politica "alta", avrebbero detto una volta), mentre il Pireo è in basso, ed è appunto il
luogo che dicevo.
Oggi, che la politica "alta" non esiste più (ahimè), potremmo immaginare la attuale politica come una attività
che si svolge nel porto; ma una attività necessaria come necessario era considerato l'interesse particolare
nell'opera di Platone.
Quindi in politica si "scende" (non si "sale", come qualcuno ha detto ultimamente), e questa discesa è appunto
necessaria, cioè non eludibile. Certi "epicureismi" mi sembrano davvero fuori luogo, e forse soprattutto sono
per filosofi che, come Epicuro, godono di una certa tranquillità economica...
Io credo che distaccarsi dal presente non sia possibile, e penso che degnissima di riflessione filosofica sia
la condizione reale delle tante persone che non riescono ad arrivare alla fine del mese (oltre che, naturalmente,
delle persone che nel mondo muoiono di fame o a causa delle guerre).
Levinas, un filosofo che personalmente reputo grandissimo, ci ha insegnato che il rispecchiarsi nel volto
dell'"altro" rappresenta uno dei punti più alti che la filosofia può raggiungere.
E non parlo della sola prassi, come sarebbe facile immaginare, ma di una vera e propria teoresi.
un saluto
Con Socrate ha inizio la dialettica. Socrate "scende" al Pireo e la filosofia si abbassa ad essere dialettica. Ma la filosofia al massimo è dialogo di maestro e discente, è sinousia (amicizia), non è dialettica. la dialettica è dei sofisti, della retorica sofistica e in Socrate c'èra molto della retorica. Riguardo gli svantaggiati, non è la dialettica ad aiutarli. La parola di Gesù Cristo non è dialettica, è Logos. Oggi la cosa che può aiutarli è la Tecnica nel senso greco, la tecnica della economia e della politica. Secondo me il filosofo non deve scendere, ma solo salire. Ma è una mia opinione. Un saluto e un ringraziamento.
QantonioQ is offline  
Vecchio 01-03-2013, 12.58.51   #4
Aggressor
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Riferimento: Essere filosofi

Secondo me il discorso è ambiguo per la sua astrattezza. Cioè è facile dire che si deve solo salire o che non ci si deve occupare di certe questioni troppo pragmatiche, poi vivendo ci si accorge di come le cose più basse e concrete siano impregnate dell'essenza di quelle più alte. L'unico errore sencondo me è credere che gli ambiti siano davvero separati; anche la teconogia o la tecnica avanzano meglio se c'è relazione con la fase teoretica e la riflessione esistenziale. E il vantaggio può pure non manifestarsi in modo "diretto", eppure essere tale.

Anche tra dialettica, amicizia, retorica, logica e intuzione c'è ambiguità e intersezione.

Inoltre Platone ha cercato sempre di non rimanere "tra le nuvole", la stessa teoria delle idee è sviluppata per risoluzioni di problemi pratici e politici. L'allontanamento di Platone dalla politica è stato causato dalla storia di Atene, dagli eventi di Socrate e i suoi rapporti coi trenta tiranni e la democrazia. Egli ha semplicemente tentato di sviluppare una buona teoria politica nel momento in cui la pratica politica gli era in qualche modo preclusa (dalle sue idee in mutazione e dagli eventi).
Aggressor is offline  
Vecchio 01-03-2013, 14.02.33   #5
0xdeadbeef
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Riferimento: Essere filosofi

@ QantonioQ
A mio avviso invece il filosofo deve sia saper "salire" che "scendere".
Nel meraviglioso romanzo di Camus, "La peste", il protagonista (il dott.Rieux) è interrogato sul "senso" della
morte di un bambino, del quale è al capezzale. La sua risposta trovo sia di inaudita profondità: "io non lo
so, ma adesso sbrighiamoci (ad andare ad assistere altri malati)".
In questa risposta, trovo, c'è tutto Kant. C'è la risposta cui egli perviene nella Critica della Ragion Pura
(la sola cosa che posso sapere è di non sapere), e c'è la risposta che ci viene dalla Critica della Ragion
Pratica (l'imperativo categorico della morale).
A mio parere, è necessario "salire" fin nelle più alte vette del pensiero prima di comprendere a fondo che
un ulteriore "salita" è possibile solo con una "discesa".
Tutto ciò senza considerare la grande visione filosofica di Levinas, o del pensiero ebraico novecentesco in
genere. L'unico che, a mio avviso, abbia saputo davvero dire qualcosa in un'epoca contemporanea contrassegnata
dallo spartiacque rappresentato da Nietzsche.
Non vedo, comunque, come la Tecnica possa aiutare gli svantaggiati.
un saluto
0xdeadbeef is offline  
Vecchio 02-03-2013, 18.30.37   #6
QantonioQ
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Riferimento: Essere filosofi

