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Filosofia - Forum filosofico sulla ricerca del senso dell’essere.
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Vecchio 26-09-2015, 16.36.46   #31
sgiombo
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Riferimento: Vita, morte, saggezza

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Originalmente inviato da Sariputra
Questa mattina, mentre gli preparavo la colazione, ho provato ad approfondire l'argomento con mio padre.
E' un uomo molto anziano, quasi novantenne, ancora lucido ma pieno di malanni fisici (cardiopatia, prostata, piaghe alle dita dei piedi, artrite, diabete , operato di cancro, ecc.).Arriva in cucina ansimando. Ogni movimento gli procura sofferenza.
Gli ho posto il problema in questi termini:
-Per te la vita, ora che hai poche soddisfazioni e tanti malanni, ha ancora un significato? Ti va ancora di viverla? Le tue sofferenze sono molto maggiori delle gioie ?-
Mi ha guardato con i suoi vecchi occhi stanchi ma ancora vivi e mi ha risposto:
-Sì, per me vale ancora la pena di vivere.-
-Perché?...-
-Adesso trovo gioia in cose che quand'ero giovane nemmeno mi fermavo ad osservare. Piccoli particolari, scorci di paesaggio, una viuzza piena di ricordi, il sentire quasi le voci degli amici ormai tutti andati, i colori che non ho mai visto così belli come ora ( lui è un artista, uscito dall'Accademia delle Belle Arti di Venezia in epoca "eroica", quando l'arte aveva ancora reale valore per l'uomo).
Adesso un semplice ricordo ha la capacità di farmi rinascere un mondo dentro. Quand'ero giovane vivevo pensando al futuro, ora invece , quando riesco a muovermi un po' e le gambe non mi fanno troppo male, assaporo intensamente ogni attimo perché sono consapevole, ogni giorno, che potrebbe essere l'ultima volta che lo posso fare.
Lo so che non ci crede nessuno, ma io adesso vivo molto più intensamente di un tempo, solo che è tutto dentro e , quando sei vecchio, non hai più voglia di parlarne. E' faticoso e la gente non ti ascolta. Nemmeno tu mi ascolti, ormai...-
-Alcuni affermano che è preferibile morire piuttosto che vivere con tanti dolori e pochissime gioie. Che ne pensi ? -
-Guarda, lo pensavo anch'io quand'ero giovane ma non conoscevo niente dell'esser vecchio.Ora lo sono e mi sembra che, anche se soffro 23 ore su 24 alcuni giorni, la bellezza intensa che vivo in quell'ora di tregua, vale molto di più , tanto di più. Lo vedrai anche tu se avrai la grazia di diventar vecchio come me.
A proposito...sei andato a prendermi il Tachidol ?-
Mi è venuto da ridere e l'ho lasciato in pace ad inzupparsi lentamente, molto lentamente, le fette biscottate nel caffè.
Non posso sapere se tutti i vecchi provano simili sentimenti ma...penso che in fondo, in vario modo, tutti percepiscano con intensità e rivivano continuamente il loro vissuto, più liberi dal "mondo" di un giovane.
Altra cosa sono i morbi vari e le demenze che ti tolgono tutti i ricordi...quello è un altro capitolo che costringe coloro che ti seguono e aiutano a risvegliare i loro di ricordi.

Non sai quanto mi abbia fatto piacere ciò che mi dici di tuo padre.

Vorrei anch' io arrivare alla sua età nelle sua condizioni.

Ma da razionalista metto in conto anche la possibile sfortuna e cerco di prepararmi anche al deprecabile caso mi travassi in condizioni peggiori, magari in età meno avanzata (pensa al caso, che mi ha molto impressionato di persona, mi ha veramente fatto pena, dell' ultimo anno di vita della donna -la suocera di mio fratello- cui ho accennato nell' ultima mia risposta ad Acquario).
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Vecchio 26-09-2015, 23.20.58   #32
Varg75
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Riferimento: Vita, morte, saggezza

