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Filosofia - Forum filosofico sulla ricerca del senso dell’essere.
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Vecchio 04-10-2013, 11.27.00   #91
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)

and1972rea
e' chiaro che qualsiasi fenomeno che osserviamo realmente non e' un ritaglio astraibile dal mondo, esso e' profondamente nel mondo , e' il mondo stesso , ed e' parte del mondo essente nel senso piu' compiuto che diamo al significato di parte come ente non circoscrivibile dal Nulla ne' nel tempo ne' nello spazio; se tocco quella sedia, non mi metto in relazione con una parte astratta dal Tutto, ma con il Tutto intero ,rimanendo nel Tutto , ma in modo diverso; e' impossibile pensare razionalmente che in un tempo ed in luogo diverso dal nostro l'Essere non abbia nulla a che vedere con noi e non ci riguardi in alcun modo; davvero possiamo pensare che sul Sole in questo istante qualunque cosa accade possa interagire con noi non prima di 8 minuti del nostro tempo? e nel frattempo? nel frattempo dovremmo vivere in parti distinte dell'Essere ? completamente scisse e separate dal nulla? se così fosse, in quale punto del tempo e dello spazio che ci separano il Nulla comincerebbe a diventare Essere ? e' evidente che tutto non puo' che essere soltanto essente,e' evidente che ogni punto del Reale non puo' che essere immediatamente ( non mediatamente ) relazionato ad ogni altro punto di esso.

Questa è senz'altro un'altra argomentazione possibile che condivido confermante lo stesso assunto da me riportato precedentemente.




jeangene:
Se davvero questa sostanza esistesse anche il problema del divenire e del nulla sarebbe risolto perché nel suo divenire, nel suo cambiare essa resterebbe sempre identica a sé stessa.
Mi piacerebbe approfondire questo argomento con voi perché non vorrei essermi talmente affezzionato a questa idea da non vederne i limiti o le contraddizioni.


Ecco, questo è più o meno anche il mio punto di vista. Il substrato che permane è l'Essere e quando vogliamo parlare del nostro specifico essere, in realtà, ci riferiamo a questo substrato comune. Percui il mio essere non svanisce con certe manifestazioni (per esempio quella di un corpo umano che si muove sulla terra), esso non dipende dalle modalità tramite cui l'Essere appare.


La distanza con Severino è abbastanza chiara. Lui parla dell'essere specifico di ogni ente che appare. Ma secondo me non si rende conto di questo, che le proprietà con cui vorrebbe identificare gli enti non sono davvero possedute dagli enti stessi. Come cercavo di spiegare nel post precedente non posso dire di essere alto (per esempio) se non in relazione a qualcos'altro, percui l'essere alto non mi appartiene davvero, ma può semplicemente apparire all'interno del sistema formato da "me" e dagli "altri".

Il principio di identità degli indiscernibili afferma che l'oggetto (x) se possiede tutte le proprietà dell'oggetto (y) (comprese connotazioni spazio-temporali) è lo stesso oggetto (y). In questo modo proprietà ed oggetti verrebbero identificati; io sarei le proprietà che mi appartengono. Ma a chi appartengono queste proprietà? Se il mio Io è definito dalle proprietà stesse non si capisce a chi sarebbero ascritte. Se sono ascritte a qualcosa che non-è le proprietà stesse (questa X o questo Io), allora il mio essere più proprio non-è quelle proprietà.
Altrimenti si deve dire tautologicamente che quelle proprietà sono quelle proprietà, in questo senso il principio di identità degli indiscernibili diventa privo di senso dato che esso vorrebbe parlare non dell'identità delle proprietà ma dell'identità della (x) con (y) (appunto per riconoscerli come "esseri" identici).

A questo punto dire di essere certe proprietà non ha valore, al massimo si può constatare che ci sono delle proprietà. Se si vuole conferire Esistenza ad esse e non a "noi" (qualcosa a cui le proprietà appartengono), allora non dobbiamo temere comunque la distruzione o il non-essere, non esistendo affatto già adesso. (Ovviamente ciò che mi preme di salvaguardare è la mia condizione e non le parole con cui descrivo questa situazione; percui sarei anche disposto ad ammettere che non esisto se il non esistere implicasse tutto ciò).
Oppure si potrebbe dire che esistono queste proprietà ed anche un unico detentore di tutte quelle, perché ciò che è sotto le mie proprietà, non potendo essere esso stesso una proprietà, risulterà identico a ciò che v'è sotto le proprietà degli altri. Non potremmo usare, infatti, il principio di identità degli indiscernibili per distinguerci nell'essere dententori delle proprietà; in quanto questo essere, non essendo una proprietà, non ha modo di risultare diverso da altri esseri dello stesso genere.