@ 0xdeadbeef
Se con Tèchne intendiamo (faccio un esempio) il saper passare dal progetto dell'armadio alla sua realizzazione, dal niente all'ente - e con Aristotele: dal divenire, essere in potenza all'atto - se la Tèchne è questo passaggio e questo Disvelamento, essa possiamo pensarla come una modalità risolutiva di problemi. Certo al mendicante devo portare aiuto anche con l'elemosina e la mia compassione (è nel nostro DNA ormai il principio solidale proprio del cristianesimo), ma non basta, posso infatti portarglielo tecnicamente mettendo in atto tecniche terapeutiche e riabilitative socialmente. Ecco, in questo senso parlo di tecnica.
E' chiaro che questi sono pensieri filosofici. Dunque anche rimanendo in alto la filosofia condiziona il sociale. E' giusto dire che la filosofia sale e scende - restando però filosofia.
QantonioQ is offline  
Vecchio 03-03-2013, 00.40.43   #7
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Riferimento: Essere filosofi

@ QantonioQ
Ma cos'altro è la Tecnica se non uno strumento; uno strumento atto a dirigere efficacemente una attività
qualsiasi? E come può la Tecnica aiutare gli svantaggiati se non pre-supponiamo questa attività qualsiasi
come una attività volta, appunto, ad aiutarli?
Vedi forse, nella contemporaneità, che questo presupposto coincide con quello da me descritto? Io vedo piuttosto
un presupposto dato ideologicamente: l'utile individuale. Ed a esso vedo rivolta la Tecnica, come strumento
atto a dirigere efficacemente, cioè razionalmente, l'umana attività. Ma è una efficacia, una razionalità,
appunto volta a-prioristicamente a quel fine.
Io mi chiedo se davvero si voglia aiutare gli svantaggiati, e ne dubito. Una società così competitiva, e
nella quale il "merito" si misura ormai solo in base alla capacità di accumulare potere e ricchezza, non può
non considerare gli svantaggiati che come coloro che de-meritano; e quindi come coloro che, tutto sommato,
meritano la posizione che occupano nella "scala sociale".
In una società che ha ormai completamente perso il criterio dell'eguaglianza (anche i cristiani, a mio avviso,
vi hanno gravissime colpe), non resta appunto che l'elemosina; quella specie di schizzinosa compassione che
il ricco ha nei confronti del povero: spesso null'altro che un tozzo di pane gettato affinchè il povero resti
lontano dal mondo di coloro che "meritano".
un saluto
0xdeadbeef is offline  
Vecchio 04-03-2013, 00.10.41   #8
gyta
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Riferimento: Essere filosofi