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Originalmente inviato da sgiombo
Per un “epicureo”, o comunque un ateo razionalista che ritiene che nella vita si debba ottenere la maggior felicità possibile nei limiti dell’ onestà e del rispetto dei diritti e delle legittime esigenze altrui, credo che non importi tanto la durata della propria vita quanto piuttosto la sua qualità.
Di tanto in tanto credo che chi seguisse un’ etica siffatta dovrebbe in linea di massima chiedersi se la vita che ragionevolmente si può ritenere probabile gli resti da vivere sia degna di essere vissuta o meno; a proposito della possibile continuazione della propria esistenza dovrebbe fare una sorta di bilancio costi-benefici circa ciò che potrebbe ragionevolmente aspettarsi dal futuro, e decidere di restare in vita nel caso le aspettative siano ragionevolmente positive, di suicidarsi “dolcemente” qualora sia ragionevolmente prevedibile un consistente eccesso di dolori e infelicità piuttosto che soddisfazioni e felicità.
Morire si deve comunque prima o poi, in un modo o nell’ altro, ma ci si può dare di proposito una morte fisicamente indolore e serena (se si è sereni in vita), mentre un decesso naturalmente subito ha “buone” (si fa per dire…) probabilità di essere più o meno violento, doloroso, penoso.
E avanzando negli anni, tendenzialmente sempre minori sono le probabilità di ottenere ulteriori soddisfazioni e felicità, sempre maggiori quelle di ottenere in prevalenza sofferenze e dolori.
Tutto è molto aleatorio in proposito e solo in parte prevedibile, ma anche proprio per questo credo che, giunto a una certa età, in una condizione di salute (inevitabilmente, prima o poi) alquanto precaria, in una situazione nella quale ragionevolmente dovesse aspettarsi in futuro molta più sofferenza che soddisfazioni, un ateo razionalista dovrebbe saggiamente decidere di morire serenamente, sazio di soddisfazioni e pago del proprio essere vissuto onestamente, degnamente.
L’ aleatorietà in moltissimi casi e per tanti importanti aspetti ineliminabile nel prevedere ragionevolmente quale potrebbe essere il proprio probabile futuro rende inevitabilmente sempre difficile una simile decisione.
Ma credo che la prudenza dovrebbe consigliare che sia preferibile perdere qualche ulteriore potenziale anno di vita serena e felice, piuttosto che correre il rischio (se questo rischio è molto elevato; e nel valutarne l’ entità ragionevolmente presumibile sta la difficoltà principale della decisione) di subire molte più sofferenze che soddisfazioni e felicità.
A me piacerebbe potermi accorgere per tempo di essere destinato a soffrire molto più che a gioire (per esempio perché mi vengono diagnosticate una o più malattie croniche inguaribili ma solo lenibili con palliativi e terapie meramente sintomatiche) così da potermi dare una morte indolore nella soddisfazione per avere complessivamente ben vissuto, un po’ come ci si addormenta contenti dopo una giornata in cui si è agito bene e fatto diligentemente il proprio dovere.
Naturalmente è necessario tenere anche conto delle esigenze legittime (ma non: eccessivamente egoistiche o “possessive”) dei propri cari e in generale di ci circonda, degli “altri”, che potrebbero anche avere il sacrosanto diritto di ottenere ancora qualcosa di “spirituale” o anche di materiale da noi (e coi tempi che corrono la pensione di un anziano che ha iniziato a lavorare prima della caduta del muro di Berlino -per me mai abbastanza rimpianto- può costituire un reddito importante in una famiglia).
Voi che ne pensate (se siete giovani e in buona salute probabilmente nulla; io stesso, pur non soffrendo finora di gravi malattie -ma a una certa età bisogna ragionevolmente aspettarsene prima o poi- solo da poco tempo mi pongo il problema)?

Innanzitutto saluto perché sono un nuovo utente del forum che, da ciò che ho potuto vedere, è ben gestito. Ma bando alle smancerie e cominciamo.
Io penso che gli obiettivi che un uomo si prefigge nella sua vita, essendo essa dominata violentemente dalla paura della morte, siano molto più semplici ed innocenti di quanto tu descriva. Un individuo di qualunque razza, carattere, morale o status sociale ha come sua necessità il desiderio (sereno o meno dipende dal contesto in cui vive) di risolvere i problemi che inevitabilmente tempestano la sua vita (se poi non ne ha nessuno comincerà a crearsene da solo). Arrivare ad un'età in cui sperare di riuscire ad ottenere ancora qualcosa di grandemente soddisfacente, per l'ideale collettivo della sua società, diventa tristemente quasi impossibile si concentrerà nel risolvere, nel limite delle sue possibilità (anche se il limite è molto basso) ciò che appunto gli impedisce di sperare nel qualcosa di grandemente soddisfacente ed il risolverlo almeno "a tratti" riuscirà a soddisfarlo tanto quanto il male che lo tormenta è grande. Esempio: Ad un uomo di sessant'anni, non giovane ma nemmeno troppo vecchio per sperare in qualcosa di soddisfacente (ripeto perché è importante: Per l'ideale collettivo della società in cui vive), viene diagnosticato un tumore. L'uomo, poiché la paura di morire è troppo grande per qualsiasi creatura, metterà automaticamente senza alcun ripensamento progetti e idee in secondo piano per far spazio al raggiungimento della soddisfazione che la cura o l'attenuazione, per quanto possibile, della malattia darà al suo umore.
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Vecchio 27-09-2015, 00.57.39   #33
paul11
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Riferimento: Vita, morte, saggezza

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Originalmente inviato da sgiombo
Non nego certo che nella società attuale la salute sia anche legata a un enorme giro di denaro.
Ma ciò non toglie che la medicina ha fatto enormi progressi, che possono essere impiegati più o meno bene (male, secondo me, nell' accanimeto terapeutico). Comunque credo sia molto meglio rivolgermi, se ne ho bisogno, a un discreto medico o a un discreto chirurgo piuttosto che al migliore degli stregoni.
Inoltre sono un uomo occidentale e di sicuro penso spesso e credo anche con raziocinio e cognizione di causa alla morte (mentre non so se lo stesso si possa dire di molti aborigeni australiani o appartenenti ad altre culture).



Si può morire in tantissimi modi e non solo per tumore (che in generale il più delle volte dipende pochissimo dal genoma e moltissimo dall' ambiente; n.b.: queste sono considerazioni eminentemente statistiche: esistono anche, ma sono "l' eccezione alla regola", tumori ereditari).



Mi dispiace sinceramente che tu non veda come un ateo razionalista possa comportarsi moralmente, ma non vedo proprio come fartelo capire: mi sembra semplicemente di un' evidenza enorme, che sta sotto gli occhi di tutti, quasi lapalissiana (se uno non vede il cielo che gli sta sulla testa semplicemente aprendo gli occhi e volgendoli in alto non saprei proprio come aiutarlo a percepirlo).
Comunque tranquillo: non avevo inteso la tua obiezione nel precedente intervento come rivolta personalmente a me).
Nietzche mi sembra (dal poco che ne so indirettamente) sommamente irrazionalista e illogico (oltre che reazionario); su di lui non dico altro per non offendere la sensibilità di nessuno (contrariamente a Nietzche stesso e -perché no?- con Cristo -anche, fra gli altri- mi preme la felicità altrui e soffro in qualche misura per l' altrui infelicità).

