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Filosofia - Forum filosofico sulla ricerca del senso dell’essere.
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Vecchio 23-09-2015, 16.40.38   #1
sgiombo
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Vita, morte, saggezza

Per un “epicureo”, o comunque un ateo razionalista che ritiene che nella vita si debba ottenere la maggior felicità possibile nei limiti dell’ onestà e del rispetto dei diritti e delle legittime esigenze altrui, credo che non importi tanto la durata della propria vita quanto piuttosto la sua qualità.
Di tanto in tanto credo che chi seguisse un’ etica siffatta dovrebbe in linea di massima chiedersi se la vita che ragionevolmente si può ritenere probabile gli resti da vivere sia degna di essere vissuta o meno; a proposito della possibile continuazione della propria esistenza dovrebbe fare una sorta di bilancio costi-benefici circa ciò che potrebbe ragionevolmente aspettarsi dal futuro, e decidere di restare in vita nel caso le aspettative siano ragionevolmente positive, di suicidarsi “dolcemente” qualora sia ragionevolmente prevedibile un consistente eccesso di dolori e infelicità piuttosto che soddisfazioni e felicità.
Morire si deve comunque prima o poi, in un modo o nell’ altro, ma ci si può dare di proposito una morte fisicamente indolore e serena (se si è sereni in vita), mentre un decesso naturalmente subito ha “buone” (si fa per dire…) probabilità di essere più o meno violento, doloroso, penoso.
E avanzando negli anni, tendenzialmente sempre minori sono le probabilità di ottenere ulteriori soddisfazioni e felicità, sempre maggiori quelle di ottenere in prevalenza sofferenze e dolori.
Tutto è molto aleatorio in proposito e solo in parte prevedibile, ma anche proprio per questo credo che, giunto a una certa età, in una condizione di salute (inevitabilmente, prima o poi) alquanto precaria, in una situazione nella quale ragionevolmente dovesse aspettarsi in futuro molta più sofferenza che soddisfazioni, un ateo razionalista dovrebbe saggiamente decidere di morire serenamente, sazio di soddisfazioni e pago del proprio essere vissuto onestamente, degnamente.
L’ aleatorietà in moltissimi casi e per tanti importanti aspetti ineliminabile nel prevedere ragionevolmente quale potrebbe essere il proprio probabile futuro rende inevitabilmente sempre difficile una simile decisione.
Ma credo che la prudenza dovrebbe consigliare che sia preferibile perdere qualche ulteriore potenziale anno di vita serena e felice, piuttosto che correre il rischio (se questo rischio è molto elevato; e nel valutarne l’ entità ragionevolmente presumibile sta la difficoltà principale della decisione) di subire molte più sofferenze che soddisfazioni e felicità.
A me piacerebbe potermi accorgere per tempo di essere destinato a soffrire molto più che a gioire (per esempio perché mi vengono diagnosticate una o più malattie croniche inguaribili ma solo lenibili con palliativi e terapie meramente sintomatiche) così da potermi dare una morte indolore nella soddisfazione per avere complessivamente ben vissuto, un po’ come ci si addormenta contenti dopo una giornata in cui si è agito bene e fatto diligentemente il proprio dovere.
Naturalmente è necessario tenere anche conto delle esigenze legittime (ma non: eccessivamente egoistiche o “possessive”) dei propri cari e in generale di ci circonda, degli “altri”, che potrebbero anche avere il sacrosanto diritto di ottenere ancora qualcosa di “spirituale” o anche di materiale da noi (e coi tempi che corrono la pensione di un anziano che ha iniziato a lavorare prima della caduta del muro di Berlino -per me mai abbastanza rimpianto- può costituire un reddito importante in una famiglia).
Voi che ne pensate (se siete giovani e in buona salute probabilmente nulla; io stesso, pur non soffrendo finora di gravi malattie -ma a una certa età bisogna ragionevolmente aspettarsene prima o poi- solo da poco tempo mi pongo il problema)?

