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Vecchio 17-04-2013, 17.31.31   #1
sgiombo
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L' errore (il falso) é il fondamento di ciò che é propriamente umano

Se è vero, come è vero, che “Omnis determinatio est negatio” (Spinoza), allora il sapere è sapere in quanto si distingue dal non-sapere; ovvero in quanto il pensare (che accade) ciò che è reale si distingue dal pensare (che accade) ciò che non è reale.

A fondamento del sapere sta allora la distinzione fra (i concetti de) l’ “essere reale” e l’ “essere pensato” (l’ “essere reale” è ciò di cui si può dire che è e che non può non essere così com’è, che deve essere così com’ é, pena la caduta in contraddizione, nell’ insensatezza di qualsiasi discorso che lo riguardi; l’ “essere pensato” é ciò di cui si può dire che è ed anche che non è, che può essere così com’ è ma anche altrimenti, che non necessariamente è così com’ è, senza cadere in contraddizione, sensatamente; ma casomai potendo cadere nel falso, nell’ errore -in alternativa alla conoscenza vera- se gli si attribuisce -anche, oltre alla caratteristica stessa dell’ essere pensato- la caratteristica dell’ essere reale).

Dunque il sapere, la conoscenza esiste (ha senso) inevitabilmente insieme all’ errore (il vero insieme al falso), il sapere “nasce” inevitabilmente “col contributo determinante” della contemporanea “nascita” dell’ errore, del falso.

Questa distinzione fra reale e pensato é all’ origine delle domande sul “senso” della vita, della propria personale esistenza, della realtà in generale. Infatti solo se si distingue ciò che è reale da ciò che è pensato ci si può chiedere “perché” oltre a constatare “come”; solo a questa condizione si può anche cercare una spiegazione del fatto che pur potendo pensare -anche- la propria inesistenza, accade realmente la propria esistenza, del fatto che pur potendo pensare la realtà in un’ infinità di modi diversi (compreso il “nulla assoluto”), accade che essa è realmente proprio in quest’ unico e solo peculiare modo in cui è (includente -fra l’ altro- la propria esistenza personale).

Se si potesse pensare solo ciò che è reale, che accade realmente, allora:
a) Non si potrebbe cadere nel falso; ma
b) nemmeno avrebbe senso dire che si conosce il vero.
c) Non esisterebbe la possibilità di immaginare la realtà diversa da come è e dunque di cercare spiegazioni, di porsi problemi (e di proporsi scopi).

Questa distinzione tra reale e pensato è anche all’ origine dell’ autocoscienza, dal momento che la consapevolezza di “se stessi”, del proprio essere ha senso in quanto distinta dalla consapevolezza dell’ “altro da se stessi”: sapere semplicemente (che accade) qualcosa (ciò che può essere attribuito anche a molte altre specie di animali) non basta per sapere (che accade) di esistere (ciò che può con ogni verosimiglianza essere attribuito unicamente all' uomo): per sapere di esistere occorre anche saper distinguere fra l’ “altro da sé” e il “sé” fra l’ ipotesi (vera, conforme a realtà) della propria esistenza e l’ ipotesi (falsa) della propria inesistenza nell’ ambito generale, indistinto di “ciò che esiste”.

In questo poter pensare (anche) ciò che non è reale, in questo potere errare, poter credere il falso consiste il limite oltre il quale esiste -ovvero la conditio sine qua non per l’ esistenza di- tutto ciò che di più spiccatamente, peculiarmente umano possa darsi.
sgiombo is offline  
Vecchio 20-04-2013, 15.51.03   #2
paul11
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Riferimento: L' errore (il falso) é il fondamento di ciò che é propriamente umano

Citazione:
Originalmente inviato da sgiombo
Se è vero, come è vero, che “Omnis determinatio est negatio” (Spinoza), allora il sapere è sapere in quanto si distingue dal non-sapere; ovvero in quanto il pensare (che accade) ciò che è reale si distingue dal pensare (che accade) ciò che non è reale.