L' ipocrisa é tutt' altra cosa della moraltà (per me é immorale).



Scusami, ma Marx invece lo conosco abbastanza e sinceramente ritengo una colossale sciocchezza accostarlo a Nietzche.



Che "il lavoro nobilita l' uomo" l' abbia inventato un qualche Marchionne (mediocre parassita) d' antan per fregare i lavoratori ingenui non toglie che oggettivamente l' uomo può (potenzialità oggettiva) effettivamente realizzarsi e malgrado tutto in qualche caso anche nell' ingiusta società odierna di fatto si realizza anche e forse soprattutto nel lavoro.


Non esiste affatto alcuna pretesa "regola nella terra" rappresentata dall' egoismo più bieco: i geni non determinano affatto il comportamento umano individuale, e la selezione naturale ha prodotto l' altruismo (potenziale) non meno dell' egoismo (potenziale) nell' uomo.
Tant' é vero che dal grandissimo Friederich (ENGELS!!!) a Che Guevara non sono mai mancati privilegiati che si sono battuti, anche eroicamente, per la giustizia e per "i deboli" (alla faccia sia di Nietche che di quei cristiani -ma per fortuna non tutti: Severino Boezio!- che credono che se Dio é morto tutto é lecito); e "la rivoluzione di Marx" va proprio in questa direzione (diametralmente opposta a quanto tu erroneamente credi).


In Inghilterra ogni giorno si è costruita una rete di raccolta dei presidi sanitari che spediscono su un'aereo diretto in India che fa analisi delle provette ricevute e dà gli esiti.
Questo è il concetto sanitario della cultura Occidentale: efficienza ed efficacia produttiva intesa come minori costi, dove ad una provetta spedita corrisponde un codice che a sua volta corrisponde ad una entità del genere umano. Questa cultura del "numero", divide corpo fisico da una parte e mente dall'altro ; divide analisi chimico/fisica/microbiologica da una parte e dolore e sofferenza di un codice che corrisponde ad emozione umana:l'asetticità della tecnica e l'umanità di malato. Per forza noi abbiamo paura più ancora delle altre culture di invecchiare, vediamo come sono trattati i malati e soprattutto i vecchi, vediamo "umanità" distinte dal trattamento procedurale: eziologia, diagnosi, terapia.
Noi siamo progrediti, la tecnica ha incarnato il progresso....ma l'uomo? La medicina è parte come qualunque contenuto dentro il contenitore culturale dell'Occidente che ha ritenuto razionalizzare, dividendo e specializzando linguisticamente la conoscenza e perdendo di vista il quadro di unione:non può che gnerare contraddizioni questo modo di procedere. perchè il progresso non è mai unitario, è a strappi e per settori specifici .Vivere in questo sistema significa"correre",essere i migliori in termini di efficacia ed efficienza. cinicamente vincere la concorrenza nella corsa verso qualunque cosa che corrisponde alla vivibilità di questo sistema: raccomandazioni per post idi lavoro, per saltare file di analisi sanitari, per avere aumenti retributivi,ecc. Ma di quale morale vogliamo parlare in questo sistema bieco ed oscuro?
Non c'è tempo per accudire il bambino, lo si dà in "prestito d'uso" all'asilo,:non c'è tempo per accudire l'anziano, lo si dà al gerontocomio. Fra il bambino e il vecchio c'è l'allevamento produttivo umano che corrisponde alla fase propedeutica scolastica dove si insegnano le tecniche e si condiziona il cervello e lì comincia la competizione con le famiglie che"responsabilizzano" il bambino incutendogli i l terrore del voto comminato dalla sapienza di un discriminatore chiamato maestro o professore che aspetta la data dello stipendio e che spesso crea fobie scolastiche talmente sono bravi e preparati nel fare i "maestri di vita". Il lavoro è il luogo dell'alienazione totale, dove anche se si avesse la fortuna di riuscire a fare ciò che si aspira, l'organizzazione sociale del lavoro è tale per cui dell'entità umana se ne strafrega, conta l'esercizio di scambio economico "cosa mi dai in cambio di uno stipendio". Se si raggiunge il tempo dell'anzianità e della vecchiaia ecco emergere i sensi di colpa del sentirsi di peso ai familiari, soprattutto per malattie croniche.
Insomma per vivere oggi una vita ...bisogna avere un gran "culo".
E cosa ci fa la morale dentro tutto questo? Per forza si teme il dolore e la sofferenza, perchè sono soffocate dal " sono problemi tuoi:arrangiati". Bisogna essere perfetti e standard in questo straordinario progresso Occidentale, inquadrati mentalmente, supini al " il rancio è buono e abbondante signor generale" .Pensare con la propria testa è già da sovversivi. Fermarsi ad ascoltare e vedere scorci di verità sotto il velo della mediocrità umana di questo tempo è un lusso "fuori dal branco". Meglio fare i regali alle maestre, meglio fare il regalo al politico, meglio fare il regalo al "dottò", meglio fare ........ ma di quale morale parliamo? Questa è la legge della giungla formalizzata dentro un sistema socio-culturale dove non si hanno reali alternative di vie di uscita se non la follia.Ma nella giungla c'è almeno la chiarezza di cosa sia amico e nemico, dove sta il pericolo e la pace.
Quì invece l'esercizio è portare le mutande di ferro....perchè non si sa mai. Che bel progresso, che belle morali?
I saggi se ci sono ancora hanno chiuso la voce in gola e vivono in catacombe solitari.
Questa cultura non aiuta a gestire la sofferenza e il dolore se non lo abbiamo ancora capito, al massimo c'è la pillola dell'azienda farmaceutica che ha interesse che le malattie prolifichino per aumentare i propri fatturati. Di cosa ci si fida in questo sistema? Di cosa abbiamo così fiducia da lasciarci cuore e passioni, gioie e dolori? Eppure noi siamo nati per condividere tutto questo.
Non c'è peggior ipocrisia in un sistema che proclama a parole e teorie valori di libertà ,di giustizia,uguaglianza, di diritti sociali e umani... e pratica il sopruso, il dominio, lo sfruttamento. Nessuna cultura è più contraddittoria e dicotomica di quella Occidentale...quì regna la schizofrenia.
La morte , il dolore e la sofferenza? Lasciamo alla natura questa fatica e cerchiamo di dare affetto e comprensione a chi si sente solo per l'ultimo viaggio e non lasciamo che un corpo fisico sia martoriato separandolo dalla mente, dalla psiche, dalla coscienza, dallo spirito.
Questo è il sistema per togliere la dignità al malato, all'uomo.
Lasciamo che "vada", perchè noi siamo troppo ignoranti come umanità per giudicare ciò che è giusto da ciò che è sbagliato,nascondendoli dentro un parere scientifico .
La natura e Dio,per chi ci crede, scelgono il tempo di andare.
paul11 is offline  
Vecchio 27-09-2015, 09.37.04   #34
sgiombo
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Originalmente inviato da Duc in altum!
** scritto da sgiombo:



Se Dio non esistesse, una volta morti, senza aver pagato le giuste conseguenze di una loro eventuale mancanza di virtù, o di morale responsabile, o di magnanimità e onestà, per fare un esempio a caso Berlusconi & Fidel Castro, a chi dovrebbero dar conto? ...a chi importerebbe? ...perché dovrebbero essere chiamati immorali, disonesti e senza virtù, visto che hanno vissuto comodamente e felicemente, a discapito degli altri, come desidererebbe ogni umano?

Perché, se Dio non esistesse, chi delinque una vita intera senza incappare nelle leggi dell'uomo, per sorte, per astuzia o per raccomandazione, dovrebbe pensare che sia senza "la virtù premio a se stessa", dovrebbe sentirsi meno appagato di chi, grazie al caso, sostiene di aver vissuto sempre in maniera magnanima e onesta?
Perché non dovrebbe essere considerata anche la sua una vita virtuosa e fortunata?


Pace&Bene

Ovviamente, poiché Dio non esiste, Fidel non riceverà alcuna ricompensa post mortem per il tantissimo ben che ha fatto, nè Berlusconi punizioni per il male che ha fatto (comunque molto meno di Renzi, per la cronaca).
Ma ciò é del tutto ininfluente: non per questo il primo fa meno bene e il secondo meno male di ciò che fa (e il primo, che é ateo, non farebbe ancor più bene di ciò che fa se per assurdo fosse credente e contasse su una ricompensa ultraterrena).

Che Fidel faccia del bene importa a Fidel, e tanto basta (oltre a importare a me ed a moltissimi che ne sono stati beneficiati, ma questo non é determinante nel suo comportamento).
Analogo discorso vale per il comportamento di Berlusconi e di chiunque altro.



A parte il fatto che attribuirlo a Fidel è del tutto falso e anzi diametralmente contrario al vero, vivere comodamente e felicemente, a discapito degli altri (anche non credendo all’ esistenza di Dio) non lo desidererebbe affatto ogni umano, ma casomai ogni umano egoista, gretto e meschino (per esempio Berlusconi e Obama).

Poiché Dio non esiste, chi (grazie al caso é un delinquente e dunque) delinque una vita intera senza incappare nelle leggi dell'uomo, per sorte, per astuzia o per raccomandazione evidentemente non è uno stoico (oltre che un "virtuoso") e dunque non pensa affatto che "la virtù” sia “premio a se stessa".
E può benissimo essere appagatissimo nella sua malvagità (un esempio per tanti: Francisco Franco è morto nel suo letto in pieno potere e privilegio, "servito e riverito"); ciò nulla toglie alla sua malvagità (e a chi -grazie al caso- é “virtuoso” non cale più di tanto, poiché comunque è appagato della propria virtù; per lo meno se oltre ad essere "virtuoso" la pensa in proposito come gli stoici ...e il cristiano generoso e magnanimo Severino Boezio, e altri cristiani generosi e magnanimi).



(Ho risposto a questo tuo intervento perché portava nuove affermazioni da criticare. A quelli che come al solito immagino proporrai in risposta ad altre mie considerazioni ripetendo sempre le solite tue pretese, come quella che che credere alla scienza sarebbe la stessa cosa che credere alla santissima trinità -sempre di fede si tratta, per te!- ribadisco che non risponderò le stesse cose che già troppe volte ho risposto: resta ovviamente inteso che si tratta di un caso in cui che tace, avendo di meglio da fare che ripetere sempre le stese cose invano, non acconsente).
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Vecchio 27-09-2015, 10.20.13   #35
sgiombo
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Originalmente inviato da Varg75
Innanzitutto saluto perché sono un nuovo utente del forum che, da ciò che ho potuto vedere, è ben gestito. Ma bando alle smancerie e cominciamo.
Io penso che gli obiettivi che un uomo si prefigge nella sua vita, essendo essa dominata violentemente dalla paura della morte, siano molto più semplici ed innocenti di quanto tu descriva. Un individuo di qualunque razza, carattere, morale o status sociale ha come sua necessità il desiderio (sereno o meno dipende dal contesto in cui vive) di risolvere i problemi che inevitabilmente tempestano la sua vita (se poi non ne ha nessuno comincerà a crearsene da solo). Arrivare ad un'età in cui sperare di riuscire ad ottenere ancora qualcosa di grandemente soddisfacente, per l'ideale collettivo della sua società, diventa tristemente quasi impossibile si concentrerà nel risolvere, nel limite delle sue possibilità (anche se il limite è molto basso) ciò che appunto gli impedisce di sperare nel qualcosa di grandemente soddisfacente ed il risolverlo almeno "a tratti" riuscirà a soddisfarlo tanto quanto il male che lo tormenta è grande. Esempio: Ad un uomo di sessant'anni, non giovane ma nemmeno troppo vecchio per sperare in qualcosa di soddisfacente (ripeto perché è importante: Per l'ideale collettivo della società in cui vive), viene diagnosticato un tumore. L'uomo, poiché la paura di morire è troppo grande per qualsiasi creatura, metterà automaticamente senza alcun ripensamento progetti e idee in secondo piano per far spazio al raggiungimento della soddisfazione che la cura o l'attenuazione, per quanto possibile, della malattia darà al suo umore.
Benvenuto nel forum!
E bando alle smancerie anche da parte mia.