Ultima modifica di sgiombo : 24-09-2015 alle ore 13.09.11.
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Vecchio 24-09-2015, 03.50.50   #2
acquario69
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Per un “epicureo”, o comunque un ateo razionalista che ritiene che nella vita si debba ottenere la maggior felicità possibile nei limiti dell’ onestà e del rispetto dei diritti e delle legittime esigenze altrui, credo che non importi tanto la durata della propria vita quanto piuttosto la sua qualità.
Di tanto in tanto credo che chi seguisse un’ etica siffatta dovrebbe in linea di massima chiedersi se la vita che ragionevolmente si può ritenere probabile gli resti da vivere sia degna di essere vissuta o meno; a proposito della possibile continuazione della propria esistenza dovrebbe fare una sorta di bilancio costi-benefici circa ciò che potrebbe ragionevolmente aspettarsi dal futuro, e decidere di restare in vita nel caso le aspettative siano ragionevolmente positive, di suicidarsi “dolcemente” qualora sia ragionevolmente prevedibile un consistente eccesso di dolori e infelicità piuttosto che soddisfazioni e felicità.
Morire si deve comunque prima o poi, in un modo o nell’ altro, ma ci si può dare di proposito una morte fisicamente indolore e serena (se si è sereni in vita), mentre un decesso naturalmente subito ha “buone” (si fa per dire…) probabilità di essere più o meno violento, doloroso, penoso.
E avanzando negli anni, tendenzialmente sempre minori sono le probabilità di ottenere ulteriori soddisfazioni e felicità, sempre maggiori quelle di ottenere in prevalenza sofferenze e dolori.
Tutto è molto aleatorio in proposito e solo in parte prevedibile, ma anche proprio per questo credo che, giunto a una certa età, in una condizione di salute (inevitabilmente, prima o poi) alquanto precaria, in una situazione nella quale ragionevolmente deve aspettarsi in futuro più sofferenza che soddisfazioni, un ateo razionalista dovrebbe saggiamente decidere di morire serenamente, sazio di soddisfazioni e pago del proprio essere vissuto onestamente, degnamente.
L’ aleatorietà in moltissimi casi e per tanti importanti aspetti ineliminabile nel prevedere ragionevolmente quale potrebbe essere il proprio probabile futuro rende inevitabilmente sempre difficile una simile decisione.
Ma credo che la prudenza dovrebbe consigliare che sia preferibile perdere qualche ulteriore potenziale anno di vita serena e felice, piuttosto che correre il rischio (se questo rischio è molto elevato; e nel valutarne l’ entità ragionevolmente presumibile sta la difficoltà principale della decisione) di subire molte più sofferenze che soddisfazioni e felicità.
A me piacerebbe potermi accorgere per tempo di essere destinato a soffrire molto più che a gioire (per esempio perché mi vengono diagnosticate una o più malattie croniche inguaribili ma solo lenibili con palliativi e terapie meramente sintomatiche) così da potermi dare una morte indolore nella soddisfazione per avere complessivamente ben vissuto, un po’ come ci si addormenta contenti dopo una giornata in cui si è agito bene e fatto diligentemente il proprio dovere.
Naturalmente è necessario tenere anche conto delle esigenze legittime (ma non: eccessivamente egoistiche o “possessive”) dei propri cari e in generale di ci circonda, degli “altri”, che potrebbero anche avere il sacrosanto diritto di ottenere ancora qualcosa di “spirituale” o anche di materiale da noi.
Voi che ne pensate (se siete giovani e in buona salute probabilmente nulla; io stesso, pur non soffrendo finora di gravi malattie -ma a una certa età bisogna ragionevolmente aspettarsene prima o poi- solo da poco tempo mi pongo il problema)?

Francamente mi riesce difficile capire il motivo/i che ti ha spinto a scrivere su questo tuo (credo sentito) argomento
daltra parte nemmeno sarei in grado di dare una risposta,non solo per cio che non avrei saputo cogliere da quanto avresti detto ma anche perché la mia eta attuale non mi farebbe ancora "entrare" in quel circolo di domande,semmai me ne venissero in seguito.