A fondamento del sapere sta allora la distinzione fra (i concetti de) l’ “essere reale” e l’ “essere pensato” (l’ “essere reale” è ciò di cui si può dire che è e che non può non essere così com’è, che deve essere così com’ é, pena la caduta in contraddizione, nell’ insensatezza di qualsiasi discorso che lo riguardi; l’ “essere pensato” é ciò di cui si può dire che è ed anche che non è, che può essere così com’ è ma anche altrimenti, che non necessariamente è così com’ è, senza cadere in contraddizione, sensatamente; ma casomai potendo cadere nel falso, nell’ errore -in alternativa alla conoscenza vera- se gli si attribuisce -anche, oltre alla caratteristica stessa dell’ essere pensato- la caratteristica dell’ essere reale).

Dunque il sapere, la conoscenza esiste (ha senso) inevitabilmente insieme all’ errore (il vero insieme al falso), il sapere “nasce” inevitabilmente “col contributo determinante” della contemporanea “nascita” dell’ errore, del falso.

Questa distinzione fra reale e pensato é all’ origine delle domande sul “senso” della vita, della propria personale esistenza, della realtà in generale. Infatti solo se si distingue ciò che è reale da ciò che è pensato ci si può chiedere “perché” oltre a constatare “come”; solo a questa condizione si può anche cercare una spiegazione del fatto che pur potendo pensare -anche- la propria inesistenza, accade realmente la propria esistenza, del fatto che pur potendo pensare la realtà in un’ infinità di modi diversi (compreso il “nulla assoluto”), accade che essa è realmente proprio in quest’ unico e solo peculiare modo in cui è (includente -fra l’ altro- la propria esistenza personale).

Se si potesse pensare solo ciò che è reale, che accade realmente, allora:
a) Non si potrebbe cadere nel falso; ma
b) nemmeno avrebbe senso dire che si conosce il vero.
c) Non esisterebbe la possibilità di immaginare la realtà diversa da come è e dunque di cercare spiegazioni, di porsi problemi (e di proporsi scopi).

Questa distinzione tra reale e pensato è anche all’ origine dell’ autocoscienza, dal momento che la consapevolezza di “se stessi”, del proprio essere ha senso in quanto distinta dalla consapevolezza dell’ “altro da se stessi”: sapere semplicemente (che accade) qualcosa (ciò che può essere attribuito anche a molte altre specie di animali) non basta per sapere (che accade) di esistere (ciò che può con ogni verosimiglianza essere attribuito unicamente all' uomo): per sapere di esistere occorre anche saper distinguere fra l’ “altro da sé” e il “sé” fra l’ ipotesi (vera, conforme a realtà) della propria esistenza e l’ ipotesi (falsa) della propria inesistenza nell’ ambito generale, indistinto di “ciò che esiste”.

In questo poter pensare (anche) ciò che non è reale, in questo potere errare, poter credere il falso consiste il limite oltre il quale esiste -ovvero la conditio sine qua non per l’ esistenza di- tutto ciò che di più spiccatamente, peculiarmente umano possa darsi.


Ciao Sgiombo.
purtroppo hai già detto tutto.
Posso solo esplicitare alcuni concetti.
La ragione ha la qualità dell'astrazione, cioè il poter uscire dall'attimo "reale"che viviamo.Quindi di uscire dalla temporalità e dalla spazialità seppur mantenendosi all'interno di quell'oggettività che è la realtà.

Quando noi "fabbrichiamo" ipotesi su qualunque argomento, utilizziamo la logica della ragione anche nell'astrazione come per il calcolo "della statica" di un fabbricato. E' chiaro che le condizioni e le deduzioni logiche sono diverse,
io credo in Dio e non sento "voci" che mi dicano non è vero credi in Giove.
In altri termini nell'astrazione è molto più complesso dare giudizi di valore: falso, vero.
Nel calcolo statico invece del fabbricato che è nella realtà se sbaglio il fabbricato o cade o nel tempo le sollecitazioni fisiche di travature, solette, ecc. lo "mineranno" pericolosamente.
Forse il problema è che la logica costruita su assiomi ha la validazione della realtà , cioè i giudizio ultimo e pratico che costituisce il vero parametro di funzionamento e quì indico le applicazioni fisiche della logica matematica come il fabbricato ad esempio.
Mentre in ciò che è astrazione diventa opinione quella logica assiomatica è spesso indimostrabile se non come "catena" di relazioni.
Questo è uno dei motivi della "caduta" della metafisica e il passaggio alla filosofia analitica del linguaggio e il relativo scontro filosofico fra i cosiddetti continentali vs analitici.
Oggi si tende all'ontologia per costruire anche l'astrazione, cioè non si inizia da Dio per dimostrare l'uomo, ma si inizia dall'uomo (da ciò che c'è) per andare al traascendentale.

