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Vecchio 22-10-2014, 10.49.52   #1
Patrizia Mura
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Fra fenomenico e trascendente, attraverso le possibili visioni ragioni modi e utilità

Fra fenomenico e trascendente, attraverso le possibili visioni ragioni modi e utilità per esplorarle: l'essere, il fenomeno, il divenire, la percezione, la conoscenza, realtà e metafisica, ci interroghiamo come e perché.


Per proseguire più liberamente negli scambi iniziati in altri 3D

"Che cose significano le parole?"
https://www.riflessioni.it/forum/...

ed anche
"Come far convivere razionalità e Spiritualità"
https://www.riflessioni.it/forum/...

apro questo.

Senza quotare troppo, inzio con l'ultimo scambio con Maral.

Citazione:
Originalmente inviato da maral
Patrizia bene, possiamo allora concludere che per implicazione logica se esiste una realtà indipendentemente dal percipiente allora esiste una realtà indipendente dal percepito (essendo il percepito solo risultato dell'atto di percepire del percipiente). Mi chiedo se Sgiombo si sia accorto della conclusione a cui siamo arrivati, perché allora mi pare diventi piuttosto problematico sostenere che esse est percipi. Ma anche qui finiremmo con l'andare fuori tema.


Percepire a me appare come - in primo luogo - un atto di relazione fra elementi che si influenzano, e - in secondo luogo - ad un grado più complesso, un atto di coscienza.

Due biglie che si scontrano, in qualche modo si reagiscono nello scontro, non so se posso chiamare questo "percepire", di sicuro nell'incontro/scontro si determineranno le nuove direzioni di entrambe.

Al contrario posso sedermi e compiere l'atto più semplice del mondo quello chiamato di "meditare" come descritto dal buddhadharma, un atto naturale, poso l'attenzione sul respiro e si determina una diminuzione del comune pensiero discorsivo generndosi uno stato di attenzione fluttuante di percezioni non filtrate e non elaborate dalla parola e dal pensiero discorsivo.
Nonostante la mia attenzione sia solo sul respiro percepisco eventi e mi limito alla pura percezione, vento sulla pelle, temperatura, odori, etc. senza che questo debba per forza produrre altre conseguenze salvo esserci.

Lo porto come alternativa alle biglie che si scontrano, e all'elaborare il teorema di pitagora o la teoria sulla relatività.

Detto ciò, non so cosa mi potrebbe - in astratto - impedire di ipotizzare la possibilità che

- "qualcosa" possa comunque esistere (non "è", ma semplicemente in qualche momento "c'è" in questo modo) pur senza essere in grado di percepire e percepirsi e senza avere altri percipienti possibili all'infuori di sè, e, ciò nonosante, essere soggetto ad una qualche forma di divenire ...

- ... e che si possa sviluppare un "percepirsi" solo in un secondo momento, proprio attraverso una frammentazione in parti che si relazionano e dunque iniziano a percepirsi l'un l'altra in questa dimensione di divenire e di relazionarsi.

Non dimostrabile, ma non dimostrabile neppure la sua negazione. Mi sento scettica sul fatto che qualcosa possa esistere o non, in dipendenza della possibilità umana di dimostrarlo.

Sto facendo astrazione molto "forte" ed ardita, sto facendo della metafisica (?!) - forse - e mi sposto da un piano puramente fenomenico ad un piano che definirei assai trascendentale...

... per piacere di farlo ... ma senza assumerne certezza, senza far decadere una cascata di conseguenze sul piano del mio quotidiano che continuerà a procedere secondo altri criteri.

Ipotesi "mushotoku", per usare un termine zen, cioè senza spirito di profitto, con un certo piacere di immaginare, ma poi dovrò presto smettere, per tanti motivi e ... andarmi a lavare la ciotola.

Su un piano molto terra terra quando inizio la vita percepisco assai poco, eppure esistono tante cose che non conosco, e che potrò o non potrò percepire direttamente o indirettamente.
Esperienza che facciamo tutti.

E per la dimostrabilità mi viene in mente il campo giudiziario dove si sa che è possibile, ed anche avvenuto più volte, che una grossa quantità di indizi abbiano condotto a reputare una colpevolezza, senza che la persona accusata potesse "dimostrare" la propria innocenza pur essendolo.