Penso che la differenza fra la filosofia e la filosofia realizzativa,
fra la filosofia che s’interroga sull’essere e la filosofia che si occupa di realizzarlo,
fra il filosofo ed il mistico, fra la filosofia dell’essere e la spiritualità
consti proprio nel grado in cui il conoscere diventa conosciuto,
il conosciuto si scopre, si riscopre e si sorprende come colui che conosce,
il conosciuto e colui che conosce non sono più realtà separate precedentemente dallo specchio,
e quell’armonia che le rivela l’una all’altra medesime
viene a compiersi proprio attraverso quell’atto del conoscere
che spezzando il vincolo del limite rende possibile l’incontro,
essere-in, essere con, conoscere. Un atteggiamento, un percorso
che mai abbandona la sacralità di quel vincolo d’amore, conoscere.
Sacralità che è rispetto autentico e riverenziale verso quel cuore
che è la ricerca della nostra identità più profonda.
Un’analisi capace di distinguere attraverso la luce creativa dell’indagine,
che si immerge nel portare luce, impossibilitata a restare fuori da quell’immersione.
Un’immersione che trasforma lo studioso in amante, l’alchimista nella stessa pietra filosofale.
Non c’è più un essere fuori del quale si discute ma quella discussione diventa il nostro stesso sangue
che ci restituisce al nostro sentire più profondo, alla nostra identità.
Un’identità che è intimità di conoscenza, atto di amore, non di timore né di separazione.
Il Padre si fa carne, il pensiero attraverso la luce della conoscenza diventa sentimento attivo, diventa volontà, desiderio realizzato.
Non c’è più un pensatore ed un pensato, non un filosofo ed una filosofia ma una semplice naturale visione si svela
lasciando cadere il velo separativo dei ruoli che la mente austera aveva cristallizzato.
L’uomo scopre l’essere e la semplicità illuminata allontana ogni dissacrazione apparente.
Quando la luce della conoscenza entra nel cuore dell’indagine filosofica il filosofo diviene colui che presiede
come sacrificio al rito della consacrazione. E l’unione svelata non è confusione ma il risaltare reso possibile
dal fugare delle ombre. Ciò che è sacro può essere privo di poesia? Ciò che è inviolabile può essere violato?
Posti alla luce possiamo restare nell’ombra? Come allora può il filosofo conoscere l’essere
senza sacrificare la sua posizione del restare al di qua dei ruoli? Così la mente umana alla ricerca di sé nell’atto
di conoscere deve entrare ed entrando perderà –dovrà sacrificare- le certezze dei suoi confini, quelle maschere
che hanno profanato la sacralità essenza inderogabile della ricerca (suprema).
Al filosofo non solo necessita la discesa come confronto
ma lo spogliarsi di quel limiti che lo separano dalla piena coscienza del suo essere-con.
Allora non avremo più la figura ruolo del filosofo né quella del mistico, del padre spirituale, illuminato
ma la più semplice saggezza ad illuminare il cuore mente dell’uomo (intero).
gyta is offline  
Vecchio 06-03-2013, 06.55.39   #9
gyta
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Riferimento: Essere filosofi

Forse questa mia riflessione può servirci da spunto autocritico,
quando non solo discutiamo come qui sulla funzione del filosofo
ma ne vestiamo di fatto i panni,
come lo è stato per me meditarci ieri sera.

Ieri sera riflettendo sui miei ultimi interventi (pur con tutto l’impegno messo nello scriverli)
mi riferisco alla discussione i giganti e quella sul bene e male
ma più in generale al modo in cui ci si accosta a queste tematiche, alla tematica dell’Essere.. mi sono sentita male.

Mi sembrava di essere come al banco dei formaggi al valutarne consistenza e peso..
come a sezionare il cadavere di una formica morta o di un animale sconosciuto,
osservare ognuno a spostarne i pezzi come a tentare di ricomporne i nervi recisi..
Lo so è una critica pesante ma davvero mi sono sentita male.
Pur con l’ipotetica buona volontà mi sono sentita vestita in panni orribili
inforcare il bisturi e fare a pezzi anch’io qualcosa di così delicato, non “l’Essere”
ma noi, la nostra risorsa capace di aprirsi ad un esperienza che non è autopsia..
Svuotata dentro mi chiedevo come è possibile parlare dell’Essere come di un qualcosa
asettico e distante, da valutare, soppesare? Era questa la strada per trovarlo, per indicarlo?
Come potevamo restare indifferenti mentre parlavamo di noi come se fossimo nulla,
cause ed effetti, respiri apnee? Non ci si attorcigliava dentro l’intestino?

Possibile che la comunicazione uccidesse il cuore stesso di ciò che andava comunicando?
Si può perseguire la Sacralità (senza bigottismi) e la Chiarezza congiunte nella Comunicazione
che sia anche comunicazione, argomentazione? Perché questa severità, quest’austerità priva di sapore?
Se persino a leggere la ricetta di una torta alla vaniglia uno pregusta il sapore. E qui? Mentre parlavamo
del Mistero Supremo? Che forse abbiamo paura a scoprirci nella nudità dei sentimenti più veri?
Paura di scoprire che stiamo parlando di qualcosa che ancor più di Dio terrorizza?
Perché quando siamo qua a sezionare il senso, non sono le nostre emozioni più importanti ad essere sezionate?
E la Realtà, quell’Assoluto di cui stiamo parlando, non è del senso più profondo che stiamo parlando?
Non è di noi, della nostra capacità di amare, di conoscere, della nostra stessa identità che ci domandiamo?

Essere, Dio, Conoscere, nomi diversi ad indicare lo stesso senso, lo stesso sentimento, la stessa nostra realtà.
Non c’è una realtà “fuori”. Simuliamo nel parlare di un “fuori” sperando che ciò che abbiamo dentro
possa emergere con un atto di forza. Ma non è così. Per forza nulla emerge. Per forza si seziona.

