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Vecchio 05-04-2014, 01.18.42   #1
arsenio
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Il mito della caverna

Il mito della caverna

Per la serie di conferenze “Il filosofo come maestro nella polis” il primo incontro è proposto da un ricercatore di Etica sociale di Padova ( Fabio Grigenti, Trieste, Palazzo Gopcevich). Espone l'argomento con un linguaggio semplice: infatti per lui la filosofia deve essere uno strumento di comunicazione a tutti accessibile.
A quei tempi tale voce nella piazza era scomoda e provocatoria in quanto interpretava problemi e saperi con uno sguardo lungimirante e critico. Eppure tale ricerca filosofica era rilevante per la vita dei cittadini e della comunità politica. Rappresentava inoltre un'etica estranea ad autorità religiose.
Parla dello scopo di far raggiungere la perfezione con l' educazione e la giustizia: elementi indispensabili per la collettività.*

Riporta il “mito della caverna” di Platone: ci sono prigionieri che voltano la schiena all'uscita e vedono solo il riflesso di ombre che arrivano dall'apertura, ma non ne conoscono l'origine, cioè la verità sul loro essere. Così sono costretti a credere in un falso simulacro della realtà. Uno solo riesce a vedere cosa sono quelle ombre, ma ora che detiene tale conoscenza non è felice perché non dimentica la sua precedente condizione di ignoranza e perché ha compassione dei suoi compagni che sono ignari come lui prima. Non riesce a godere di questa rivelazione che coinvolge solo lui, e ha pietà di chi è rimasto all'oscuro. Quindi il motivo che induce qualcuno a essere maestro di altri è che diventi come lui consapevole: questo è il vero filosofo e le ragioni del suo ruolo di far luce anche nelle menti altrui. Per una conoscenza che non può essere mai conclusa, ma è tensione per salire ancora e ancora, man mano che noterà carenze nel suo stesso sapere: è un processo infinito.*

“Il mito della caverna” diventa una metafora :chi è abituato a vivere nel buio non accetta la luce, non crede, oppone quello in cui egli crede. Deride chi rivela l'errore, lo tratta da matto fino a ucciderlo. Nessuno dei prigionieri vuole conoscere, stanno bene così, radicati nelle loro abitudini. Lui non può farci nulla, nemmeno fuggire dalla polis perché da cittadino deve rispettare le leggi. Deve accontentarsi di essere l'unico depositario di questa verità e considerare questo privilegio limitato a un senso personale da dare alla sua vita.
Eppure all'esigenza di etica' sociale non ci sono alternative nemmeno oggi perché nulla è cambiato nei secoli.


°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°° °°°°°°°°°


Che il senso della filosofia sia questo? L'a - letheia che toglie i veli di Maya? A tal proposito è da citare pure Socrate che attraverso incalzanti interrogativi, fa ammettere al suo interlocutore le sue contraddizioni. La “verità” a cui può seguire un cambiamento non viene imposta, ma è un processo maieutico a cui si deve arrivare da soli,accettando il metodo dialogico e dialettico. Senza rifiutare fonti orali o scritte autorevoli che inducono a un confronto tra più visioni della vita.

Ma tale premessa a uno spontaneo cambiamento non sono oggi peculiari della sola filosofia. Infatti anche le terapie che si appoggiano sulla parola inducono a più ampie visioni e non in modo direttivo. A volte anche per uscire dalla gabbia di una propria “normalità”, per una libera crescita personale. In quanto alla ricerca del perché si preferisca restare nelle tenebre, e/o si tacitano certe voci demistificatorie, a volte con la violenza, possono esserci varie motivazioni anche molto diverse tra di loro, su cui si può indagare.
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Vecchio 07-04-2014, 12.22.01   #2
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La “verità” a cui può seguire un cambiamento non viene imposta, ma è un processo maieutico a cui si deve arrivare da soli,accettando il metodo dialogico e dialettico. Senza rifiutare fonti orali o scritte autorevoli che inducono a un confronto tra più visioni della vita.
Per liberare dalle virgolette la verità propongo di concepirla come adattamento: il formarsi in funzione del contesto considerato (che può essere più o meno ampio ma sempre specifico).
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Vecchio 07-04-2014, 14.50.45   #3
paul11
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Il mito della caverna