Può essere un not only so and/or not always so perhaps.

E non è sempre strettamente necessario che le cose constatate o ipotizzate debbano forzatamente avere delle ricadute.

Ipotizzare più possibilità potrebbe servire proprio a non crearsi convinzioni fisse, rigide ed inoppugnabili, certezze, così come "prediligere" in un certo momento una ipotesi ad un altra non impedisce delle fluttuazioni e dei ritorni, si può anche ritenere che si proceda -e che sia opportuno farlo o che non esistano possibilità più consone e congrue - seguendo criteri di probabilità e verosimiglianza accettando un certo limite in cui possa regnare anche una certa sospensione del giudizio e, quindi, in ultima istanza ancora una "incertezza" anche nonostante e quanto tutto appaia a prima vista perfettamente "logico", poiché nella fissità delle certezza forse si esaurisce un po' tutto, anche il processo del divenire che pure sembra contraddistinguere molto l'esistenza.

Forse per questo può risultare utile osservare da punti di vista opposti senza per questo che l'uno debba far troppo miscuglio con l'altro o prevalere, ovvero osservo dal punto di vista del mera realtà fenomenica e convenzionale (il fainomai, ciò che appare, che si manifesta) ed anche traccio una linea di demarcazione che mi ipedisca confusione e provo ad astrarmi dalla mia posizione per assumere un punto di vista esterno ed ipotizzare da lì, e posso chiamare questo punto di vista forse metafisico, forse trascendente (è infatti si va parecchio oltre), forse "realtà ultime", forse "essenza delle cose", il "punto di vista delle parti e il punto di vista del tutto", o altro.

Siccome però sono solo e sempre la parte e non il tutto, lo faccio per tener presente che esiste altro da me e che sono "parte", con una certa necessità di prudenza quando cerco di spostare la mia visuale in favore di una "altra", "aliena", che però non mi è tanto possibile avere realmente, e mantenere, e trovo che esista questa necessità di continuamente spostarsi ma anche per poi continuamente tornare e rientrare.

Allora potrei chiedere a Maral, come proseguirebbe dopo che abbiamo potuto concordare che qualcosa può esistere anche indipendentemente dalla percezione e quindi dal percipiente e dal percepito, e a green, sgiombio e tutti gli altri di riproporre le considerazioni già esposte negli altri 3D per poter proseguire.

In risposta al "per fede" rispondo con "ragionevole fiducia per quantità e qualità di probabilità e verosimiglianza" e in funzione di necessità.
Quando la visione non soddisfa più determinate necessità (e quali siano le necessità e quali sia opportuno perseguire e scegliere di avere o ascoltare e dar loro seguito fra tutte quelle percepite o indotte è un altro discorso collegato) qualcosa è cambiato ....

Forse per questo non amo troppo gli assiomi pietrificati come "esse est percipi" e dico ... buh!

Ma in diversi scambi abbiamo concordato.
E mi domando: questo avviene perché è veramente così?

Riguardo alle parole in filosofia, credo di ricordare che avevamo iniziato con Maral a parlarne.

Forse avevo iniziato con
il fiore che cresce dal cielo
il figlio di una madre sterile
e altri esempi che si potrebbero fare.

C'è questo problema che il pensiero può concepire cose a volte strane, e la parola ha un potere di suggestione, ovvero il fatto che lo posso dire o immaginare non significa che esiste, o perlomeno potrebbe cambiare radicalmente la modalità di esistenza.

(n.b. "figlio di una madre sterile" fu una rappresentazione concepita credo almeno un paio di millenni fa ... con tutto ciò che ne consegue).

Spero di non avervi annoiato troppo, ma tanto per conoscerci un po'.


Ultima modifica di Patrizia Mura : 23-10-2014 alle ore 09.07.25.
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Vecchio 22-10-2014, 11.46.27   #2
sgiombo
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Fra fenomenico e trascendente, attraverso le possibili visioni ragioni modi e utilità

Citazione:
Originalmente inviato da maral

bene, possiamo allora concludere che per implicazione logica se esiste una realtà indipendentemente dal percipiente allora esiste una realtà indipendente dal percepito (essendo il percepito solo risultato dell'atto di percepire del percipiente). Mi chiedo se Sgiombo si sia accorto della conclusione a cui siamo arrivati, perché allora mi pare diventi piuttosto problematico sostenere che esse est percipi. Ma anche qui finiremmo con l'andare fuori tema.