Ed essendo noi umani sia reali che come astrazione, così come istinto e ragione, intuito e deduzione,ecc. questa difficoltà a sintetizzare univocamente l’intero processo ci pone di conseguenza problematiche esistenziali.

Spero di non essere uscito dal contesto della tua discussione.
paul11 is offline  
Vecchio 21-04-2013, 15.02.11   #3
sgiombo
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Riferimento: L' errore (il falso) é il fondamento di ciò che é propriamente umano

Citazione:
Originalmente inviato da paul11
Ciao Sgiombo.
purtroppo hai già detto tutto.
Posso solo esplicitare alcuni concetti.
La ragione ha la qualità dell'astrazione, cioè il poter uscire dall'attimo "reale"che viviamo.Quindi di uscire dalla temporalità e dalla spazialità seppur mantenendosi all'interno di quell'oggettività che è la realtà.

Quando noi "fabbrichiamo" ipotesi su qualunque argomento, utilizziamo la logica della ragione anche nell'astrazione come per il calcolo "della statica" di un fabbricato. E' chiaro che le condizioni e le deduzioni logiche sono diverse,
io credo in Dio e non sento "voci" che mi dicano non è vero credi in Giove.
In altri termini nell'astrazione è molto più complesso dare giudizi di valore: falso, vero.
Nel calcolo statico invece del fabbricato che è nella realtà se sbaglio il fabbricato o cade o nel tempo le sollecitazioni fisiche di travature, solette, ecc. lo "mineranno" pericolosamente.
Forse il problema è che la logica costruita su assiomi ha la validazione della realtà , cioè i giudizio ultimo e pratico che costituisce il vero parametro di funzionamento e quì indico le applicazioni fisiche della logica matematica come il fabbricato ad esempio.
Mentre in ciò che è astrazione diventa opinione quella logica assiomatica è spesso indimostrabile se non come "catena" di relazioni.
Questo è uno dei motivi della "caduta" della metafisica e il passaggio alla filosofia analitica del linguaggio e il relativo scontro filosofico fra i cosiddetti continentali vs analitici.
Oggi si tende all'ontologia per costruire anche l'astrazione, cioè non si inizia da Dio per dimostrare l'uomo, ma si inizia dall'uomo (da ciò che c'è) per andare al traascendentale.

Ed essendo noi umani sia reali che come astrazione, così come istinto e ragione, intuito e deduzione,ecc. questa difficoltà a sintetizzare univocamente l’intero processo ci pone di conseguenza problematiche esistenziali.

Spero di non essere uscito dal contesto della tua discussione.

Sono decisamente d' accordo: calcolo teorico e osservazione empirica (e prassi), istinto e ragione, intuito e deduzione sono complementari (e da integrare reciprocamente, in modo spesso non facile).

Ti ringrazio per l' attenzione a quanto da me inviato.
sgiombo is offline  
Vecchio 22-04-2013, 22.46.04   #4
maral
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Riferimento: L' errore (il falso) é il fondamento di ciò che é propriamente umano