ad ogni modo io (personalmente) credo che la saggezza sia arrivare (in vita) a considerare la vita e la morte come un procedimento o una manifestazione che non ci appartiene,se non come qualcosa di "transitorio"…allora penso che quello sia il modo più degno che si possa fare per viverla e in apparente paradosso anche il più concreto
acquario69 is offline  
Vecchio 24-09-2015, 09.13.45   #3
CVC
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Per un “epicureo”, o comunque un ateo razionalista che ritiene che nella vita si debba ottenere la maggior felicità possibile nei limiti dell’ onestà e del rispetto dei diritti e delle legittime esigenze altrui, credo che non importi tanto la durata della propria vita quanto piuttosto la sua qualità.
Di tanto in tanto credo che chi seguisse un’ etica siffatta dovrebbe in linea di massima chiedersi se la vita che ragionevolmente si può ritenere probabile gli resti da vivere sia degna di essere vissuta o meno; a proposito della possibile continuazione della propria esistenza dovrebbe fare una sorta di bilancio costi-benefici circa ciò che potrebbe ragionevolmente aspettarsi dal futuro, e decidere di restare in vita nel caso le aspettative siano ragionevolmente positive, di suicidarsi “dolcemente” qualora sia ragionevolmente prevedibile un consistente eccesso di dolori e infelicità piuttosto che soddisfazioni e felicità.
Morire si deve comunque prima o poi, in un modo o nell’ altro, ma ci si può dare di proposito una morte fisicamente indolore e serena (se si è sereni in vita), mentre un decesso naturalmente subito ha “buone” (si fa per dire…) probabilità di essere più o meno violento, doloroso, penoso.
E avanzando negli anni, tendenzialmente sempre minori sono le probabilità di ottenere ulteriori soddisfazioni e felicità, sempre maggiori quelle di ottenere in prevalenza sofferenze e dolori.
Tutto è molto aleatorio in proposito e solo in parte prevedibile, ma anche proprio per questo credo che, giunto a una certa età, in una condizione di salute (inevitabilmente, prima o poi) alquanto precaria, in una situazione nella quale ragionevolmente deve aspettarsi in futuro più sofferenza che soddisfazioni, un ateo razionalista dovrebbe saggiamente decidere di morire serenamente, sazio di soddisfazioni e pago del proprio essere vissuto onestamente, degnamente.
L’ aleatorietà in moltissimi casi e per tanti importanti aspetti ineliminabile nel prevedere ragionevolmente quale potrebbe essere il proprio probabile futuro rende inevitabilmente sempre difficile una simile decisione.
Ma credo che la prudenza dovrebbe consigliare che sia preferibile perdere qualche ulteriore potenziale anno di vita serena e felice, piuttosto che correre il rischio (se questo rischio è molto elevato; e nel valutarne l’ entità ragionevolmente presumibile sta la difficoltà principale della decisione) di subire molte più sofferenze che soddisfazioni e felicità.
A me piacerebbe potermi accorgere per tempo di essere destinato a soffrire molto più che a gioire (per esempio perché mi vengono diagnosticate una o più malattie croniche inguaribili ma solo lenibili con palliativi e terapie meramente sintomatiche) così da potermi dare una morte indolore nella soddisfazione per avere complessivamente ben vissuto, un po’ come ci si addormenta contenti dopo una giornata in cui si è agito bene e fatto diligentemente il proprio dovere.
Naturalmente è necessario tenere anche conto delle esigenze legittime (ma non: eccessivamente egoistiche o “possessive”) dei propri cari e in generale di ci circonda, degli “altri”, che potrebbero anche avere il sacrosanto diritto di ottenere ancora qualcosa di “spirituale” o anche di materiale da noi (e coi tempi che corrono la pensione di un anziano che ha iniziato a lavorare prima della caduta del muro di Berlino -per me mai abbastanza rimpianto- può costituire un reddito importante in una famiglia).