La realtà indipendente dal percepito, del quale (unicamente) "esse est percipi" é la cosa in sé o noumeno. Di questa (se é reale, cosa indimostrabile, che credo per fede), l' "esse est non percipi".
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Vecchio 25-10-2014, 20.03.45   #3
maral
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Riferimento: Fra fenomenico e trascendente, attraverso le possibili visioni ragioni modi e utilità

Volevo aggiungere un commento a questa riflessione che non è facile riportare a un tema unitario. Il centro di essa mi sembra il rapporto tra fenomenico (quindi percepito) e trascendente (oltre il percepito) e che io non vedo come un rapporto contrappositivo e sento bene quell'unità per cui il saggio buddista Mahayana dice che il nirvana è il samsara.
Il trascendente (e di questo ne abbiamo a lungo parlato con Sgiombo) è ciò che è percepito come non percepibile, ma non a mio avviso perché lo si definisce come tale, ma perché si percepisce che le cose percepite implicano proprio in quanto percepibili un non percepito, dunque il mondo fenomenico implica necessariamente il non percepito come suo limite. Abbiamo detto che se esiste una realtà indipendente dal percipiente, esiste per necessità una realtà indipendente dal percepito, Sgiombo l'ha identificata con la cosa in sé, ogni cosa è cosa in sé, dunque è una trascendenza. ma il suo essere in sé implica il suo essere per noi affinché possa essere per sé, ogni trascendente implica il suo fenomenico apparire nel piacere e nel dolore di chi lo percepisce senza pur tuttavia che questo apparire fenomenico possa esaurirsi. Ogni cosa in sé implica la sua fenomenologia,
Non è un caso che l'Oriente indichi in una meditazione che è puro accoglimento vigile e passivo del percepibile come la strada per cogliere il trascendente che ci comprende. E' un disinteressato mettersi in ascolto dei fenomeni per far sì che ciò che non appare come fenomeno tuttavia si manifesti nella sua più pura evidenza.
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Vecchio 25-10-2014, 20.55.59   #4
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Riferimento: Fra fenomenico e trascendente, attraverso le possibili visioni ragioni modi e utilità

Prima di tutto, un caro saluto a coloro che mi ricordano e coi quali ho avuto stimolanti discussioni.
Mi sembra interessante il discorso di Patrizia Mura. Anche per me sussiste una "ragionevole fiducia" che le cose,
gli oggetti, esistano al di fuori dei percepienti (naturalmente il verbo "ex-sistere" non è allo scopo adattissimo,
ma serve bene per capire).
Su questo ho discusso a lungo con Sgiombo (ciao, come stai?), e ancora, devo dire, continuo a non capire come
faccia a parlare di "fede". Mi sembra, a tal proposito, pertinente il riferimento di Patrizia al campo
giudiziario, appunto perchè quello dell'"indizio" è proprio l'argomento usato dalla semiotica, e da Peirce
in particolare; un argomento che può, perchè no, aiutarci ad "oltrepassare" quelli che giustamente Patrizia
definisce "assiomi pietrificati".
Oltrepassare come, cioè proseguire come, dopo che innumerevoli indizi ci portano ad avere una ragionevole
fiducia circa l'esistenza dell'oggetto indipendentemente dal soggetto che lo percepisce? Ecco, io qui inquadrerei
il termine "trascendenza" in un senso meno generico; un senso, direi, kantiano o più ancora heideggeriano.
Un soggetto che, dunque, trascende "in direzione" dell'oggetto. Che lo "svela", potremmo dire usando una
terminologia non certo moderna.
Ma lascio a voi la parola.
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Vecchio 26-10-2014, 02.21.06   #5
Aggressor
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Patrizia Mura, in realtà non credo che sia necessario né opportuno postulare l'esistenza della cose non percepite.
Quello che chiami "altre cose" potrebbe essere "la stessa cosa" da un punto di vista diverso (il che ti semplificherebbe il problema di dividerti nettamente dal resto delle cose) e ad ogni punto di vista potrebbe corrispondere una certa percezione.