Però Sgiombo presumo che il tuo discorso sia stato pensato, dunque ciò che dici non è reale, ma può essere vero o falso e quindi aperto al problema di come giudicarlo e con quale metro giudicarlo.
Aggiungo che noi non possiamo pensare la nostra inesistenza, al massimo possiamo pensare come sarebbe il mondo senza di noi, ma in questo mondo in realtà siamo presenti proprio perché lo stiamo pensando, dunque è come se giocassimo a nasconderci e ben nascosti a noi stessi lo descriviamo, è proprio come giocare a nascondino con se stessi facendo finta di non esserci. Dunque il nostro non esserci è effettivamente comunque irreale, può solo essere una finzione.
In "L'esistenza non è logica" Berto introduce un bellissimo esempio planetario in merito a questo discorso. L'osservazione delle anomalie delle orbite di Urano e Mercurio avevano un tempo indotto gli astronomi a pensare che esistessero 2 pianeti nascosti responsabili di tali anomalie, rispettivamente chiamati Nettuno e Vulcano. Entrambi i pianeti erano solo pensati come cause logiche non contraddittorie di determinati effetti, mantenendo la distinzione tra il reale e il pensato essi potevano dunque essere veri o falsi. Infatti poi, mentre Nettuno fu osservato, Vulcano non solo non fu mai osservato (che di per sé non sarebbe stato sufficiente per escluderne definitivamente la reale esistenza), ma fu trovata un'altra spiegazione logicamente coerente alle anomalie dell'orbita di Mercurio sulla base della teoria della relatività generale di Einstein, così si smise definitivamente di cercare Vulcano. Quindi Nettuno risultò un pianeta reale, mentre Vulcano era irreale, un'ipotesi falsa.
Come dice Berto e tu confermi, pensare una cosa vera anche in termini logici non significa che sia vera, ma questo perché la realtà non si esaurisce nell'ambito del pensiero logico che ne dà solo un aspetto, deve essere per così dire confermata da altre modalità di conoscenza che ci appartengono e tali da non contraddirsi l'una con l'altra, ove però questa non contraddizione non può essere solo espressa in termini logici, altrimenti cadremmo di nuovo nello stesso errore, né può essere illogica, altrimenti escluderemmo la modalità del pensare dal giudizio di verità e questo sarebbe assurdo.
Decisamente la realtà è una faccenda estremamente complicata anche se la si considera in termini strettamente fenomenologici, nel suo darsi immediato, soprattutto mi pare impossibile definirla in termini di coscienza certa ed esaustiva e forse questo è tutto ciò che possiamo dire e dunque pensare, riconoscere l'invalicabile limite della nostra coscienza che non è fatta per vedere la realtà, ma per darne rappresentazione e ogni rappresentazione è sempre un po' vera e un po' falsa, rimanda sempre a un'insopprimibile oscurità intrinseca e da cui le rappresentazioni traggono continua origine senza mai pervenire a una fine.
maral is offline  
Vecchio 22-04-2013, 23.59.00   #5
Soren
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Riferimento: L' errore (il falso) é il fondamento di ciò che é propriamente umano

D'accordo su alcuni punti meno su altri.

D'accordo sul fatto che il concetto di sapere acquista senso solo in presenza della possibilità dell'errore; perché è grazie a questo che la riflessione acquista significato e senza questa non sarebbe possibile sapere di sapere... ma questo "sapere di sapere" è il sapere stesso: se io non so di sapere allora non so e basta; se io so allora so anche di sapere; per cui la conoscenza intuitiva, il sapere immediato è estraneo alla coscienza e non abbisogna della consapevolezza. è un sapere inconscio: non siamo "noi" ( intesi come coscienza di noi ) a saperlo ma il nostro intelletto per così dire meccanico, la nostra intuizione. Ma questo è altrettanto un'esperienza soggettiva fondata su di un calcolo statistico che il nostro cervello esegue senza bisogno del supporto della riflessione. Perciò l'unico sapere possibile è quello consapevole, perché in altro caso l'io non ne viene a conoscenza; occorre distinguere secondo me tra le due categorie di conoscenza per parlare di sapere perché anche questo avvenendo per processi diversi si diversifica al suo interno, anche se un tipo sta alla base dell'altro ( quello intuitivo di quello astratto, in cui il dato primo è associato alla logica ed al calcolo mentale per il dato finale).
Ora in questa mediazione avviene ciò che dici tu: essendo ovviamente il pensiero legato anche a questioni non strettamente immanenti alla nostra situazione presente, e comunque non potendo ottenere tutti i dati relativi ad una certa situazione, il processo ipotetico deve assumere più casi, e nel suo stesso ipotizzare, che significa appunti ammettere più possibilità, esce dal percorso stabilito del reale "necessario" per considerare anche il reale "possibile": in questa percezione della contingenza, sospensione della sicurezza del giudizio in favore della sua infermità probabilistica, sta l'atto di ragione che cerca con la logica di ridurre le ipotesi fino ad ottenere una tesi quanto più possibile appropriata al caso. Data questa proprietà specifica del pensiero di superare i limiti della -realtà- che a posteriori non è più un percorso unico ma un incrocio, sempre un insieme di percorsi contingenti ( per quanto prima del pensiero e del soggetto conoscente sia, "ovviamente" perché così la logica dice, una soltanto ), si può dire che la possibilità dell'errore, del giudizio errato, sia affare propriamente umano: però ho anche una critica a muovere a questa conclusione ( corretta ) da cui tu arrivi alla tua affermazione " l'errore ( il falso ) è ciò che è propriamente umano": Questo è vero ma sottosta alla possibilità di pensare e di ipotizzare senza dati completi, a cui comunque anche la possibilità del vero cosciente è unica: perciò la "proprietà umana" per eccellenza sarebbe da individuare un gradino più sopra di entrambe le possibilità del vero e del falso sapere nel loro principio comune, cioè il pensiero stesso che le produce.
Oltre a questo, su cui comunque vedo che le premesse sono simili e le conclusioni quasi, c'è un'altra tua affermazione su cui non posso essere d'accordo.