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Vecchio 04-10-2013, 22.49.41   #92
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@ And1972rea e Aggressor
La logica di Severino è, ripeto, ineccepibile (ripeto anche quanto detto in precedenti risposte: è di un
grande filosofo che stiamo parlando).
Riconosciuto questo, però, continuo ad essere persuaso che egli cerchi, come dire, una "cura" al nichilismo
dilagante, cioè che si ponga uno scopo prestabilito.
Che cos'è il "nulla"? Severino risponde che il nulla è il nulla, e che dunque non può essere un qualcosa che
"è". Condivido assolutamente: quando si afferma un essente che nasce dal, e poi ritorna nel "nulla" si afferma
l'assurdo.
Tuttavia, a parer mio, le parole non sono altro che "segni" di un qualcosa di inafferabile (dell'Evento di
cui parla la semiotica): segni che dunque sono, necessariamente, interpretazioni.
E interpretazioni sono quindi anche quelle parole che designano l'Essere, e/o il Nulla.
Credo che la ragionevolezza ci induca a pensare che qualcosa ci sia stato anche prima dell'avvento di un
interpretante (tipicamente: l'uomo). E che qualcosa ci sarà anche dopo la scomparsa dell'ultimo di essi.
Levinas (vi rimando alla mia discussione con Maral) chiama questo qualcosa "c'è". Questo qualcosa, questo "c'è",
non è il Nulla, ma è un qualcosa che il nichilismo, se non "ingenuo" (per usare le parole di Severino), equipari
al Nulla.
Una volta affermato questo, dovremmo chiederci: se nascere significa sorgere da un qualcosa che non può essere
il Nulla, e se morire significa tornare ad un qualcosa che "è qualcosa", questo ci dà la licenza di negare
il divenire? Come è possibile (per usare un'immagine assai orrida di Tolstoj) equiparare un bambino giocoso
ad un corpo coperto di vermi? Com'è pensabile, se non come estrema "cura", non pensare a questi due stati di un
corpo come ad un radicale divenire-altro?
Ecco, il nichilismo "equipara" solamente il corpo coperto di vermi al Nulla. Non c'è, in esso, nessuna pretesa
ontologica di non-contraddirsi; la sua equiparazione è meramente esistenziale.
Il nichilismo di Nietzsche è un esempio chiarissimo di nichilismo non certo ingenuo. Egli dice: "imprimere al
divenire il carattere dell'Essere, è questa la suprema volontà di potenza". Nietzsche si rende conto che nel
"flusso continuo" del divenire, che egli pur afferma, non potremmo mai dire di qualcosa che "è". Dunque, nel
flusso continuo del divenire (che è la morte di qualsiasi immutabile: la "morte di Dio"), che è l'unica realtà,
l'uomo abbisogna di un punto fermo, di un punto che non "diventa": "così, per vivere", dice Nietzsche.
Su questo punto la distanza da Severino è abissale. Dice infatti Severino: "dell'Essere non si può pensare che
divenga, perchè, divenendo, non sarebbe (Essenza del nichilismo)".
Proprio qui vediamo che la logica (inappuntabile) di Severino non tiene nel debito conto una affermazione
("così, per vivere") di Nietzsche che non cerca, ma di proposito, il rigore della logica; ma che si esplica su
di un piano di cui, a mio modesto avviso, Severino ha troppo poca considerazione: il piano della vita, il
piano della inarrestabile dinamicità del vivere.
Non si tratta di non rendersi conto (come Severino pretenderebbe) della contraddizione logica che lui, acutamente,
mette in rilievo: si tratta di altro.
ciao
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Vecchio 05-10-2013, 10.42.56   #93
maral
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Originalmente inviato da 0xdeadbeef
Proprio qui vediamo che la logica (inappuntabile) di Severino non tiene nel debito conto una affermazione ("così, per vivere") di Nietzsche che non cerca, ma di proposito, il rigore della logica; ma che si esplica su di un piano di cui, a mio modesto avviso, Severino ha troppo poca considerazione: il piano della vita, il piano della inarrestabile dinamicità del vivere.
Non si tratta di non rendersi conto (come Severino pretenderebbe) della contraddizione logica che lui, acutamente, mette in rilievo: si tratta di altro.
ciao