Quando Maral dice che qualcosa ci sfugge per me questo non significa che c'è qualcos'altro che non conosco, che c'è qualche ente che non rientra nei miei fenomeni e magari, in generale, nel fenomenico, ma solo che conosco in un certo modo (il mio punto di vista) una certa cosa (anche l'universo volendo). Cioè, modificando leggermente il modo di esprimersi da quello convenzionale sembra plausibile poter affermare: non è che ci sono tanti enti che non vedo, piuttosto ce n'è uno che osservo in un certo modo (infatti, per esempio, non è che prima di sapere cos'è la luce -in quanto fascio di fotoni- non si conosceva la luce, la si vedeva, la si conosceva così, attraverso la vista). Ovviamente anche "il mio punto di vista" non è che un certo modo di conoscere la stessa cosa (magari l'universo) e non di per sé, separatamente, qualcosa (cosa sarebbe la mia opinione senza quella altrui..?).


Non dico che l'unica cosa che esiste è la mia percezione perché non c'è un Io separato. Non dico che esiste solo ciò che gli umani (o "le varie forme di vita") percepiscono, perché non troveremo mai la ghiandola pineale o il processo specifico che crea la coscienza dall'inanimato (il divario tra una possibile sostanza cosciente e una incosciente non si può colmare).


Non mi serve una realtà oggettiva per spiegare la stabilità del reale: quando non guardo "io" la luna essa è osservata "dagli altri" enti ed esiste nel loro "percepi" (da qual punto di vista e in quel modo, non certo come ciò che vedrei se la osservassi personalmente), con cui devo relazionarmi perché "io" non sono indipendentemente dagli altri, non sono una monade chiusa, un universo a sé.
Per questo studiamo "fisicamente" (quando lo studio è concentrato verso sistemi poco complessi; la materia comune) come "psicologicamente" (quando lo studio è concentrato su sistemi molto complessi; la materia cerebrale ad esempio) il punto di vista degli altri; ma questi nomi (fisica, psicologia, ecc.) non sono che definizioni convenzionali, si tratta sempre di comprendere materia più o meno complessa/cosciente (sto avallando una simmetria tra complessità e coscienza).

Maral dice che il fenomeno richiama il noumeno, lo richiede; questo solo perché si vuole parlare del "fenomeno", infatti delimitandolo si creerà l'oltre del limite. Ma questa barriera, il fenomeno e il suo limite, non esiste. Non esiste mentale e obbiettivo, fisico e psicologico, coscienza e materia.
Come definire la coscienza? Come "sapere" (magari di esistere..)? E il sapere? Queste cose non sono altro dall'accadere, dall'essere stesso, non c'è modo di definirle/descriverle, non stanno al di sopra di qualcosa di più originario di cui potrete parlarmi, magari la materia incosciente (come posso immaginarla? cosa è al di fuori di un insieme di lettere per me? non posso paragonarla neanche al buio di quando dormo, perché esso è ancora qualcosa di percepito).
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Vecchio 26-10-2014, 09.26.25   #6
sgiombo
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Citazione:
Originalmente inviato da maral
Volevo aggiungere un commento a questa riflessione che non è facile riportare a un tema unitario. Il centro di essa mi sembra il rapporto tra fenomenico (quindi percepito) e trascendente (oltre il percepito) e che io non vedo come un rapporto contrappositivo e sento bene quell'unità per cui il saggio buddista Mahayana dice che il nirvana è il samsara.
Il trascendente (e di questo ne abbiamo a lungo parlato con Sgiombo) è ciò che è percepito come non percepibile, ma non a mio avviso perché lo si definisce come tale, ma perché si percepisce che le cose percepite implicano proprio in quanto percepibili un non percepito, dunque il mondo fenomenico implica necessariamente il non percepito come suo limite. Abbiamo detto che se esiste una realtà indipendente dal percipiente, esiste per necessità una realtà indipendente dal percepito, Sgiombo l'ha identificata con la cosa in sé, ogni cosa è cosa in sé, dunque è una trascendenza. ma il suo essere in sé implica il suo essere per noi affinché possa essere per sé, ogni trascendente implica il suo fenomenico apparire nel piacere e nel dolore di chi lo percepisce senza pur tuttavia che questo apparire fenomenico possa esaurirsi. Ogni cosa in sé implica la sua fenomenologia,
Non è un caso che l'Oriente indichi in una meditazione che è puro accoglimento vigile e passivo del percepibile come la strada per cogliere il trascendente che ci comprende. E' un disinteressato mettersi in ascolto dei fenomeni per far sì che ciò che non appare come fenomeno tuttavia si manifesti nella sua più pura evidenza.