Beh, la vita di Epicuro e degli epicurei conseguenti non è affatto dominata dalla paura della morte. Ma nemmeno quella di tanti non epicurei che seguono le più svariate filosofie e scelte di vita provando le più diverse soddisfazioni tali da far loro accettare la morte; per non parlare di quelli che credono nella reale continuazione delle vite umane individuali dopo la morte “terrena” o di chi, come Pepe98, crede che esista un’ unica coscienza universale (personalmente non l’ ho mai capito), e dunque che in realtà se muore un individuo (umano), muore solo una fonte della nostra coscienza, una piccola parte dell’ unica coscienza universale che in realtà siamo.

Concordo invece che ad un certo punto ci si possa trovare in una condizione tale che ci impedisce di sperare di potere realizzare qualcosa di grandemente soddisfacente, abbastanza perché il conseguirlo almeno "a tratti" o in parte riesca a soddisfarci, almeno al punto di controbilanciare il male grande che ci tormenta: è in una tale condizione che credo a un ateo razionalista si ponga il problema del sollievo ottenibile col suicidio (= eutanasia).

Ho 63 anni e sono (finora) in apparentemente buona salute; se mi si diagnosticasse un tumore maligno con scarsissime possibilità di sopravvivenza (per molti invece la medicina moderna scientifica -“occidentale”- offre oggi notevolissime chances di cavarsela, anche se al prezzo di gravi sofferenze) da “epicureo” non temerei la morte (le virgolette perché per altri versi sono un po’ “stoico”), ma cercherei di valutare se ragionevolmente dovessi aspettarmi un periodo di sopravvivenza nel quale le sofferenze e il dolore fossero sopravanzati dalle soddisfazioni che ancora potessi procurarmi vivendo onestamente e “virtuosamente”: in questo caso mi curerei nel limite del possibile (cure palliative della medicina “occidentale” onde limitare le sofferenze della malattia); in caso contrario credo che mi procurerei l’ eutanasia (e credo, o almeno spero, con serenità, pago di ciò che la vita mi ha dato: a caval donato non si guarda in bocca!).
(Non faccio alcuno scongiuro o rito scaramantico perché non sono superstizioso: se domani malauguratamente mi si diagnosticasse un “tumorazzo malignissimo” non sarebbe certo perchè oggi faccio questa ipotesi nel forum!).



@ tutti Lasciatemi gridare tutta la mia soddisfazione:

FINALMENTE UN ARGOMENTO DI DISCUSSIONE DA ME PROPOSTO NEL FORUM HA SUSCITATO TANTO INTERESSE E TANTE CRITICHE (TUTTE BENVENUTE, INDIPENDENTEMENTE DALLA LORO MAGGIORE O MINORE APPREZZABILITÀ DA PARTE MIA)!!!

(Perfino con l' opportunità di fare da "padrino" -dargli l' occasione di intervenire- a un nuovo filosofo del forum:
Un grazie in particolare a Varg75!).

Ultima modifica di sgiombo : 27-09-2015 alle ore 15.59.30.
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Vecchio 27-09-2015, 13.56.24   #36
Jacopus
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Riferimento: Vita, morte, saggezza

Sono stati toccati molti temi interessanti. Aggiungo una citazione da Severino: "cambiano le modalità ma l'essenza del dolore e le tecniche per sconfiggerlo fanno parte da sempre della storia dell'Occidente". La citazione non è proprio esatta ma il senso credo sia questo. Ed è questa la grande importanza dell'Occidente nella storia dell'umanità, non più l'andamento circolare ma quello direzionale. La storia come freccia. Sto forse divagando ma mi piaceva entrare in un nucleo profondo del discorso.
Entrando nel merito penso che darsi la morte sia coerentemente analogo ai trapianti di cuore, ovvero la nostra vita ha ormai una dimensione tecnologica importante e quindi così come si può accettare o rifiutare un trapianto si deve poter decidere se continuare o meno a vivere. Questo da un punto di vista giuridico-sociale. Da un punto di vista personale credo che dovrei vivere direttamente una situazione di dolore tale per prendere posizione in un senso o nell'altro. Le liturgie del dolore, tanto care al cristianesimo, le ho comunque sempre guardate con sospetto.
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Vecchio 27-09-2015, 14.18.15   #37
memento
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?