Su questo mi sentirei di dissentire, soprattutto nel secondo Severino, il piano della inarrestabile dinamicità del vivere rientra in piena considerazione, ma rientra in considerazione come inarrestabile dinamicità dell'apparire che è vera una volta compresa nel Destino. Se Nietzsche vuole imprimere al divenire il carattere dell'essere (e ci riesce con l'eterno ritorno) forse Severino finisce con l'imprimere alla totalità dell'essere il carattere di quel continuo diverso apparire che finalmente con-preso appare come eterna Gloria di ogni essente in quanto essente. E' certo il percorso radicalmente opposto di quello di Nietzsche: il destino eterno che da sé si svela con il carattere in esso compreso del diverso apparire, rispetto al divenire con impresso per volontà assoluta il carattere eterno dell'essere.
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Vecchio 05-10-2013, 11.37.36   #94
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0xdeadbeef:
La logica di Severino è, ripeto, ineccepibile (ripeto anche quanto detto in precedenti risposte: è di un
grande filosofo che stiamo parlando).
Riconosciuto questo, però, continuo ad essere persuaso che egli cerchi, come dire, una "cura" al nichilismo
dilagante, cioè che si ponga uno scopo prestabilito.
Che cos'è il "nulla"? Severino risponde che il nulla è il nulla, e che dunque non può essere un qualcosa che
"è". Condivido assolutamente: quando si afferma un essente che nasce dal, e poi ritorna nel "nulla" si afferma
l'assurdo.
Tuttavia, a parer mio, le parole non sono altro che "segni" di un qualcosa di inafferabile (dell'Evento di
cui parla la semiotica): segni che dunque sono, necessariamente, interpretazioni.
E interpretazioni sono quindi anche quelle parole che designano l'Essere, e/o il Nulla.
Credo che la ragionevolezza ci induca a pensare che qualcosa ci sia stato anche prima dell'avvento di un
interpretante (tipicamente: l'uomo). E che qualcosa ci sarà anche dopo la scomparsa dell'ultimo di essi.
Levinas (vi rimando alla mia discussione con Maral) chiama questo qualcosa "c'è". Questo qualcosa, questo "c'è",
non è il Nulla, ma è un qualcosa che il nichilismo, se non "ingenuo" (per usare le parole di Severino), equipari
al Nulla.
Una volta affermato questo, dovremmo chiederci: se nascere significa sorgere da un qualcosa che non può essere
il Nulla, e se morire significa tornare ad un qualcosa che "è qualcosa", questo ci dà la licenza di negare
il divenire? Come è possibile (per usare un'immagine assai orrida di Tolstoj) equiparare un bambino giocoso
ad un corpo coperto di vermi? Com'è pensabile, se non come estrema "cura", non pensare a questi due stati di un
corpo come ad un radicale divenire-altro?
Ecco, il nichilismo "equipara" solamente il corpo coperto di vermi al Nulla. Non c'è, in esso, nessuna pretesa
ontologica di non-contraddirsi; la sua equiparazione è meramente esistenziale.
Il nichilismo di Nietzsche è un esempio chiarissimo di nichilismo non certo ingenuo. Egli dice: "imprimere al
divenire il carattere dell'Essere, è questa la suprema volontà di potenza". Nietzsche si rende conto che nel
"flusso continuo" del divenire, che egli pur afferma, non potremmo mai dire di qualcosa che "è". Dunque, nel
flusso continuo del divenire (che è la morte di qualsiasi immutabile: la "morte di Dio"), che è l'unica realtà,
l'uomo abbisogna di un punto fermo, di un punto che non "diventa": "così, per vivere", dice Nietzsche.
Su questo punto la distanza da Severino è abissale. Dice infatti Severino: "dell'Essere non si può pensare che
divenga, perchè, divenendo, non sarebbe (Essenza del nichilismo)".
Proprio qui vediamo che la logica (inappuntabile) di Severino non tiene nel debito conto una affermazione
("così, per vivere") di Nietzsche che non cerca, ma di proposito, il rigore della logica; ma che si esplica su
di un piano di cui, a mio modesto avviso, Severino ha troppo poca considerazione: il piano della vita, il
piano della inarrestabile dinamicità del vivere.
Non si tratta di non rendersi conto (come Severino pretenderebbe) della contraddizione logica che lui, acutamente,
mette in rilievo: si tratta di altro.