Alcune precisazioni circa le nostre reciproche divergenze.

Per me (con Brekeley, per i soli percetti materiali, e ancor più con Hume, anche per quelli mentali), ciò che è percepito non può trascendere la percezione, cioè non può essere che percepito.
Quindi ciò che trascende la percezione, il trascendente non può essere, non è percepito ma pensato (si percepisce il pensiero del -che ha per oggetto o “contenuto il, allude al, parla del- trascendente e non il trascendente).

Non sono d’ accordo che le cose percepite implicano necessariamente proprio in quanto percepibili un non percepito, e che dunque il mondo fenomenico implica necessariamente il non percepito come fatto reale (lo implica necessariamente, ma solo come suo limite concettuale: per poter parlare di, pensare a un mondo fenomenico di percezioni dobbiamo avere anche il concetto opposto di, dobbiamo necessariamente pensare anche a “il non percepito", ma non è necessaria anche l’ esistenza reale di esso) *.
E allo stesso modo anche reciprocamente ogni cosa in sé per me non implica affatto necessariamente (se non in senso meramente concettuale, non fattualmente, non realmente) anche la sua fenomenologia.
Non è autocontraddittorio pensare che (= é possibilissimo che) la realtà (in toto) non ecceda le percezioni ma nella sua integrità e completezza si limiti ad esse.
Non è nemmeno autocontraddittorio il pensare che invece sia reale anche qualcosa che la trascende (cosa in sé o noumeno), e dunque è altrettanto possibile questa esistenza reale del trascendente, il contrario dell' ipotesi precedente.
Immotivatamente, per fede credo (personalmente; e di fatto credono tutte le persone ritenute sane di mente) che accada realmente il secondo dei due casi ipotetici (= che sia vera la seconda delle due ipotesi).
Personalmente la mia fede è per così dire “corroborata” (non: in alcun modo dimostrata essere vera) dal fatto che così mi spiego la (pre-) supposta (ma pure indimostrabile) intersoggettività delle percezioni materiali-naturali (presupposto necessario, indispensabile, conditio sine qua non della -possibilità della- conoscenza scientifica -vera-), alla quale credo per fede, nonché i rapporti materia/pensiero (in particolare cervello/mente).

Secondo queste mie spiegazioni (ipotesi credendo vere le quali integro e mi spiego la realtà fenomenica in cui mi imbatto direttamente, immediatamente; non nego ovviamente che anche altre ne siano possibili) la cosa in sé (trascendente), pur essendo tutt’ altra cosa (errore comunissimo ma enorme -un’ autocontraddizione!- essendo l’ identificarla con esso), non è in assoluto indipendente dal percepito (nel senso delle percezioni fenomenniche), ma diviene contemporaneamente e in modo biunivocamente e corrispondente ad esso (esse), per così dire “parallelamente ad esso (esse) su un altro piano –o in un altro ambito- ontologico separato”.
Essa (la cosa in sé trascendente il percepito inteso come "le percezioni") può essere identificata col percipiente (il soggetto delle percezioni) e/o con il percepito (inteso come l’ oggetto delle percezioni) a seconda dei casi (l’ ultima volta ho accennato al modo -al senso- di queste identificazioni nell’ intervento del 9-10-2014, 22.20.48 in risposta a Patrizia Mura nella discussione “Che cosa significano le parole").

Contrariamente al pensiero orientale (secondo quanto qui scrivi) non credo che ciò che non appare come fenomeno tuttavia si manifesti nella sua più pura evidenza, ma solo che lo si possa pensare, ipotizzare, congetturare (e anche affermare, credere che sia reale).
Infatti per me “apparire” e “manifestarsi” sono sinonimi e dunque affermare l’ uno e negare l’ altro è autocontraddittorio.