Citazione:
Se si potesse pensare solo ciò che è reale, che accade realmente, allora:
a) Non si potrebbe cadere nel falso; ma
b) nemmeno avrebbe senso dire che si conosce il vero.
c) Non esisterebbe la possibilità di immaginare la realtà diversa da come è e dunque di cercare spiegazioni, di porsi problemi (e di proporsi scopi).

la (c).
premessa 1: se si potesse pensare solo ciò che è reale
conseguenza di 1 - premessa 2: non esisterebbe la possibilità di immaginare la realtà diversa da com'è
tesi finale: dunque non avrebbe senso cercare spiegazioni, porsi problemi e scopi.

Se cioè non conoscessimo più il pensiero ipotetico ma solo e con certezza di causa quello affermativo, non avremmo più problemi in quanto la soluzione sarebbe immediata, dunque spiegazioni e problemi perderebbero di senso. Corretto. Ma l'ultimo elemento - la categoria di causa finale - perché elimineresti anche questa ? non è una categoria il cui seme sta nella psiche - una pianta, che è dotata di una piccolissima coscienza e solo intuitiva ha ancora scopi per quanto inconsapevoli: non è lo scopo un elemento del pensiero che nasce prima di questo ? io ho sempre pensato così: per cui non posso essere d'accordo con questa tua ultima conclusione. L'unico scopo che viene eliminato dalla tua ipotesi è quello conoscitivo: ma rimane quello fisico-immanente da cui il primo citato proviene - è un livello prima.
A parte queste poche precisazioni sulle tue conclusioni finali, mi trovo d'accordo con il resto dei ragionamenti. Ciao
Soren is offline  
Vecchio 23-04-2013, 21.01.34   #6
sgiombo
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Citazione:
Originalmente inviato da maral
Come dice Berto e tu confermi, pensare una cosa vera anche in termini logici non significa che sia vera, ma questo perché la realtà non si esaurisce nell'ambito del pensiero logico che ne dà solo un aspetto, deve essere per così dire confermata da altre modalità di conoscenza che ci appartengono e tali da non contraddirsi l'una con l'altra, ove però questa non contraddizione non può essere solo espressa in termini logici, altrimenti cadremmo di nuovo nello stesso errore, né può essere illogica, altrimenti escluderemmo la modalità del pensare dal giudizio di verità e questo sarebbe assurdo.
Decisamente la realtà è una faccenda estremamente complicata anche se la si considera in termini strettamente fenomenologici, nel suo darsi immediato, soprattutto mi pare impossibile definirla in termini di coscienza certa ed esaustiva e forse questo è tutto ciò che possiamo dire e dunque pensare, riconoscere l'invalicabile limite della nostra coscienza che non è fatta per vedere la realtà, ma per darne rappresentazione e ogni rappresentazione è sempre un po' vera e un po' falsa, rimanda sempre a un'insopprimibile oscurità intrinseca e da cui le rappresentazioni traggono continua origine senza mai pervenire a una fine.