In merito a questo vorrei dire, innanzitutto, che la logica di Severino a me non appare così inappuntabile, come ho cercato di dimostrare.
Ma per commentare il vero contenuto del tuo post vorrei evidenziare questo: che il discorso del nichilismo presenta, probabilmente, almeno due piani: 1) quello, più evidenziato da Severino (forse), del passaggio dall'essere al non essere, il quale porterebbe la gente a credere di diventare un nulla dopo la morte (questa idea deve avere forti ripercussioni etiche, diciamo, non troppo positive per una visione totalizzante della società come ente che si protrae nel futuro oltre la morta individuale), e 2) quello da te sottolineato, che pone l'uomo di fronte ad un divenire capace di annientare la possibilità di trovare "punti fermi" su cui appoggiare le proprie scelte e convinzioni per poter "vivere".


Sul primo punto mi sono già espresso, per ciò che riguarda il secondo, invece, ho da far notare l'irrealtà di una simile posizione. Non è vero, secondo me, che siamo sballottati da un divenire incapace di darci punti fermi su cui basarci. Questo relativismo che viene spessissimo riportato sul piano etico e che fa dire alla gente "ognuo pensa ciò che vuole ma nessuna posizione è più giusta delle altre", si basa su una cattiva interpretazione del concetto di relativismo stesso. è vero, per esempio, che anche in matematica, a seconda del sistema di riferimento, una semplice somma di numeri può dare risultati diversi; tuttavia uno e un solo risultato è quello giusto all'interno del singolo sistema preso a riferimento. Lo stesso discorso deve valere per altri campi del sapere e quello giuridico e/o etico non fa da meno.
Diciamo che per noi non avrebbe senso farsi esplodere in nome di un qualche Dio e per qualcun'altro si. Quelli che credono nella sensatezza di un simile gesto saranno giustificati dal sistema tramite cui ragionano, sistema che prevede un Dio e una ricompensa elargita da quello una volta portata a termine la missione. Se mi inserissi in questo sistema scoprirei che è davvero conveniente e giusto farsi esplodere tra una moltitudine di infedeli, ma se credo, come accade, che questo sistema non "esista davvero" e che quello in cui siamo è assai diverso, eviterò di fare simili gesti. Ora, se riuscissi a convincere il kamikaze che le sue premesse non reggono egli rivedrebbe pure le sue posizioni e magari, mettendosi nel mio punto di vista, troverebbe che le cose più sensate da fare sono quelle che, più o meno, faccio io.
Ciò vuol dire che se si dimostrasse certe premesse essere più probabilmente vere, la gente, prendendole in considerazione, avrebbe modo di comportarsi rifacendosi ai "punti fermi" propri del sistema "ontologico" che stà considerando. Ciò che cambia in una società come la nostra è, più che altro, alcune sottigliezze del sistema in cui siamo inseriti, ma la sua trasformazione porta di conseguenza l'emergere di nuove verità relative ad esso che non sono drasticamente arbitrarie.
Un esempio che ci facevano a bioetica è questo: mettiamo che per un omicidio la legge preveda l'ergastolo; se tra 100 anni la gente vivesse 200 anni, in media, invece che 75, allora probabilmente dovremmo rivedere la consistenza della pena. Vediamo che il sistema di riferimento è mutato (prima la società era formata da enti che vivevano di meno), le premesse sono mutate, ma contemporaneamente cambieranno certe conseguenze sensatamente. Non dirò, come molti fanno "vedi, in ogni società diversa le cose sono diverse, quindi non puoi dirmi cosa dovrei fare perché una verità non esiste".
Infine, se una società impone una ontologia/teologia improbabile, il problema stà solo nel convincere i partecipanti che quella è una ontologia/teologia improbabile (ovviamente c'è gente così assuefatta che è praticamente impossibile da convincere). C'è un motivo percui non crediamo che esista un Dio che ci gratificherà se imponiamo agli altri la sua parola, e i nostri motivi sono ragionevoli tanto che potranno essere espressi in un dialogo e fatti valere. Su molte cose, infatti, l'umanità intera (o quasi tutta l'umanità) è riuscita a mettersi sullo stesso piano (il linguaggio della scienza, ad esempio, e per ciò che riguarda il ditto i diritti fondamentali -discutibili, non lo nego, soprattutto nella giustificazione ufficiale che si da della loro sensatezza, ma tuttavia segni di una unificazione del senso etico-).

In generale si può davvero discutere e "fare proprio"/"modificare" il punto di vista altrui poiché il dialogo opera tramite una sensatezza reale e non relativa nel senso assurdo dai più indicato. Non per niente c'è chi pretende di avere ragione quando dice "tutto è relativo"; inoltre se la natura non avesse qualche punto fermo o almeno relativamente fermo non si può pensare che si sia sviluppata coerentemente fino ad arrivare all'uomo, che dovrà pure lui soggiacere all'essere naturale.