*E qui devo ammettere un errore che ho commesso recentemente nell’ altra discussione “I veri problemi sorgono solo quando ci poniamo delle domande?” rispondendo a Laryn circa una citazione bibilica che affermava la originaria creazione divina di un mondo integralmente “bello”, senza nulla di “brutto”: questo non è autocontraddittorio e assurdo, contrariamente a quanto da me affermato, poiché anche in questo caso la necessità dell’ opposto (il “brutto”) è meramente concettuale e non reale di fatto (ritengo errata e falsa questa affermazione biblica, ma non autocontraddittoria, insensata).

Ultima modifica di sgiombo : 26-10-2014 alle ore 16.33.38.
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Vecchio 26-10-2014, 15.48.13   #7
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La discussione si fa complessa (e sempre più interessante).

Accenno solo ad alcuni punti di dissenso da parte mia verso gli altri interventi (a Maral ho già dedicato un intervento a sé; l' ho appena corretto perché stamane, data la splendida giornata che si annunciava, non vedevo l' ora di farmi il mio giro in bici e nella fretta vi ho messo varie deplorevoli inesattezze)

@ Patrizia Mura e Oxdeadbeef

Non riesco a concepire un senso diverso da quello “oggettivo” di “(più o meno) frequente relativamente ad alternative in un numero sufficientemente elevato di casi" ai concetti di "(maggiore o minore) probabilità” o “verosimiglianza”.
E se non si tratta della frequenza con cui un’ alternativa accade e al rapporto fra essa e quella di altre diverse alternative in un numero sufficientemente elevato di casi, bensì di un “unicum”, dell’ alternativa fra due singole ipotesi reciprocamente escludentisi per così dire "una volta sola" o "una volta per tutte" (come in questo caso -orrendo bisticcio di parole!- dell’ esistenza reale o meno del "trascendente le sensazioni o cosa in sé o noumeno"), credo non si possa sensatamente parlare che dell’ alternativa fra “vero” o “falso”: in casi come questo il senso “soggettivo” in cui vengono spesso usati (anche da voi) tali concetti (maggiore o minore propensione soggettiva a ritenere vera un' ipotesi) mi sembra vago e inadeguato: o qualcosa è certo o è incerto; in questo caso incerto.
Alternativa che non v’ è modo di risolvere logicamente né tantomeno osservativamente, e dunque può essere sciolta unicamente in modo arbitrario, immotivato, ingiustificato (= “fideisticamente”); se la si scioglie, perché altrimenti (concordo in questo con Patrizia Mura) si può sempre sospendere il giudizio.
Rilevo semplicemente (fatto che peraltro non dimostra nulla!) che tutte le persone ritenute sane di mente (anche nei casi in cui non credono proprio esplicitamente che, per lo meno) agiscono di fatto come se credessero che la realtà non è limitata al loro solipsistico esperire, come una specie di unico sogno o allucinazione esauriente “il tutto universale”, ma invece esiste realmente anche altro (oggetti; e inoltre se stessi in quanto soggetti di tale loro esperire, reali in sé, anche indipendentemente dall’ esperienza fenomenica stessa).