Citazione:
Originalmente inviato da sgiombo
Cosa è magnanimo e generoso e cosa no non é affatto necessariamente stabilito da dogmi religiosi, é anche avvertito laicamente e ateisticamente e del tutto naturalisticamente (dunque sentirlo é compatibilissimo con l' essere atei, anche più conseguentemente tali di Nietzche).
E infatti la virtù non scompare affatto dal mondo, per il fatto che Dio non esiste (né mai é esistito); spesso é maggiore fra i non credenti che fra i credenti.
È vero,ma stabilire una condotta di vita è stabilire un dogma religioso,ovvero un modello etico di comportamento al quale attenersi. Cioè,puoi anche non credere ad un Dio che ricompensi dopo la morte,ma all'idea di cosa è giusto e virtuoso dovrai per necessità aver fede. Un "dio etico",mettiamola cosi.
Se la morale è un prodotto del tutto naturale,allora deve tenere conto di tutte le situazioni con cui l'individuo si confronta,ed essere continuamente messa in discussione da chi le subisce. La moralità deve configurarsi come una modalità di adattamento alle condizioni che la vita ci pone. Un educazione che duri tutta una vita,perché non si smetta mai di imparare dalle disgrazie che ci accadono. Condivido perciò il tuo approccio sulla fine della vita,il dolore fine a sé stesso non ha nulla da insegnarci,se non a morire. Ma non si può dire lo stesso anche della virtù fine a sé stessa?

Ultima modifica di memento : 27-09-2015 alle ore 23.28.51.
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Vecchio 27-09-2015, 15.52.38   #38
sgiombo
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@paul11

Ritengo che innanzitutto non esista un’ unica, “monolitca” cultura occidentale, ma che nella cultura occidentale (come in ogni altra cultura) esistano contraddizioni più o meno profonde; inoltre che ciò di cui parli sia solo un aspetto, fra gli altri, della medicina scientifica “occidentale”, per quanto importante.

Concordo che l’ odierno mondo “occidentale”, peraltro dominante a livello globale (secondo una terminologia “vetero”, che ritengo più appropriata, l’ attuale società capitalistica), in cui ci tocca di vivere tende ad a imporre a tutti di “correre” (e di non pensare); ma per fortuna non è una tendenza ineluttabile e incontrastabile e personalmente riesco ancora a coltivare il mio senso critico e a vivere secondo ben altre modalità e aspirazioni (e se per assurdo mi trovassi nella condizione di ritenere realisticamente impossibile sottrarmi a questa sorta di -distorto!- “imperativo categorico” del produrre e consumare acriticamente quanto più possibile, questo sarebbe per me un motivo per prendere in considerazione l’ eutanasia ancor più pressante delle peggiori condizioni di salute fisica in cui potessi venirmi a trovare).
In particolare, essendo anticonformista, non temo e non mi preoccupa punto l’ atteggiamento dominante (ma per fortuna non unanime: vedi le belle parole che Sariputra scrive di suo padre) verso la mia condizione di anziano (e presto di anzianissimo).

Credo che "in questo sistema bieco ed oscuro" (“perfettissimamente” d’ accordo!) ci sia ancora la possibilità di vivere eticamente e di lottare contro di esso.

Per fortuna conosco (pochi) maestri e professori (ma pochi sono complessivamente quelli che conosco in generale, dunque una percentuale elevata di quelli che conosco; una è mia moglie, per non parlare dei miei genitori o di certi miei insegnanti che però sono vissuti ai tempi del benemerito muro di Berlino) che non si limitano affatto ad "aspettare la data dello stipendio" e fanno ben altro che "creare fobie scolastiche".

Però anch’ io credo che viviamo in tempi grami e che "per poter vivere oggi una vita ...bisogna avere un gran culo"; e personalmente, anche per essere nato quando ancora c’ era l’ URSS (anzi addirittura ancora era in vita il grande Stalin!), non posso non ritenermi fortunato.
E ovviamente in tempi grami di reazione e decadenza come questi la “morale corrente” fra gli sfruttati è quella del bue che da del cornuto all’ asino (per non parlare di quelle degli sfruttatori e dei variamente privilegiati).
Eppure oltre e contro la “morale corrente” esiste ancora la possibilità, sia pure “fuori dal branco” e alla condizione di avere “due palle così” e in più (probabilmente le “palle” da sole non bastano!) una certa fortuna, di "pensare sovversivamente con la propria testa, fermarsi ad ascoltare e vedere scorci di verità sotto il velo della mediocrità umana di questo tempo", lottare per cercare di realizzare un futuro migliore; o per lo meno per “vendere cara la pelle” come umanità se, come temo, il capitalismo non sarà stato superato per tempo e avrà già irrimediabilmente minato (lo sta facendo molto alacremente) le condizione fisico-chimiche e biologiche della sopravvivenza della specie umana.

Dici che “Non c'è peggior ipocrisia in un sistema che proclama a parole e teorie valori di libertà ,di giustizia, uguaglianza, di diritti sociali e umani... e pratica il sopruso, il dominio, lo sfruttamento. Nessuna cultura è più contraddittoria e dicotomica di quella Occidentale...quì regna la schizofrenia”.
Parole “sante”: qui regna la barbarie!
Ma sarà che sono nato quando ancora c’ era il muro di Berlino (non ancora in senso letterale: era il 1952) ed era più che lecito -era anzi forse addirittura facile!- sperare in un futuro migliore, più civile per l’ umanità, sarà perché ho “conosciuto” Patrice Lumumba, Ernesto Guevara, Salvador Allende, Oscar Romero, Maurice Bishop, Thomas Sankara, i coniugi Ceausescu, Saddam Hussein, Muammar Gheddafi e tanti altri anonimi eroi dell’ umanità (ho seguito con trepidazione le lotte di alcuni di loro e ho pianto le morti di tutti loro, e non posso proprio rassegnarmi a considerare vano il loro sacrificio), sarà per tutti questi “imprinting” che ho avuto, ma sta di fatto che malgrado tutto non sento venir meno la speranza e la voglia di lottare.