In soldoni mi pare che la mancanza di punti fermi sia una mala interpretazione del concetto di relativismo, perché le cose possono anche cambiare nel tempo, ciò non toglie che ad un preciso mutamento non corrisponda una precisa, nuova e coerente presa di posizione. Questo punto meritava certamente una discussione a parte rispetto alla questione dell'Essere, ciò che ho scritto è il mio punto di vista attuale; saluti
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Vecchio 06-10-2013, 12.36.54   #95
maral
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@Aggressor
Citazione:
Ciò vuol dire che se si dimostrasse certe premesse essere più probabilmente vere, la gente, prendendole in considerazione, avrebbe modo di comportarsi rifacendosi ai "punti fermi" propri del sistema "ontologico" che stà considerando
Già, ma come si dimostrano che certe premesse sono più probabilmente vere? Chi lo fa e come si può farlo se non partendo dalle proprie premesse già ritenute più probabilmente vere, fossero pure anche solo metodologiche? E' chiaro che il problema non si può risolvere in questo modo, a meno di non ritenere che le premesse più vere sono quelle supportate da una maggior volontà di potenza che ha tutta la forza per imporre se stessa come solo premessa indiscutibile grazie alla capacità tecnica di convincimento che sa porre in campo. E allora il discorso di Severino sull'approdo totalmente nichilistico della volontà di potenza non ha alternative.
In realtà Severino stesso fa appello a quel principio di identità che pone a indiscutibile premessa di ogni premessa ritenendo che sia in sé ontologicamente innegabile per mostrare la contraddittorietà assoluta del divenire e quindi della volontà di potenza che di esso solo può occuparsi, dunque la sua nullità. Eppure anche questa premessa che risulta tanto evidente viene negata nelle sue logiche conseguenze da chi (consciamente o inconsciamente) vuole che sia invece proprio la volontà di potenza il principio chiave e da chi, pur considerandolo necessariamente principio chiave, continua a illudersi che da esso stesso scaturisca il suo rimedio, nonostante i millenni di storia che costantemente hanno mostrato la nullità di tali rimedi che finiscono sempre per esaltare la stessa volontà di potenza che erano nati per tentare di frenare.
Non so, ma mi pare che invocare la capacità di mettere in discussione i principi fondanti di un campo di senso, che alla fine si traduce in un mettere in discussione i principi fondanti del campo di senso altrui in nome della superiorità del proprio (e mi pare che gli esempi che porti vadano non a caso tutti in questa direzione) sia una soluzione fallimentare in partenza e già infinite volte inutilmente percorsa. In fondo Severino ci mette di fronte a questa alternativa radicale: o accettiamo che la volontà di potenza sia tutto e la contraddizione che le sta alla base il principio dei principi, oppure ci rendiamo conto che essa è niente, perché niente è quel divenire che essa sola può davvero dirigere.
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Vecchio 06-10-2013, 14.49.38   #96
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@ Aggressor
Ci fai notare un punto estremamente interessante ("a seconda del sistema di riferimento, una semplice somma
di numeri può dare risultati diversi; tuttavia uno e un solo risultato è quello giusto all'interno del singolo
sistema preso a riferimento").
Condivido assolutamente, e d'altronde questo è ciò che dice, in sostanza, la relatività (spesso, e a torto,
assolutizzata).
Tuttavia, io credo, quando si passa ad argomenti che non considerano "numeri", o quantomeno tesi scientifiche,
ma considerano l'"uomo", in tutte le sue sfumature, le cose si complicano notevolmente.
Ad esempio: come considerare l'etica in riferimento a quanto la relatività afferma? Tu dici che deve valere
lo stesso discorso; e quindi, presumo, assumeresti una certa prospettiva etica, non un'altra, come quella
prospettiva all'interno della quale (e solo all'interno della quale) un certo principio assume la veste di
"vero".
Fino a questo punto posso condividere. Ma non senza una annotazione che ritengo importante: una certa prospettiva
etica nasce e si sviluppa in senso ad una certa cultura, ad una certa "weltanschauung". La cultura, ad esempio,
emersa all'interno della civiltà occidentale è, sempre più, una cultura volta alla auto-nomia dell'individuo.
Un individuo, dunque, che sempre più si auto-nomina (cioè si dà norme proprie, anche e soprattutto in materia
etica). Cioè un individuo che sempre più, nella sua singolarità, diventa "sistema di riferimento".
Ma, almeno per il momento, sospenderei questo discorso per passare oltre.
Non mi è molto chiaro ciò che intendi dire nel proseguimento di questo discorso. Da una parte, sembra, tu
intendi tener fermo il principio di "sistema di riferimento etico", ma dall'altra sembri quasi voler tratteggiare
una specie di sistema "privilegiato".
Ritengo degno di nota il tuo riferirti a quello che Habermas chiama "agire comunicativo" (che contrappone all'
agire strumentale). E che d'altronde già era stato preceduto dal celebre atteggiamento di Socrate, il quale
parla di porsi in una condizione di "convincibilità".
A mio avviso però, tesi di questo tipo (che sono apprezzabili comunque) sbattono irrimediabilmente contro il
muro rappresentato dal solidificarsi di posizioni etiche contrapposte, e dunque dialetticamente irrisolvibili
(Socrate, alla fine, non è convinto dalle tesi di Critone, come il fondamentalista religioso non sarà mai
convinto dalle tesi "razionali").
ciao
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Vecchio 06-10-2013, 15.10.28   #97
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Maral:
Non so, ma mi pare che invocare la capacità di mettere in discussione i principi fondanti di un campo di senso, che alla fine si traduce in un mettere in discussione i principi fondanti del campo di senso altrui in nome della superiorità del proprio (e mi pare che gli esempi che porti vadano non a caso tutti in questa direzione) sia una soluzione fallimentare in partenza e già infinite volte inutilmente percorsa.