@ Aggressor

La luna nell’ ambito della mia esperienza fenomenica cosciente è una certa “cosa”, la luna (o meglio: le lune) nell’ ambito di altre esperienze fenomeniche coscienti sono certe altre “cose” (parimenti fenomeniche); dire che siano uguali o diverse non ha senso per il fatto che ciascuna esperienza fenomenica cosciente è separate da ciascun’ altra: nell’ ambito della mia posso paragonare due oggetti o due caratteristiche di oggetti -per esempio due fiori o i colori di due fiori- e stabilire se sono uguali o meno, ma questo non mi è possibile fra “lo stesso (così impropriamente detto)" fiore nella mia e nella tua eperienza fenomenica cosciente (visto da me e visto da te; come anche "la stessa -così impropriamente detta-" luna); tutto ciò che posso ipotizzare e credere, ma non dimostrare, è che vi sia una corrispondenza biunivoca fra essi.
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Vecchio 28-10-2014, 19.43.20   #8
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@ Sgiombo
Una volta sentii una persona affermare: "il giorno che muoio io finisce il mondo".
Beh, potremmo dire che quella persona aveva ragione, non credi? Aveva ragione nel senso che, effettivamente,
morto il percepente il percepito cessa di ex-sistere, cioè cessa di essere "stabilmente percepito" come, appunto,
qualcosa di "fuori", di "altro" dal percepente.
Eppure: possiamo ragionevolmente pensare che avesse ragione? Naturalmente no, visto che morto lui il mondo
non finisce di certo. Diciamo allora che il mondo finisce "per lui", ma non finisce "in sé".
Ora, dovrebbe quella persona credere che, dopo la sua morte, l'esistenza del mondo sia un mero
articolo di fede? Sarebbe, trovo, paradossale equiparare il credere all'esistenza del mondo "in sé" con un
articolo di fede che, come insegna Tertulliano, non può che esplicarsi all'insegna dell'"absurdum". Che
differenza vi sarebbe fra la "fede", diciamo, fideisticamente intesa e la deduzione razionale?
E' chiaro che una deduzione non è una dimostrazione, ci mancherebbe; ma perchè negare come in un "assioma
pietrificato" la validità della deduzione? Quante cose saremmo costretti a negarci negando questa "piacevole"
facoltà dell'intelletto in favore della sola dimostrazione?
Perchè, è chiaro, tutti gli "indizi" ci portano ad inferire che quella persona avesse torto (senza attendere
la spiacevole dimostrazione rappresentata dalla sua morte...).
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Vecchio 29-10-2014, 21.24.38   #9
sgiombo
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@ Odeadbeef

Penso che l’ esperienza cosciente di ciascuno di noi sia un mondo o un “ambito della realtà” autosufficiente e separato da quella di ciascun altro (e così pure rispetto alla realtà in sé), anche se in divenire ad esse “correlato”.
Dunque alla morte di ciascuno in un certo senso è un ”universo” che cessa di esistere, ed è soggettivamente la totalità della realtà che viene meno per chi ne è “titolare”.
Concordo quindi che una volta morta la persona che aveva detto "il giorno che muoio io finisce il mondo" il mondo è finito per lui ma non per altri, né in quanto cosa in sé; ovvero non è finito per altri, né in quanto cosa in sé, ma è finito per lui.

A quale aspetto della questione dare più importanza? Quello intersoggettivo (gli altri che sopravvivono), quello oggettivo (la cosa in sé che ci sarà anche dopo l’ inevitabile estinzione dell’ umanità) o quello soggettivo (l’ esperienza cosciente, la vita di ognuno che viene meno alla sua propria morte)?
Non trovo una risposta stabile ma oscillo fra le diverse alternative.
La concezione che privilegia gli altri che sopravvivono ha trovato nella letteratura italiana un’ espressione poetica da molti criticata (soprattutto da un punto di vista strettamente letterario), a mio parere sottovalutata, comunque attribuita ad un autore per lo più non considerato dei maggiori; opera poetica che invece fin da quando l’ ho incontrata al liceo (in età adolescenziale) mi ha fortemente colpito e affascinato (per me era e resta un capolavoro assoluto della letteratura universale!!!).
Alludo ai Sepolcri del Foscolo.
Tuttavia anche la vita umana in generale (e le vite particolari dei sopravvissuti a ciascuno di noi) è destinata naturalmente a finire senza lasciare eredi (senza contare che gli assetti sociali vigenti tendono a portarla a rapida morte non naturale ma decisamente “prematura” e per lo meno “colposa”; o forse, se non proprio “premeditata”, per lo meno “preterintenzionale" o addirittura “volontaria”).

Alla tua domanda: “Ora, dovrebbe quella persona credere che, dopo la sua morte, l'esistenza del mondo sia un mero
articolo di fede?” rispondo: da parte sua il credere che dopo la sua morte il mondo continua (continuerà) ad esistere è secondo me indubbiamente un atto di fede.
Infatti non può con tutta evidenza verificarlo empiricamente!
Ma nemmeno da vivo poteva in alcun modo dimostrarlo.