Voi che ne pensate (se siete giovani e in buona salute probabilmente nulla; io stesso, pur non soffrendo finora di gravi malattie -ma a una certa età bisogna ragionevolmente aspettarsene prima o poi- solo da poco tempo mi pongo il problema)?
Per Epicuro, come per tutti i filosofi dell'età ellenistica, lo scopo della filosofia è la pace dell'anima. Quindi la vita filosofica consiste nell'anticipare le difficoltà della vita, la morte soprattutto, così da poter essere pronti ad affrontarle. "Ogni evento che si sia atteso a lungo giunge più sopportabile" scrive Seneca. Seneca scrive anche, riguardo alle malattie che lo funestarono fin da giovane, che "tante volte pensai a farla finita, ma mi trattenne la vecchiaia del mio amorevolissimo padre, pensai non come morire da forte ma come mio padre non avesse la forza di sopportare la mia scomparsa. Così mi imposi di vivere, a volte anche vivere è un atto di coraggio..." Già, ci sono anche gli altri.
La meditazione sulla morte costituisce gran parte della vita filosofica di questo tipo di filosofie, perché si pensava che una volta affrontato il problema dei problemi, nient'altro avrebbe più potuto turbare l'anima. Seneca poi, anni dopo morì comunque da filosofo. Nerone gli offrì il pugnale e lui si tagliò le vene, anche se era talmente debole che il sangue non riusciva a fluire e il suo suicidio fu straziante. Epicuro, invece, in punto di morte si ubriacò, come a voler festeggiare il suo commiato dalla vita, come uno che se ne va senza rimpianti. Il suicidio, quando non fosse più possibile praticare la virtù, era accettato dagli stoici. Personalmente sono contro ad ogni forma di accanimento terapeutico, vivere e mantenersi in vita sono cose differenti. Ma un anziano che con pure qualche acciacco sia ancora sufficientemente dotato di indipendenza, lucidità e spirito, credo possa provare ancora gioia di vivere. Quando però vivere diventa una tortura, la penso come la pensano in Svizzera.
Concludo con esempi dei giorni nostri. La scrittrice Oriana Fallaci morì da epicurea, si fece portare ostriche e champagne prima di morire. Il regista Monicelli da stoico, quando gli diagnosticarono il cancro si gettò dalla finestra dell'ospedale. Il prede Don Peppino Puglisi, persino canonizzato se non sbaglio, prima di spirare disse sorridente ai suoi assassini: "Me l'aspettavo".
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Vecchio 24-09-2015, 10.07.49   #4
Sariputra
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Per un “epicureo”, o comunque un ateo razionalista che ritiene che nella vita si debba ottenere la maggior felicità possibile nei limiti dell’ onestà e del rispetto dei diritti e delle legittime esigenze altrui, credo che non importi tanto la durata della propria vita quanto piuttosto la sua qualità.
Di tanto in tanto credo che chi seguisse un’ etica siffatta dovrebbe in linea di massima chiedersi se la vita che ragionevolmente si può ritenere probabile gli resti da vivere sia degna di essere vissuta o meno; a proposito della possibile continuazione della propria esistenza dovrebbe fare una sorta di bilancio costi-benefici circa ciò che potrebbe ragionevolmente aspettarsi dal futuro, e decidere di restare in vita nel caso le aspettative siano ragionevolmente positive, di suicidarsi “dolcemente” qualora sia ragionevolmente prevedibile un consistente eccesso di dolori e infelicità piuttosto che soddisfazioni e felicità.
Morire si deve comunque prima o poi, in un modo o nell’ altro, ma ci si può dare di proposito una morte fisicamente indolore e serena (se si è sereni in vita), mentre un decesso naturalmente subito ha “buone” (si fa per dire…) probabilità di essere più o meno violento, doloroso, penoso.
E avanzando negli anni, tendenzialmente sempre minori sono le probabilità di ottenere ulteriori soddisfazioni e felicità, sempre maggiori quelle di ottenere in prevalenza sofferenze e dolori.