Per forza l’Essere diventa una cosa. Noi diventiamo una cosa. Tante cose che cosano insieme.
La filosofia è questa? Parole asettiche come coltelli affilati su di una preda scelta?
Non sono più entrata in una chiesa cattolica da decenni, mi sentivo male,
sentivo il sacrilegio di una comunicazione morta, rituali privati di sacralità, di enfasi, di Mistero,
di Umanità, di luce chiara, di chiarezza, trasparenza. Nelle funzioni buddiste non è andata meglio.
Trovo più senso del mistero e del sacro, del sacro rispetto amorevole in libri che trattano
di funzioni e limiti..

“ la musica è il sogno, la matematica è la vita reale,
e l’una e l’altra si completeranno a vicenda
quando l’intelligenza umana, giunta alla sua perfezione,
risplenderà glorificata in qualche futuro Beethoven-Gauss ”

Citazione:

Non potremmo rappresentarci la musica come matematica dei sensi e la matematica come la musica della ragione? Il musicista sente la musica, il matematico pensa la musica; la musica è il sogno, la matematica è la vita reale, e l’una e l’altra si completeranno a vicenda quando l’intelligenza umana, giunta alla sua perfezione, risplenderà glorificata in qualche futuro Mozart-Dirichlet o Beethoven-Gauss, unione che intravediamo già chiaramente nel genio e nei lavori di un Helmholtz.

La matematica non è un libro imprigionato nella copertina e chiuso con fermagli di bronzo che abbia bisogno, per essere sfogliato, soltanto di un po’ di pazienza; non è una miniera i cui tesori possono richiedere magari molto tempo per essere strappati alla terra, ma che riempiono un numero limitato di vene e di filoni; non è un suolo la cui fertilità può esaurirsi con il susseguirsi dei raccolti; non è un continente né un oceano la cui superficie può essere disegnata e i contorni delimitati; la matematica è senza confini, come lo spazio, che essa trova troppo troppo stretto per le sue aspirazioni; le sue possibilità sono infinite come i mondi che senza posa crescono e si moltiplicano sotto gli occhi dell’astronomo; non si potrebbe costringerla entro limiti precisi o ridurla a qualche definizione che fosse valida per sempre; essa è come la vita che sembra sonnecchiare in ogni monade, in ogni atomo della materia, in ogni foglia, in ogni germoglio e in ogni cellula e che è sempre pronta a sbocciare sotto nuove forme di esistenza animale e vegetale.

(citazioni di J.J. Sylvester)


E proprio necessario e funzionale a chi cammina nel percorso di ricerca filosofico
tenere quella finta, asettica mortale distanza dalla sua creatura linguistica,
ovvero il cuore di ciò di cui realmente sta parlando?

.
gyta is offline  
Vecchio 06-03-2013, 08.34.32   #10
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Riferimento: Essere filosofi

Citazione:
Originalmente inviato da gyta
Forse questa mia riflessione può servirci da spunto autocritico,
quando non solo discutiamo come qui sulla funzione del filosofo
ma ne vestiamo di fatto i panni,
come lo è stato per me meditarci ieri sera.

Ieri sera riflettendo sui miei ultimi interventi (pur con tutto l’impegno messo nello scriverli)
mi riferisco alla discussione i giganti e quella sul bene e male
ma più in generale al modo in cui ci si accosta a queste tematiche, alla tematica dell’Essere.. mi sono sentita male.

Mi sembrava di essere come al banco dei formaggi al valutarne consistenza e peso..
come a sezionare il cadavere di una formica morta o di un animale sconosciuto,
osservare ognuno a spostarne i pezzi come a tentare di ricomporne i nervi recisi..
Lo so è una critica pesante ma davvero mi sono sentita male.
Pur con l’ipotetica buona volontà mi sono sentita vestita in panni orribili
inforcare il bisturi e fare a pezzi anch’io qualcosa di così delicato, non “l’Essere”
ma noi, la nostra risorsa capace di aprirsi ad un esperienza che non è autopsia..
Svuotata dentro mi chiedevo come è possibile parlare dell’Essere come di un qualcosa
asettico e distante, da valutare, soppesare? Era questa la strada per trovarlo, per indicarlo?
Come potevamo restare indifferenti mentre parlavamo di noi come se fossimo nulla,
cause ed effetti, respiri apnee? Non ci si attorcigliava dentro l’intestino?