Non conosco Tertulliano e gli altri padri della Chiesa, ma credo che il suo “credo quia absurdum” si riferisse al cristianesimo e in particolare ai “misteri della fede” (vere e proprie, patenti autocontraddizioni, dunque assurdità).
Se nei “misteri della fede” non si può non credere “quia absurda” (se vi si crede), tuttavia non qualsiasi credenza fideistica è necessariamente tale.
Non trovo infatti per niente assurdo (e tuttavia assolutamente “fideisico”) credere che esistano anche altre esperienze fenomeniche coscienti oltre a “questa mia” direttamente esperita, nonché una realtà in sé (cosa ben diversa che pretendere che 1=3!), essendo sicuro che il solipsismo non sia superabile se non arbitrariamente, senza che il suo superamento sia in alcun modo dimostrabile né mostrabile.
Non posso non comportarmi in un modo che implica necessariamente il crederlo (per lo meno implicitamente): se sospendessi il giudizio per essere coerente non dovrei più interessarmi di nulla, reagire in alcun modo a ciò che mi accade, dovrei lasciarmi morire di inedia nell’ inattività più totale ed assoluta (non attivamente uccidermi); ma così -di fatto: non posso che constatarlo-non è: ho interessi, speranze e desideri (e anche timori).

Mi sfugge la differenza che tu poni fra “dimostrazione” e “deduzione”: per dimostrazione o inferenza ho sempre inteso deduzioni e/o induzioni.
Ritengo del tutto valide le deduzioni correttamente inferite, condotte ”a rigor di logica”; però credo non sia dimostrabile né deduttivamente né induttivamente (né tantomeno mostrabile) che la realtà ecceda l’ esperienza fenomenica cosciente immediatamente esperita.
Gli indizi possono (entro certi limiti e a certe condizioni) bastare in pratica, per esempio in un processo penale; “a rigor di logica no”. E credo che da filosofi (sul piano della teoria pura) dobbiamo considerare anche le ipotesi più inverosimili e “strane”, che praticamente sono irrilevanti, per quanti indizi le contraddicano.

@ tutti

Colgo l’ occasione per fare spudoratamente un po’ di autopromozione: nelle “lettere-on-line” di questo sito “Riflessioni” compare un mio scritto (un po’ lunghetto, non posso negarlo) intitolato “il paradosso delle moderne neuroscienze” -è la lettera n° 175- in cui espongo le mie convinzioni sulla filosofia della mente.
Mi farebbe ovviamente piacere se qualcuno del forum lo leggesse e magari aprisse un argomento di discussione nel forum stesso criticandolo.
sgiombo is offline  
Vecchio 30-10-2014, 13.00.04   #10
Aggressor
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Riferimento: Fra fenomenico e trascendente, attraverso le possibili visioni ragioni modi e utilità

Io vorrei sottolineare un punto che mi è caro..
Molti di voi parlano di questa realtà oggettiva come di qualcosa che, seppur non dimostrabile, spiegherebbe bene l'intersoggettività. Perché se uno muore il mondo non scompare, allora ci deve essere una realtà al di fuori del pensiero..
E se invece, semplicemente, quando la realtà non si manifesta più a qualcuno continuasse a manifestarsi a qualcun'altro? Questa ipotesi non renderebbe la questione altrettanto plausibile pur senza gettarsi nei problemi di cose quali realtà trascendenti?
Non sarebbe riuscire ad affermare che la realtà esiste solo come rappresentazione senza aver paura che l'universo scompaia quando qualcuno smette di guardarlo? E non si avrebbe anche una ontologia con meno tipi di entità (di cui tra l'altro è assai difficile parlare sensatamente)?

Non capisco dove sarebbe la convenienza di postulare la cosa in sé, cioè la capisco solo se dovessi anche postulare (del tutto irragionevolmente mi pare, cioè senza alcun tipo di dimostrazione né fondamento logico) che solo alcuni enti (magari gli uomini e qualche animale, poi ognuno ci ficca le cose che gli pare in questa categoria, del tutto arbitrariamente) percepiscono la realtà. Allora così, certo, se questi enti speciali dovessero scomparire per gli altri sfortunati sarebbe la fine, senza contare che non si saprebbe da dove abbiano tratto la loro esistenza (quegli esseri fortunati), dato che la scienza mostra abbastanza chiaramente come gli uomini, per esempio, derivino da altre entità "non coscienti".
Aggressor is offline  

 



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