Sapevo che quella frase poteva creare una interpretazione di questo genere rispetto a ciò che volevo dire. Mi vergognerei di pensare cose del genere. Non voglio sopraffare l'altro con la mia visione, voglio solo dicutere per inglobare quella dell'altro e permettere all'altro di fare lo stesso. In questo modo si arriverà ad un accordo presumibilmente (non imposto con la forza! ma nel senso di una comprensione dell'altro), se non si afferma (come certe correnti ermeneutiche fanno) che il dialogo non può portare a molto, che la comprensione dell'altro alla fine è impossibile. Con gli esempi volevo mostrare che certi sistemi teologici/ontologici sono da noi esclusi e non senza ragioni, e che queste ragioni si possono esprimere davvero, non sono incomunicabili. Anche gli assiomi a cui ti sei riferito, come nelle scienze, possono essere discussi oppure accettati per evidenza se risultano così lampanti. Ma se a qualcuno non sembreranno così lampati potrà benissimo esporre le sue ragioni e gli altri, se non sono volontariamente di parte, potranno capire se quello che dice ha senso.


è possibile che questo processo di comprensione non sia immediato; noi stessi su questo forum difficilmente cambiamo opinione (ma a volte accade), ciò non vuol dire che il processo non avrà sviluppo e compimento. Non possiamo fossilizzarci sugli assiomi delle vare ontologie, nessuno prende per veri questi assiomi senza rifletterci sopra, secondo me anche essi hanno modo di essere rivisti ed essere oggetto di dibattito e comprensione.
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Vecchio 07-10-2013, 11.45.06   #98
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0xdeadbeef:
Ci fai notare un punto estremamente interessante ("a seconda del sistema di riferimento, una semplice somma
di numeri può dare risultati diversi; tuttavia uno e un solo risultato è quello giusto all'interno del singolo
sistema preso a riferimento").
Condivido assolutamente, e d'altronde questo è ciò che dice, in sostanza, la relatività (spesso, e a torto,
assolutizzata).
Tuttavia, io credo, quando si passa ad argomenti che non considerano "numeri", o quantomeno tesi scientifiche,
ma considerano l'"uomo", in tutte le sue sfumature, le cose si complicano notevolmente.
Ad esempio: come considerare l'etica in riferimento a quanto la relatività afferma? Tu dici che deve valere
lo stesso discorso; e quindi, presumo, assumeresti una certa prospettiva etica, non un'altra, come quella
prospettiva all'interno della quale (e solo all'interno della quale) un certo principio assume la veste di
"vero".
Fino a questo punto posso condividere. Ma non senza una annotazione che ritengo importante: una certa prospettiva
etica nasce e si sviluppa in senso ad una certa cultura, ad una certa "weltanschauung". La cultura, ad esempio,
emersa all'interno della civiltà occidentale è, sempre più, una cultura volta alla auto-nomia dell'individuo.
Un individuo, dunque, che sempre più si auto-nomina (cioè si dà norme proprie, anche e soprattutto in materia
etica). Cioè un individuo che sempre più, nella sua singolarità, diventa "sistema di riferimento".
Ma, almeno per il momento, sospenderei questo discorso per passare oltre.
Non mi è molto chiaro ciò che intendi dire nel proseguimento di questo discorso. Da una parte, sembra, tu
intendi tener fermo il principio di "sistema di riferimento etico", ma dall'altra sembri quasi voler tratteggiare
una specie di sistema "privilegiato".
Ritengo degno di nota il tuo riferirti a quello che Habermas chiama "agire comunicativo" (che contrappone all'
agire strumentale). E che d'altronde già era stato preceduto dal celebre atteggiamento di Socrate, il quale
parla di porsi in una condizione di "convincibilità".
A mio avviso però, tesi di questo tipo (che sono apprezzabili comunque) sbattono irrimediabilmente contro il
muro rappresentato dal solidificarsi di posizioni etiche contrapposte, e dunque dialetticamente irrisolvibili
(Socrate, alla fine, non è convinto dalle tesi di Critone, come il fondamentalista religioso non sarà mai
convinto dalle tesi "razionali").