Per la serie di conferenze “Il filosofo come maestro nella polis” il primo incontro è proposto da un ricercatore di Etica sociale di Padova ( Fabio Grigenti, Trieste, Palazzo Gopcevich). Espone l'argomento con un linguaggio semplice: infatti per lui la filosofia deve essere uno strumento di comunicazione a tutti accessibile.
A quei tempi tale voce nella piazza era scomoda e provocatoria in quanto interpretava problemi e saperi con uno sguardo lungimirante e critico. Eppure tale ricerca filosofica era rilevante per la vita dei cittadini e della comunità politica. Rappresentava inoltre un'etica estranea ad autorità religiose.
Parla dello scopo di far raggiungere la perfezione con l' educazione e la giustizia: elementi indispensabili per la collettività.*

Riporta il “mito della caverna” di Platone: ci sono prigionieri che voltano la schiena all'uscita e vedono solo il riflesso di ombre che arrivano dall'apertura, ma non ne conoscono l'origine, cioè la verità sul loro essere. Così sono costretti a credere in un falso simulacro della realtà. Uno solo riesce a vedere cosa sono quelle ombre, ma ora che detiene tale conoscenza non è felice perché non dimentica la sua precedente condizione di ignoranza e perché ha compassione dei suoi compagni che sono ignari come lui prima. Non riesce a godere di questa rivelazione che coinvolge solo lui, e ha pietà di chi è rimasto all'oscuro. Quindi il motivo che induce qualcuno a essere maestro di altri è che diventi come lui consapevole: questo è il vero filosofo e le ragioni del suo ruolo di far luce anche nelle menti altrui. Per una conoscenza che non può essere mai conclusa, ma è tensione per salire ancora e ancora, man mano che noterà carenze nel suo stesso sapere: è un processo infinito.*

“Il mito della caverna” diventa una metafora :chi è abituato a vivere nel buio non accetta la luce, non crede, oppone quello in cui egli crede. Deride chi rivela l'errore, lo tratta da matto fino a ucciderlo. Nessuno dei prigionieri vuole conoscere, stanno bene così, radicati nelle loro abitudini. Lui non può farci nulla, nemmeno fuggire dalla polis perché da cittadino deve rispettare le leggi. Deve accontentarsi di essere l'unico depositario di questa verità e considerare questo privilegio limitato a un senso personale da dare alla sua vita.
Eppure all'esigenza di etica' sociale non ci sono alternative nemmeno oggi perché nulla è cambiato nei secoli.


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Che il senso della filosofia sia questo? L'a - letheia che toglie i veli di Maya? A tal proposito è da citare pure Socrate che attraverso incalzanti interrogativi, fa ammettere al suo interlocutore le sue contraddizioni. La “verità” a cui può seguire un cambiamento non viene imposta, ma è un processo maieutico a cui si deve arrivare da soli,accettando il metodo dialogico e dialettico. Senza rifiutare fonti orali o scritte autorevoli che inducono a un confronto tra più visioni della vita.

Ma tale premessa a uno spontaneo cambiamento non sono oggi peculiari della sola filosofia. Infatti anche le terapie che si appoggiano sulla parola inducono a più ampie visioni e non in modo direttivo. A volte anche per uscire dalla gabbia di una propria “normalità”, per una libera crescita personale. In quanto alla ricerca del perché si preferisca restare nelle tenebre, e/o si tacitano certe voci demistificatorie, a volte con la violenza, possono esserci varie motivazioni anche molto diverse tra di loro, su cui si può indagare.


E' sicuramente importante il metodo dialogico, ma attenzione la verità non è un procedimento democratico. Intendo dire che non è il risultato della media delle verità; ad esempio per alzata di mano 10 persone decidono a maggioranza quale sia la verità. Il rischio è che si condivide a maggioranza una "mezza"verità , dequalificandola dal valore di verità.
Nel bell'esempio del mito della caverna è quell'uno che capisce ,ma non può condividere, perchè il suo problema è come comunicarlo.
Ci deve sempre essere un metodo parametrale condiviso al di sopra delle soggettività, il difficile è stabilire questo metodo epistemologico, tanto più l'argomento sfugge alla metodica scientifica o quantomeno statistica(la percentuale di predittività di un fenomeno).
Se non c'è vincono la dialettica e la retorica e cioè le arti del contendere e del persuadere
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Vecchio 08-04-2014, 08.32.23   #4
arsenio
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Originalmente inviato da z4nz4r0
Per liberare dalle virgolette la verità propongo di concepirla come adattamento: il formarsi in funzione del contesto considerato (che può essere più o meno ampio ma sempre specifico).