Beh, la non-contraddizione è una caratteristica eminentemente logica, “interna” al pensiero linguistico e non propria della realtà (casomai propria del pensiero o discorso circa la realtà).
Certo, un pensiero può essere non-contraddittorio ma falso, non conforme alla realtà; dunque è la verità del pensiero a non limitarsi alla correttezza logica (la non-contraddizione), da necessitare qualcos’ altro, che é proprio della realtà, per accadere; non il pensiero in sé (infatti possono darsi pensieri che sono tali perfettamente, al 100%, ma che sono falsi, perché la realtà non li "rende", non li fa essere, veri).

Però la nostra coscienza, compresa quella del pensiero, se accade realmente è reale nel suo accadere.
La nostra coscienza, comprendendo (la coscienza de-) i pensieri circa la coscienza stessa (e l’ autocoscienza), comprende la conoscenza di qualcosa di reale, anche se inevitabilmente soltanto interno alla coscienza, a la Kant fenomenico, non in sé, non esterno alla coscienza, non ulteriore rispetto ad essa (a la Kant noumenico).
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Vecchio 23-04-2013, 21.38.19   #7
sgiombo
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Soren:
D'accordo su alcuni punti meno su altri.

D'accordo sul fatto che il concetto di sapere acquista senso solo in presenza della possibilità dell'errore; perché è grazie a questo che la riflessione acquista significato e senza questa non sarebbe possibile sapere di sapere... ma questo "sapere di sapere" è il sapere stesso: se io non so di sapere allora non so e basta; se io so allora so anche di sapere; per cui la conoscenza intuitiva, il sapere immediato è estraneo alla coscienza e non abbisogna della consapevolezza. è un sapere inconscio: non siamo "noi" ( intesi come coscienza di noi ) a saperlo ma il nostro intelletto per così dire meccanico, la nostra intuizione. Ma questo è altrettanto un'esperienza soggettiva fondata su di un calcolo statistico che il nostro cervello esegue senza bisogno del supporto della riflessione. Perciò l'unico sapere possibile è quello consapevole, perché in altro caso l'io non ne viene a conoscenza; occorre distinguere secondo me tra le due categorie di conoscenza per parlare di sapere perché anche questo avvenendo per processi diversi si diversifica al suo interno, anche se un tipo sta alla base dell'altro ( quello intuitivo di quello astratto, in cui il dato primo è associato alla logica ed al calcolo mentale per il dato finale).
Ora in questa mediazione avviene ciò che dici tu: essendo ovviamente il pensiero legato anche a questioni non strettamente immanenti alla nostra situazione presente, e comunque non potendo ottenere tutti i dati relativi ad una certa situazione, il processo ipotetico deve assumere più casi, e nel suo stesso ipotizzare, che significa appunti ammettere più possibilità, esce dal percorso stabilito del reale "necessario" per considerare anche il reale "possibile": in questa percezione della contingenza, sospensione della sicurezza del giudizio in favore della sua infermità probabilistica, sta l'atto di ragione che cerca con la logica di ridurre le ipotesi fino ad ottenere una tesi quanto più possibile appropriata al caso. Data questa proprietà specifica del pensiero di superare i limiti della -realtà- che a posteriori non è più un percorso unico ma un incrocio, sempre un insieme di percorsi contingenti ( per quanto prima del pensiero e del soggetto conoscente sia, "ovviamente" perché così la logica dice, una soltanto ), si può dire che la possibilità dell'errore, del giudizio errato, sia affare propriamente umano: però ho anche una critica a muovere a questa conclusione ( corretta ) da cui tu arrivi alla tua affermazione " l'errore ( il falso ) è ciò che è propriamente umano": Questo è vero ma sottosta alla possibilità di pensare e di ipotizzare senza dati completi, a cui comunque anche la possibilità del vero cosciente è unica: perciò la "proprietà umana" per eccellenza sarebbe da individuare un gradino più sopra di entrambe le possibilità del vero e del falso sapere nel loro principio comune, cioè il pensiero stesso che le produce.
Oltre a questo, su cui comunque vedo che le premesse sono simili e le conclusioni quasi, c'è un'altra tua affermazione su cui non posso essere d'accordo.