Possibile che la comunicazione uccidesse il cuore stesso di ciò che andava comunicando?
Si può perseguire la Sacralità (senza bigottismi) e la Chiarezza congiunte nella Comunicazione
che sia anche comunicazione, argomentazione? Perché questa severità, quest’austerità priva di sapore?
Se persino a leggere la ricetta di una torta alla vaniglia uno pregusta il sapore. E qui? Mentre parlavamo
del Mistero Supremo? Che forse abbiamo paura a scoprirci nella nudità dei sentimenti più veri?
Paura di scoprire che stiamo parlando di qualcosa che ancor più di Dio terrorizza?
Perché quando siamo qua a sezionare il senso, non sono le nostre emozioni più importanti ad essere sezionate?
E la Realtà, quell’Assoluto di cui stiamo parlando, non è del senso più profondo che stiamo parlando?
Non è di noi, della nostra capacità di amare, di conoscere, della nostra stessa identità che ci domandiamo?

Essere, Dio, Conoscere, nomi diversi ad indicare lo stesso senso, lo stesso sentimento, la stessa nostra realtà.
Non c’è una realtà “fuori”. Simuliamo nel parlare di un “fuori” sperando che ciò che abbiamo dentro
possa emergere con un atto di forza. Ma non è così. Per forza nulla emerge. Per forza si seziona.

Per forza l’Essere diventa una cosa. Noi diventiamo una cosa. Tante cose che cosano insieme.
La filosofia è questa? Parole asettiche come coltelli affilati su di una preda scelta?
Non sono più entrata in una chiesa cattolica da decenni, mi sentivo male,
sentivo il sacrilegio di una comunicazione morta, rituali privati di sacralità, di enfasi, di Mistero,
di Umanità, di luce chiara, di chiarezza, trasparenza. Nelle funzioni buddiste non è andata meglio.
Trovo più senso del mistero e del sacro, del sacro rispetto amorevole in libri che trattano
di funzioni e limiti..

“ la musica è il sogno, la matematica è la vita reale,
e l’una e l’altra si completeranno a vicenda
quando l’intelligenza umana, giunta alla sua perfezione,
risplenderà glorificata in qualche futuro Beethoven-Gauss ”




E proprio necessario e funzionale a chi cammina nel percorso di ricerca filosofico
tenere quella finta, asettica mortale distanza dalla sua creatura linguistica,
ovvero il cuore di ciò di cui realmente sta parlando?

.
Questo tuo intervento mi ha colpito. E' scritto con il cuore e merita una risposta. Diceva Poe che è indegno di scrivere chi non tratta per prima cosa di ciò che più sente col cuore. L'asetticismo credo sia un qualcosa di vecchia data in filosofia, che risale a quando Protagora ed i suoi seguaci affermarono che si può discutere di una qualsiasi cosa affermandone indifferentemente la tesi favorevole quanto la tesi opposta. In parole povere direi che il qualunquismo per quanto dotto possa essere, rimane pur sempre qualunquismo. La ricerca della verità non è un esercizio solo intellettuale, è una lotta che fa a pezzi l'anima. L'anima appunto, è questa la questione. Per l'asetticismo l'anima è un'invenzione che l'uomo si è creato per potersi illudere di prolungare la propria esistenza, trascurando fra l'altro che per alcuni stoici, per esempio, l'anima era anch'essa mortale.
L'anima, io penso, è la condizione per poter parlare di volontà, di senso, di morale, di giustizia, di virtù.
Quando stabiliamo che l'anima non esiste, allora possiamo spegnere le luci ed andare tutti a casa. Lo spettacolo che segue non sarà altro che un mero esercizio intellettuale fine a se stesso, una parata di conoscenze culturali che non servono a renderci migliori, servono solo per essere messe in mostra.
La scoperta di una verità è un momento catartico, di purificazione, ma cos'è che si sta purificando se non l'anima?
Trattare gli argomenti alla stregua di un cadavere che viene fatto a pezzi per scoprirne le cause del decesso è un esercizio sterile: dobbiamo morire tutti, quale che sia la causa.
Lo scopo non è scoprire le cause del decesso, lo scopo è scoprire la propria anima, così che si possa accettare la morte, ed accettando la morte si diventa liberi nella vita.
Personalmente la filosofia la divido in due parti: quella che ti rende più forte e quella che ti fa sapere di più.
Siccome il tempo a disposizione è limitato, non ho dubbi su quale scegliere.
Quando dopo un pò mi accorgo che qualcosa è solo interessante ma non serve alla virtù, lo declasso immediatamente nella scala delle mie priorità

Ultima modifica di CVC : 06-03-2013 alle ore 12.34.11.
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