Sono d'accordo, premessa essenziale è che il concetto di verità muta a seconda del contesto disciplinare:

Verità assoluta desunta dalle Scritture Rivelate, dogmatica

Verità scientifica, oggettiva se soddisfa le esigenze di ripetibilità.
Sempre aperta, mai definitiva, suscettibile di revisioni in vista di future falsificazioni (Filosofia della scienza). Decisa da un consesso di studiosi esperti riconosciuti in tutto il mondo

Verità filosofica attraverso un confronto dialogico. Si sostiene sull'arte del saper argomentare. Valutando di pensiero discorsivo altrui, ( vedi la retorica aristotelica sempre citata per la verifica delle fallacie tramite la logica non formale).

In quanto alla “verità” posso levare le virgolette,ma dobbiamo sottintendere, che alla luce anche delle recenti dispute tra realisti e non -realisti, esiste solo una verità virgolettata, non avendo noi il punto di vista di Dio vale soltanto la “massima evidenza possibile” e sempre nell'ambito fenomenologico.

arsenio
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Vecchio 08-04-2014, 08.37.45   #5
arsenio
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E' sicuramente importante il metodo dialogico, ma attenzione la verità non è un procedimento democratico. Intendo dire che non è il risultato della media delle verità; ad esempio per alzata di mano 10 persone decidono a maggioranza quale sia la verità. Il rischio è che si condivide a maggioranza una "mezza"verità , dequalificandola dal valore di verità.
Nel bell'esempio del mito della caverna è quell'uno che capisce ,ma non può condividere, perchè il suo problema è come comunicarlo.
Ci deve sempre essere un metodo parametrale condiviso al di sopra delle soggettività, il difficile è stabilire questo metodo epistemologico, tanto più l'argomento sfugge alla metodica scientifica o quantomeno statistica(la percentuale di predittività di un fenomeno).
Se non c'è vincono la dialettica e la retorica e cioè le arti del contendere e del persuadere
Come comunica “l'uomo che sa?”

Oggetto ne è il ragionevole, non il razionale puro, il verosimile, non il vero, il probabile, non il certo. ( cito ancora la logica non formale)
Ci si propone come interlocutori informativi e veritieri, non volendo ottenere ragione a ogni costo.
Fondata su premesse, disambiguazioni semantiche; non presumere a priori che l'interlocutore attribuisca a un termine il nostro stesso significato.
Evitare domande insensate che suscitano risposte altrettanto prive di senso .
Evitando conflitti insanabili, come discutere sul valore dell'uomo con chi è convinto sulla supremazia di Dio.
Non hanno spazio verità eterne, ma opinioni verificabili, distinguere tra fatti, opinioni, regole, giudizi, supposizioni, generalizzazioni.

La dialettica strumentale che ha per scopo il solo ottenere ragione si chiama eristica. Tecnica di confutazione sottile ma senza tener conto della verità o falsità di ciò che si espone.
Socrate si batté contro i sofisti che erano gli avvocati dell'epoca, a cui contrappose il suo metodo “interrogante”, senza mai opporre una verità indiscutibile, ma soltanto domande con lo scopo di far emergere contraddizioni.

arsenio



Oggi è uscito il 22° volume di Filosofia antica per spiriti moderni", in edicola col Sole:
"La conoscenza e il mito della caverna" di Platone.
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Vecchio 14-04-2014, 02.35.03   #6
green&grey pocket
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ci vorrebbe una lettura sistematica di platone per poterlo capire davvero.

ciò detto, scrivo solo alcuni spunti che fanno da risposta e chiedono ulteriore domanda.

il vero come svelamento all'inizio del poema sulla natura è la stessa filosofia, essa è il ponte fra dio e il mondo.