Sgiombo:
Devo dire che invece non sono d’ accordo io su quanto affermi circa il sapere e la sua (per me pretesa) coincidenza con il sapere di sapere.
Può ben darsi che uno faccia una previsione azzeccata e non possa verificarla, perché magari muore prima che si verifichi (uno dice che la prossima corsa del motomondiale verrà vinta da Lorenzo, magari ci scommette, ma muore prima che sia disputata; poi viene disputata e vinta da Lorenzo. Dunque aveva una conoscenza (vera) senza sapere se l’ aveva o meno (in quanto tale, conoscenza vera); L’ avrebbe potuto spere se fosse sopravvissuto.
Inoltre secondo me le esperienze o sensazioni immediate, non pensate (predicate, giudicate) essere reali non sono conoscenze; casomai possono essere oggetti di conoscenza (lo saranno se, inoltre, saranno pensate veracemente).
Quindi per me conoscenza e “sapere” sono sinonimi; diverso è sentire (semplicemente, senza pensare di sentire).
Concordo che il pensiero è quanto di più propriamente umano, vero o falso che sia; esso si fonda sulla distinzione fra “solo pensato” (reale unicamente in quanto oggetto di pensiero; che non-è realmente) e “(pensato ma) che è anche realmente (anche se non fosse in quanto pensato): la distinzione-esclusione reciproca fra essere e non essere, che fonda (definisce) i due concetti più generali-astratti (che credo sia la vera e propria "scintilla" dell' umano).
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Soren:
Citazione di Sgiombo:
Se si potesse pensare solo ciò che è reale, che accade realmente, allora:
a) Non si potrebbe cadere nel falso; ma
b) nemmeno avrebbe senso dire che si conosce il vero.
c) Non esisterebbe la possibilità di immaginare la realtà diversa da come è e dunque di cercare spiegazioni, di porsi problemi (e di proporsi scopi).

Soren

la (c).
premessa 1: se si potesse pensare solo ciò che è reale
conseguenza di 1 - premessa 2: non esisterebbe la possibilità di immaginare la realtà diversa da com'è
tesi finale: dunque non avrebbe senso cercare spiegazioni, porsi problemi e scopi.

Se cioè non conoscessimo più il pensiero ipotetico ma solo e con certezza di causa quello affermativo, non avremmo più problemi in quanto la soluzione sarebbe immediata, dunque spiegazioni e problemi perderebbero di senso. Corretto. Ma l'ultimo elemento - la categoria di causa finale - perché elimineresti anche questa ? non è una categoria il cui seme sta nella psiche - una pianta, che è dotata di una piccolissima coscienza e solo intuitiva ha ancora scopi per quanto inconsapevoli: non è lo scopo un elemento del pensiero che nasce prima di questo ? io ho sempre pensato così: per cui non posso essere d'accordo con questa tua ultima conclusione. L'unico scopo che viene eliminato dalla tua ipotesi è quello conoscitivo: ma rimane quello fisico-immanente da cui il primo citato proviene - è un livello prima.
A parte queste poche precisazioni sulle tue conclusioni finali, mi trovo d'accordo con il resto dei ragionamenti. Ciao

Sgiombo:
Per me uno scopo non può che essere cosciente, altrimenti si tratta solo di successioni di eventi che meccanicamente, automaticamente producono effetti (come il crescere e il vegetare delle piante; che non credo abbiano alcun barlume di coscienza; certo questo non é dimostrabile, come nemmeno il contrario, ma mi sembra molto ragionevole da ceredere).
Uno scopo è intenzionale, è un effetto prima pensato; poi seguito dal pensiero delle cause che partendo da una situazione di fatto, data possono produrlo; poi perseguito nella pratica cercando di realizzare queste cause onde conseguano quegli effeti.
Ciao!
sgiombo is offline  

 



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