Dici “La morte , il dolore e la sofferenza? Lasciamo alla natura questa fatica e cerchiamo di dare affetto e comprensione a chi si sente solo per l'ultimo viaggio e non lasciamo che un corpo fisico sia martoriato separandolo dalla mente, dalla psiche, dalla coscienza, dallo spirito.
Questo è il sistema per togliere la dignità al malato, all'uomo.
Lasciamo che "vada", perchè noi siamo troppo ignoranti come umanità per giudicare ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, nascondendoli dentro un parere scientifico”.
Ma se ci chiede di aiutarlo ad “andare”, non neghiamogli il nostro aiuto!
Non credo che offendiamo la natura, e se esistesse probabilmente nemmeno Dio (su questo evidentemente non ho voce in capitolo), se ci prendiamo qualche licenza sul tempo in cui “andare”.

(Se mi posso concedere una digressione nel “personale”, mi sento molto in sintonia e fraternamente vicino a quanto qui scrivi. Tieni duro!).

Ultima modifica di sgiombo : 28-09-2015 alle ore 08.06.11.
sgiombo is offline  
Vecchio 27-09-2015, 23.20.28   #39
Varg75
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Riferimento: Vita, morte, saggezza

Citazione:
Originalmente inviato da sgiombo
Beh, la vita di Epicuro e degli epicurei conseguenti non è affatto dominata dalla paura della morte. Ma nemmeno quella di tanti non epicurei che seguono le più svariate filosofie e scelte di vita provando le più diverse soddisfazioni tali da far loro accettare la morte; per non parlare di quelli che credono nella reale continuazione delle vite umane individuali dopo la morte “terrena” o di chi, come Pepe98, crede che esista un’ unica coscienza universale (personalmente non l’ ho mai capito), e dunque che in realtà se muore un individuo (umano), muore solo una fonte della nostra coscienza, una piccola parte dell’ unica coscienza universale che in realtà siamo.

(Perfino con l' opportunità di fare da "padrino" -dargli l' occasione di intervenire- a un nuovo filosofo del forum:
Un grazie in particolare a Varg75!).

Un padrino non si rifiuta mai! Grazie per il caloroso benvenuto.

Purtroppo però qui ti devo contraddire. E' evidente che tutte le scelte di vita o idee filosofiche, che riguardano in particolar modo la morte, siano non proprio basate su una valutazione fredda e senza scrupoli della realtà ma, il contrario oserei dire, proprio dalla paura della morte stessa. Anzi, coloro che si sforzano nel trovare tali convinzioni, assolutamente infondate, sono proprio i più colpiti. Secondo me, però, a questo punto è necessaria una precisazione: Morte e Paura della morte sono concettualmente due cose differenti. La morte: Sonno eterno senza sogni per l'ideale di massa, è più o meno semplice in sé da accettare, ma la -paura- quasi impossibile. L'accettazione della morte (cioè della paura della morte), è in realtà una disperata e forzata consolazione che denota una ancora più forte negazione della stessa. Per quanto riguarda gli epicurei, per me, la morte è vista da loro non proprio come una fine della vita individuale ma piuttosto come una nuova singolare condizione di vita finalizzata a sconfiggere la paura. Forse è così che riescono in questo gesto estremo.
Varg75 is offline  
Vecchio 28-09-2015, 00.00.30   #40
Sariputra
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Riferimento: Vita, morte, saggezza

Volevo portare un piccolo contributo per la discussione introducendo una riflessione buddhista sul suicidio come atto per alleviare la propria sofferenza ritenuta insopportabile.
Partendo dalla storia del monaco Channa, Daniel Keown, studioso dell'università di Londra prova a confutare la teoria che il Buddha, in un certo senso, esonerasse il suicidio da qualche valenza morale se praticato per sfuggire alla sofferenza, in particolare da parte dell'uomo pienamente illuminato (arahat) che ha quindi reciso ogni desiderio in sé.

Sariputra e Cunda vanno a trovare il monaco Channa per informarsi sulla sua salute. Lo trovano gravemente sofferente di violentissimi dolori al capo e all'addome, mortali dolori. Ai due amici Channa dice di "voler prendere la lama" per porre fine al dolore e che questo atto non comporterà nessuna rinascita di coscienza in quanto fatto senza desiderio, odio o paura. Sariputra tenta in tutti i modi di dissuadere l'amico, ma Channa rimane risoluto nella sua intenzione. A nulla valgono le preghiere dei due amici. Appena se ne vanno, Channa impugna la lama...
Tornato dal Buddha, Sariputra chiede lumi. Secondo alcune traduzioni dal pali sembrerebbe che Siddharta abbia risposto ."In modo irreprensibile il monaco Channa ha impugnato l'arma"
Ma è proprio così ?

Commenta Keown:

Nonostante tali opinioni a me sembra che il buddhismo creda che ci sia qualcosa d'intrinsecamente sbagliato nel togliersi la vita (come anzi nel togliere la vita a qualsiasi essere vivente) e che la motivazione - per quanto sia molto importante nella valutazione della moralità delle azioni - non sia il solo metro della rettitudine. Ammettere un ruolo determinante alla motivazione mi lascia insoddisfatto in quanto apre la porta alla teoria etica conosciuta come soggettivismo. Il soggettivismo sostiene che il giusto e lo sbagliato esistano solamente in funzione dello stato mentale dell'agente e che gli standard morali siano una faccenda di opinioni o sensazioni personali. Per il soggettivista nulla è oggettivamente moralmente buono o moralmente cattivo e le azioni in sé stesse non hanno caratteristiche morali di rilievo. Il metodo delle "radici del male" nelle valutazioni morali sopra descritto è soggettivismo in quanto ritiene che la stessa azione (il suicidio) possa essere sia giusta che sbagliata a seconda dello stato mentale della persona che si suicida: la presenza del desiderio (o della paura) lo rende sbagliato e l'assenza del desiderio (o della paura) lo rende giusto.