Lo svelamento non è di per se la verità per la filosofia greca, è solo lo strumento per iniziare il cammino vero la "vera verità" che per platone almeno secondo Reale è il sommo bene.
Per aristotele sarà la felicità nel sommo bene.

La verità dogmatica e cioè quella rivelata, è un atto di fede, non lo vedo come un problema, se non che nell'ambito che questo atto di fede nasca una comunità, e si formini ulteriori dogmi di natura temporale, più che spirituale.

La verità che dipende dagli eventi è una verità fenomenica che non dipende più dai fenomeni.
E' una verità ugualmente dogmatica che forma ulteriori dogmi di natura temporale in cui la spiritualità è totalmente dimenticata.

la verità come svelamento è oggi applicato come disambiguazione semantica, e penso sia il termine più vicino al sentire contemporaneo.
La disambiguazione viene spesso fraintesa come identità o peggio come proprietà, sorta di dogma feticcio di questo tempo storico, che non ha nulla di spirituale.

In generale il tempo greco e non solo sapeva che la verità è legata indissolubilmente alla spiritualità, oggi no.

Se qualcuno mi viene a dire che sono incatenato nella caverna mi vien da ridere.
L'illusione o maya o magia non cambia il fatto che quand'anco capiti noi si sia in un mondo temporale.

cave canem!
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Vecchio 15-04-2014, 12.18.07   #7
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Sono d'accordo, premessa essenziale è che il concetto di verità muta a seconda del contesto disciplinare:

Verità assoluta desunta dalle Scritture Rivelate, dogmatica

Verità scientifica, oggettiva se soddisfa le esigenze di ripetibilità.
Sempre aperta, mai definitiva, suscettibile di revisioni in vista di future falsificazioni (Filosofia della scienza). Decisa da un consesso di studiosi esperti riconosciuti in tutto il mondo

Verità filosofica attraverso un confronto dialogico. Si sostiene sull'arte del saper argomentare. Valutando di pensiero discorsivo altrui, ( vedi la retorica aristotelica sempre citata per la verifica delle fallacie tramite la logica non formale).

In quanto alla “verità” posso levare le virgolette,ma dobbiamo sottintendere, che alla luce anche delle recenti dispute tra realisti e non -realisti, esiste solo una verità virgolettata, non avendo noi il punto di vista di Dio vale soltanto la “massima evidenza possibile” e sempre nell'ambito fenomenologico.

arsenio

La mia proposta è ancor più radicale. Come per ogni concetto il significato di 'verità' è determinato dal suo uso e il suo uso è a sua volta determinato dalla storia del suo uso in relazione a nuovi contesti. Osservo che, nella misura in cui è demistificato, l'uso che facciamo di 'verità' tende a coincidere con l'uso che facciamo del concetto di adeguatezza (relativa ad un contesto più o meno ampio, più o meno parziale o comprensivo). In quest'ottica "verità assoluta" starebbe a significare adeguatezza slegata da qualsivoglia contesto, adeguatezza a nulla di specifico, nessuna specificazione/determinazione contestuale; adeguatezza in nessun modo determinata; adeguatezza in sé e per sé; in altre parole il formato in funzione di ... 'nessuna specificazione'. Il formarsi in sé e per sé, in funzione di null'altro che sé: spontaneità, auto-determinazione, auto-specificazione, auto-oggettivazione.

Ma nell'uso più comune verità e falsità sono qualità che attribuiamo alle nostre credenze o a proposizioni.
Una credenza è una disposizione che possiamo dire 'mentale' o di 'alto livello (o 'strato')' del nostro organismo (o sistema cognitivo o sistema adattivo o sistema di funzioni adattive naturalmente selezionate, accumulate e organizzate in base alla reciproca compatibilità)*. In altre parola una credenza è un approccio, una preparazione, un'attesa nei confronti di un 'oggetto'**. Così una credenza 'vera' può essere intesa come una disposizione adatta al contesto (o meglio sarebbe vera nella misura in cui è adatta). (Una proposizione, invece, è la proposta di una disposizione 'mentale').
Esempio: credo 'x' riguardo a 'y'. La mia credenza/disposizione 'x' è vera in relazione al contesto 'y' nella misura in cui è adatta a quel contesto, ovverosia nella misura in cui si è formata in funzione di quel contesto o, detto in altra maniera, è evoluta in quel contesto (o insieme a quel contesto).