Capisco perfettamente che la mia tesi può sembrare fin troppo positiva e che si evince la possibilità di una via privilegiata, cosa che fa paura addirittura a me che ve lo dico. Non dovete pensare che affermi queste cose con leggerezza, come se fosse scontato; però devo dire che in questo momento del percorso di studi, soprattutto dopo una riflessione sull'ermeneutica filosofica, passado da libri quali "utopia del comprendere" a tesi molto più positive, mi stò convincendo di ciò che ho esposto, anche grazie all'ultimo libro che ho studiato (in cui molto si citava Habermas; caro Oxd. hai la vista lunga tu).

Il motivo per cui si evince dal mio discorso il riferimento ad un sistema privilegiato è che credo che siamo inseriti in un sistema/universo fatto in un certo modo, la qual cosa deve aprire la via ad un muoversi in esso privilegiato, che tenga conto del suo essere specifico. Se questo discorso è palesemente vero quando si parla di tecnica è giusto cercare di capire se in fatto di etica sia lo stesso. Ma io vedo che, almeno ad un certo livello, anche in etica si discute e si cerca di far valere il proprio punto di vista, come se fosse possibile mostrare una via privilegiata. Poi quando una discussione sull'etica si fa più sottile diventa difficile argomentare, soprattutto si affermano cose difficilmente dimostrabili, come accade in altre discipline della conoscenza.
Il bello è che forse non ci rendiamo conto di quanto l'etica sia avanzata nel tempo, di pari passo con altre discipline. A farci caso dei precetti di comportamento collettivi vengono fatti esistere dalla legge, ora abbiamo anche i "diritti dell'uomo"; ma la cosa che ritengo più interessante è che queste leggi imperano, come nelle altre scienze, senza che vi sia una rigorosa interpretazione del motivo per cui sono così. Semplicemente nella storia alcuni imperativi si sono fatti valeri (ma nel passato soprattutto con interpretazione ontologica/metafisica/teologica del loro senso intrinseco, per esempio, col cristianesimo, il perché è sbagliato "non uccidere"). Cioè, la scienza ad oggi avanza senza dire che ciò che trova è vero, cioè che la realtà in sé è come ce la descrive; se si descrive il moto di una particella con una legge probbilistica, ognuno di noi è abbastanza libero -per ora- di interpretare quella descrizione matematica come libertà della particella, meccanismo determinato non ancora individuato, o caso ontologico; allo stesso modo noi abbiamo delle leggi in grado di gestire il nostro operato (che è anche lo scopo dell'etica), ma siamo abbastanza liberi -per ora- di interpretarne la validità intrinseca con elaborazioni metefisiche/ontologiche/teologiche/ecc. .
È così che cerco di comparare questa disciplina alle altre, di modo che, come nelle altre, si possa ammetterne la sensatezza contro la totale arbitrarietà (cioè pure un avvicinamento di certe posizioni ad una sorta di "verità", seppure relativa). Ovviamente, se si riuscisse a trovare una pozione univoca in fatto di "interpretazione metafisica", sia nella scienza che in etica, avremmo la strada spianata; credo infatti che questa "interpretazione metafisica" sia semplicemente una conoscenza difficile da "dimostrare" (vuoi per complessità dei concetti che vorrebbe descrivere e tramite cui si descrive il reale, vuoi per impossibilità tecniche di verifica attuali).
Mi si potrebbe contestare che le ragioni dell'etica coincidono con l'interpretazione della scienza (compresa la "scienza" o l'insieme di tecnicismi tramite cui si cerca di gestire la cooperazione della massa -le leggi-) e che dunque i piani sono effettivamente separati (per es. la fisica ti calcola il moto della particella, l'etica suppone che quello spostamento derivi da una volontà libera e quindi che la gente sia responsabile di ciò che fa; oppure la legge ti dice che è sbagliato uccidere, l'etica utilitarista afferma che è meglio che non uccidi altrimenti ci sono più probabilità di essere ucciso a tua volta). Questo non vuol dire (se ciò che ho scritto sopra circa il senso dell'interpretazione metafisica è vero) che le interpretazioni della scienza non siano passibili di verifica/disquisizione, né che siano inutili a livello di tecnicismi stessi; né che questo interrogarsi sull'etica si debba scontrare col muro della diversità inconciliabile (a causa dell'indimostrabilità e della credenza sconsiderata in uno a caso degli assiomi da cui si potrebbe partire) e così rendersi inutile.


Infine, da un lato si può riconoscere la diversità etica di diverse popolazioni, ma non possiamo neanche fare finta che non si stia compiendo un processo con esito opposto. Ora non è che io sia a favore della globalizzazione nel modo in cui si stà attualizzando, ma sono certo a favore della ricerca di un dialogo con l'altro. E in questo sono ottimista, come spiegavo anche a Maral, io credo che possiamo portare effettivamente le nostre credenze al pubblico e regionare sulla loro sensatezza anche oltre qualsiasi pessimismo ermeneutico e logico (se non in breve tempo, almeno lentamente, con pazienza).