Se applicato ad altri contesti morali tuttavia, questo modo di ragionare porterebbe a conclusioni inusuali. Vorrebbe dire, ad esempio, che l'omicidio sarebbe sbagliato soltanto fintanto che chi lo perpetra abbia il desiderio di uccidere. Ma questo non terrebbe in alcun conto di tutte le dimensioni oggettive del crimine ossia l'errore insito nel privare un innocente della propria vita. Nell'assassinio si commette una grave ingiustizia ad un'altra persona a prescindere dallo stato mentale dell'assassino. Localizzare l' errore dell'omicidio solamente nel desiderio vuol dire non vedere la caratteristica morale cruciale del gesto. Nel suicidio ovviamente non c'è la vittima, ma il confronto illustra come i giudizi morali tipicamente si focalizzino sul cosa è stato fatto e non solo sullo stato mentale dell' agente.
Inoltre, sostenere che il suicidio sia sbagliato se motivato dal desiderio vuol dire sostenere che il solo desiderio sia sbagliato. Da ciò deriverebbe che qualcuno che uccida senza desiderio non farebbe nulla di sbagliato.8 L'assurdità di tale conclusione mostra perché il considerare da un punto di vista soggettivista la moralità del suicidio sia un metodo inadeguato. Il soggettivismo conduce alla conclusione che il suicidio (o l'omicidio) sia giusto per una persona ma sbagliato per un'altra, oppure addirittura che sia giusto e sbagliato per la stessa persona in momenti diversi, a seconda del suo stato mentale, di come il desiderio sorga o cessi.
Le ragioni sopra esposte indicano che la spiegazione offerta dal Lamotte ed altri sul perché il buddhismo condoni il suicidio sia errata. Questo rifiuto del soggettivismo solleva interrogativi sull'opinione comune che il buddhismo condoni il suicidio degli arahat e indica che le basi di questa congettura debbano essere riesaminate.
...
Quinto e ultimo: il suicidio è ripetutamente condannato nelle fonti canoniche e non canoniche e va direttamente "contro la corrente" degli insegnamenti morali buddhisti. Un elenco di motivi per i quali il suicidio è sbagliato si può trovare nei testi anche se non è sviluppata nessuna obiezione di principio contro il suicidio. Questa non è una cosa facile da farsi, Schopenhauer non aveva completamente torto nel dichiarare che le motivazioni morali contro il suicidio "risiedano nel più profondo [dell'animo] e non sono scalfiti dall'etica ordinaria"56. In precedenza ho affermato come la critica del suicidio quale "radice del male", ossia che il suicidio sia sbagliato a causa della presenza del desiderio o dell'avversione, sia insoddisfacente in quanto conducente verso il soggettivismo. L'obiezione più profonda al suicidio mi sembra non si possa trovare in uno stato emotivo dell' agente, piuttosto trovo sia da ricercare in una qualche caratteristica intrinseca dell'atto del suicidio che lo renda moralmente sbagliato. Credo, tuttavia, che ci sia una maniera di conciliare i due modi di affrontare la questione. Per farlo sarà necessario riconoscere l'erroneità del suicidio come risiedente nell'illusione (moha) piuttosto che nelle "radici" emotive del desiderio e dell'odio.

Considerato su queste basi il suicidio è da ritenersi sbagliato in quanto costituente un atto irrazionale. Questo non significa che è attuato [solo] quando l'equilibrio della mente è alterato, ma che è incoerente nel contesto degli insegnamenti buddhisti. E questo è da intendersi nel senso di essere contrario ai valori fondamentali buddhisti. Quello che per il buddhismo ha valore non è la morte, ma la vita. Il buddhismo vede la morte come un' imperfezione, un difetto della condizione umana, una cosa che dev'essere superata piuttosto che ricercata. La morte compare nella prima nobile verità come uno degli aspetti primari della sofferenza (dukkha-dukkha). Una persona che opti per la morte credendola una soluzione alla sofferenza dimostra un'incomprensione fondamentale della prima nobile verità. La prima nobile verità insegna che la morte è il problema, non la soluzione. Il fatto che la persona che commette il suicidio rinascerà e vivrà di nuovo non è importante. La cosa più rilevante [del suo gesto] è che con l'esaltare la morte egli abbia, nel suo cuore, abbracciato Māra(personificazione dell'Illusione; nota pers.). Da un punto di vista buddhista questo è chiaramente irrazionale. Potendo quindi considerare il suicidio [un atto] irrazionale, sotto questo punto di vista si può sostenere che ci siano basi oggettive perché sia considerato moralmente sbagliato.
....
Daniel Keown Trad, Alessandro Selli

Mi è sembrato interessante per provare a vedere da una diversa angolazione ( e cultura) questo tema complesso e arduo da affrontare perché appartenente alla sfera più intima dell'uomo e alla sua capacità di relazionarsi non solo con il mondo come piacere, ma anche con il mondo come dolore e quindi alla vita non come "qualcosa che ci dà soddisfazione" ma alla vita spesso come "qualcosa da sopportare"...
Sariputra is offline  

 



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