* Cioè di quelle disposizioni che regolano, in maniera olistica, un comportamento complessivo (viceversa il comportamento 'locale' è 'subconscio' o meglio 'subconscio' nella misura in cui è locale, anche se in fondo direi che ogni luogo ha la sua co-'scienza', intesa come sintesi tra funzioni/processi/sensazioni cognitive/adattive. Ognuna di queste funzioni partecipa nel determinare un orientamento complessivo che è appunto la suddetta sintesi; su questo aspetto non c'è differenza tra livelli di elaborazione, non essendoci, in fondo tra di essi né capo né coda).
In una prospettiva analitica possiamo in effetti considerare il nostro organismo come un complesso di funzioni reciprocamente adatte, stratificate, che emergono le une dalle altre, che si sostengono a vicenda dando luogo ad una complessissima simbiosi funzionale.

** Oggetto inteso in generale come 'qualcosa', una diversità rilevante, ovvero una differenza contestuale che ha un ruolo non trascurabile nel determinare la sorte del nostro sistema cognitivo/adattivo/concettuale; qualcosa che dunque cattura l'attenzione.
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Vecchio 24-04-2014, 13.59.20   #8
arsenio
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Riferimento: Il mito della caverna

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ci vorrebbe una lettura sistematica di platone per poterlo capire davvero.

ciò detto, scrivo solo alcuni spunti che fanno da risposta e chiedono ulteriore domanda.

il vero come svelamento all'inizio del poema sulla natura è la stessa filosofia, essa è il ponte fra dio e il mondo.

Lo svelamento non è di per se la verità per la filosofia greca, è solo lo strumento per iniziare il cammino vero la "vera verità" che per platone almeno secondo Reale è il sommo bene.
Per aristotele sarà la felicità nel sommo bene.

La verità dogmatica e cioè quella rivelata, è un atto di fede, non lo vedo come un problema, se non che nell'ambito che questo atto di fede nasca una comunità, e si formini ulteriori dogmi di natura temporale, più che spirituale.

La verità che dipende dagli eventi è una verità fenomenica che non dipende più dai fenomeni.
E' una verità ugualmente dogmatica che forma ulteriori dogmi di natura temporale in cui la spiritualità è totalmente dimenticata.

la verità come svelamento è oggi applicato come disambiguazione semantica, e penso sia il termine più vicino al sentire contemporaneo.
La disambiguazione viene spesso fraintesa come identità o peggio come proprietà, sorta di dogma feticcio di questo tempo storico, che non ha nulla di spirituale.

In generale il tempo greco e non solo sapeva che la verità è legata indissolubilmente alla spiritualità, oggi no.

Se qualcuno mi viene a dire che sono incatenato nella caverna mi vien da ridere.
L'illusione o maya o magia non cambia il fatto che quand'anco capiti noi si sia in un mondo temporale.

cave canem!


Non occorre una lettura sistematica di Platone, tanto è noto ed emblematico
l'episodio della caverna.

Il discorso nel nostro caso non intende dilungarsi, spesso a vuoto, su cosa è o non è la "verità" o sul bene assoluto secondo Platone o Aristotele.

Qui un testimone diretto scopre, uscendo dalla caverna, a cosa corrispondono le ombre che vedono, quelle precise ombre.
Vuole condividere la sua conoscenza con i compagni, ma questi lo uccidono perché non vogliono conoscere cosa sono quelle ombre. L'uomo preferisce restare nell'ignoranza.

Le sperimentazioni fenomenologiche ripetibili, mai definitive, riverificabili nel tempo senza limiti,senza pretesa di assolutezza, con ricerca non di conferme ma di disconferme ( cfr. Popper,filosofo della scienza) sono quanto più lontane dal dogma. Come dici, senza disambiguazione semantica il discorso si ferma qui: abbiamo concezioni troppo diverse di "dogma".