Ultima modifica di Aggressor : 08-10-2013 alle ore 09.04.33.
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Vecchio 07-10-2013, 14.52.20   #99
maral
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Originalmente inviato da Aggressor
Maral:
Non so, ma mi pare che invocare la capacità di mettere in discussione i principi fondanti di un campo di senso, che alla fine si traduce in un mettere in discussione i principi fondanti del campo di senso altrui in nome della superiorità del proprio (e mi pare che gli esempi che porti vadano non a caso tutti in questa direzione) sia una soluzione fallimentare in partenza e già infinite volte inutilmente percorsa.

Sapevo che quella frase poteva creare una interpretazione di questo genere rispetto a ciò che volevo dire. Mi vergognerei di pensare cose del genere. Non voglio sopraffare l'altro con la mia visione, voglio solo dicutere per inglobare quella dell'altro e permettere all'altro di fare lo stesso. In questo modo si arriverà ad un accordo presumibilmente (non imposto con la forza! ma nel senso di una comprensione dell'altro), se non si afferma (come certe correnti ermeneutiche fanno) che il dialogo non può portare a molto, che la comprensione dell'altro alla fine è impossibile. Con gli esempi volevo mostrare che certi sistemi teologici/ontologici sono da noi esclusi e non senza ragioni, e che queste ragioni si possono esprimere davvero, non sono incomunicabili. Anche gli assiomi a cui ti sei riferito, come nelle scienze, possono essere discussi oppure accettati per evidenza se risultano così lampanti. Ma se a qualcuno non sembreranno così lampati potrà benissimo esporre le sue ragioni e gli altri, se non sono volontariamente di parte, potranno capire se quello che dice ha senso.


è possibile che questo processo di comprensione non sia immediato; noi stessi su questo forum difficilmente cambiamo opinione (ma a volte accade), ciò non vuol dire che il processo non avrà sviluppo e compimento. Non possiamo fossilizzarci sugli assiomi delle vare ontologie, nessuno prende per veri questi assiomi senza rifletterci sopra, secondo me anche essi hanno modo di essere rivisti ed essere oggetto di dibattito e comprensione.
Ricordo di aver letto di un gioco zen che può essere di aiuto a tale scopo. Si tratta di entrare nella discussione assumendo il punto di vista con cui si è in conflitto e provando a difenderlo con convinzione. In tal modo si comincia a renderselo meno alieno scogendone i punti anche per sé positivi (e a incrinare l'arroganza del proprio io che è chiamato per gioco a recitare fedelmente l'altro). Temo però non sia per nulla facile.
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Vecchio 08-10-2013, 01.06.48   #100
and1972rea
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Originalmente inviato da 0xdeadbeef
@ And1972rea e Aggressor
Una volta affermato questo, dovremmo chiederci: se nascere significa sorgere da un qualcosa che non può essere
il Nulla, e se morire significa tornare ad un qualcosa che "è qualcosa", questo ci dà la licenza di negare
il divenire? Come è possibile (per usare un'immagine assai orrida di Tolstoj) equiparare un bambino giocoso
ad un corpo coperto di vermi? Com'è pensabile, se non come estrema "cura", non pensare a questi due stati di un
corpo come ad un radicale divenire-altro?
Ecco, il nichilismo "equipara" solamente il corpo coperto di vermi al Nulla. Non c'è, in esso, nessuna pretesa
ontologica di non-contraddirsi; la sua equiparazione è meramente esistenziale.
...
Io sono dell'idea che la coerenza logica di Severino si spinga inevitabilmente oltre la constatazione della ragione; quella triste visione di un corpo ricoperto dai vermi , isolato dal Tutto , e guardato e sezionato dalle false credenze dello scientismo nullifero, astratto ed estorto, strappato dal mondo e dalla vita ,quel corpo rimane una conseguenza ineluttabile e mortifera della falsa credenza nel divenire, un'apparenza spaventosa e inconsistente generata dall'invenzione del "Nulla". Nella realta' il bimbo giocoso ed il suo corpo esanime sono stati, sono e saranno per sempre la stessa cosa, non sono mai stati altro, null'altro che singoli fotogrammi di una unica pellicola che ne contiene il senso vero, il quale senso non puo' che essere vita ,poiche' non puo' che essere il senso di cio' che esiste.Che quel bambino fosse confinato soltanto in un certo spazio ed in un certo tempo e' un'illusione creata dal mito dello scientismo occidentale; quali popoli in quale tempo e luogo dell'umanita' hanno mai potuto inventarsi simili fantasie mortifere? ...ai tempi d'oggi siamo rimasti gli unici , qui in Europa soprattutto, a credere veramente a cio' che ci dice la tecnica e lo scientismo soggiogato ad essa.
and1972rea is offline  

 



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