Nessuno si sente incatenato alla caverna, che tra l'altro è metaforica.
Oggi può significare arroccarsi nelle proprie ideologie, credenze, rifiutando verifiche, apporti che non siano soltanto autoreferenziali. Crogiolarsi tranquilli nella propria ignoranza, perché certe conoscenze possono inquietare.

arsenio
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Vecchio 05-05-2014, 12.32.11   #9
CVC
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Il discorso può essere di estrema attualità se si usa il mondo dei social network come metafora del mondo delle ombre. E' la società di oggi dei selfie, degli addescamenti in rete, delle relazioni che si sostengono sugli sms.
In tutto questo, così come la cultura scritta ai tempi di Platone appariva più debole - nonostante l'estensione tecnologica che rappresentava - della cultura basata sull'oralità e sul dialogo, allo stesso modo il più seducente mondo virtuale è meno solido del mondo concreto
l'interazione umana non può essere un mero scambio di caratteri o di immagini o di filmati
L'uomo che si trova a suo agio nelle ombre è l'uomo che rinuncia a farsi domande sulle cose, che si lascia guidare dagli archetipi che l'evoluzione ha posto nella sua genia, che obbedisce semplicemente alle esigenze della specie: istinto di sopravvivenza, riproduzione, difesa della prole
Se si vuole considerare l'uomo come un qualcosa di nettamente differente da tutte le altre cose della natura, bisogna tornare a riflettere sul logos, inteso come sintesi di ragione e verbo. La ragione e il verbo sono due parti di un meccanismo complementare che si esplica solamente mediante i rapporti umani, il dialogo.
L'uomo delle ombre, come l'uomo dei social network, si accontenta di ciò che vede, ma se la natura ama nascondersi....

Ultima modifica di CVC : 05-05-2014 alle ore 21.33.36.
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Vecchio 09-05-2014, 14.16.00   #10
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Il discorso può essere di estrema attualità se si usa il mondo dei social network come metafora del mondo delle ombre. E' la società di oggi dei selfie, degli adescamenti in rete, delle relazioni che si sostengono sugli sms.
In tutto questo, così come la cultura scritta ai tempi di Platone appariva più debole - nonostante l'estensione tecnologica che rappresentava - della cultura basata sull'oralità e sul dialogo, allo stesso modo il più seducente mondo virtuale è meno solido del mondo concreto
l'interazione umana non può essere un mero scambio di caratteri o di immagini o di filmati
L'uomo che si trova a suo agio nelle ombre è l'uomo che rinuncia a farsi domande sulle cose, che si lascia guidare dagli archetipi che l'evoluzione ha posto nella sua genia, che obbedisce semplicemente alle esigenze della specie: istinto di sopravvivenza, riproduzione, difesa della prole
Se si vuole considerare l'uomo come un qualcosa di nettamente differente da tutte le altre cose della natura, bisogna tornare a riflettere sul logos, inteso come sintesi di ragione e verbo. La ragione e il verbo sono due parti di un meccanismo complementare che si esplica solamente mediante i rapporti umani, il dialogo.
L'uomo delle ombre, come l'uomo dei social network, si accontenta di ciò che vede, ma se la natura ama nascondersi....

La civiltà della fotocamera digitale, dell'immagine che sostituisce la parola e la realtà in diretta, la perdita del discorso logico-consequenziale, del pensiero complesso-strutturato, altra faccia del linguaggio,la solitudine dell'homo virtualis, sono temi che ho proposto quasi quindici anni fa. In parte reperibili qui in archivio.
Ora leggo sui quotidiani quasi giornalmente qualche articolo sugli effetti nefasti indotti dai medium tecnologici.

Tutto è stato detto e previsto in un saggio più volte ristampato del 2000:" La terza fase, le forme di sapere che stiamo perdendo", del linguista Raffaele Simone. Zigmunt Bauman è stata la voce più critica e autorevole su tale fenomeno in vari suoi saggi. Ho letto anche qualche saggio di studiosi Usa, alcuni tradotti in italiano.

E'pertinente attualizzare tale fenomeno di massa alla luce del mito della caverna. Soprattutto per quanto riguarda la svalutazione delle menti più lucide e lungimiranti, considerate "cattivi maestri", a cui qualcuno farebbe fare volentieri la fine dell'inquietante testimone dell'origine delle ombre.

Ho molto apprezzato il tuo intervento



arsenio
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