Tutto è molto aleatorio in proposito e solo in parte prevedibile, ma anche proprio per questo credo che, giunto a una certa età, in una condizione di salute (inevitabilmente, prima o poi) alquanto precaria, in una situazione nella quale ragionevolmente deve aspettarsi in futuro più sofferenza che soddisfazioni, un ateo razionalista dovrebbe saggiamente decidere di morire serenamente, sazio di soddisfazioni e pago del proprio essere vissuto onestamente, degnamente.
L’ aleatorietà in moltissimi casi e per tanti importanti aspetti ineliminabile nel prevedere ragionevolmente quale potrebbe essere il proprio probabile futuro rende inevitabilmente sempre difficile una simile decisione.
Ma credo che la prudenza dovrebbe consigliare che sia preferibile perdere qualche ulteriore potenziale anno di vita serena e felice, piuttosto che correre il rischio (se questo rischio è molto elevato; e nel valutarne l’ entità ragionevolmente presumibile sta la difficoltà principale della decisione) di subire molte più sofferenze che soddisfazioni e felicità.
A me piacerebbe potermi accorgere per tempo di essere destinato a soffrire molto più che a gioire (per esempio perché mi vengono diagnosticate una o più malattie croniche inguaribili ma solo lenibili con palliativi e terapie meramente sintomatiche) così da potermi dare una morte indolore nella soddisfazione per avere complessivamente ben vissuto, un po’ come ci si addormenta contenti dopo una giornata in cui si è agito bene e fatto diligentemente il proprio dovere.
Naturalmente è necessario tenere anche conto delle esigenze legittime (ma non: eccessivamente egoistiche o “possessive”) dei propri cari e in generale di ci circonda, degli “altri”, che potrebbero anche avere il sacrosanto diritto di ottenere ancora qualcosa di “spirituale” o anche di materiale da noi (e coi tempi che corrono la pensione di un anziano che ha iniziato a lavorare prima della caduta del muro di Berlino -per me mai abbastanza rimpianto- può costituire un reddito importante in una famiglia).
Voi che ne pensate (se siete giovani e in buona salute probabilmente nulla; io stesso, pur non soffrendo finora di gravi malattie -ma a una certa età bisogna ragionevolmente aspettarsene prima o poi- solo da poco tempo mi pongo il problema)?

I seguaci di Epicuro, mi sembra di ricordare, considerano l'assenza di dolore come una forma di piacere, un piacere "neutro", passivo, da distinguersi dalla Gioia che è un piacere attivo, in movimento.
Quindi l'assenza di malanni vari è uno stato già piacevole da vivere.
Nella concezione buddhista invece il piacere è già una forma di dolore in quanto vincola continuamente la mente alla sua ricerca e alla eventuale frustrazione nel non riuscire ad ottenerlo.
Poi mi domando cos'è realmente il piacere di vivere. Noto, per esempio, quanto piacevole risulta per gli anziani passare il tempo a raccontarsi degli innumerevoli problemi di salute che hanno. Si cercano ( a volte pure si sposano ) giusto per condividere insieme questa fase frustrante e dolorosa dell'esistenza. E come sono piacevoli i nipotini che ti corrono appresso e la possibilità di raccontar loro inverosimili storie sulla propria eroica giovinezza. Per non parlare del piacere sublime di essere coccolati da figli amorosi che ti invitano a trascorrere qualche giorno da loro (Invariabilmente lascerai qualche soldino ai piccoli di casa. Anche questo è piacere...).
E poi il piacere di far parte di una categoria speciale...quella degli "inutili" per la società e quindi godere della conseguente libertà dal "dover fare qualcosa..."
Per non parlare del morboso piacere che può dare un catetere per orinare...
Insomma ci sono varie forme di piacere anche nella vecchiaia, che appaiono orribili al giovane e appena, appena accettabili all'adulto in
salute. Ma anche la vita del cinquantenne appare appena appena accettabile quando siamo adolescenti.
La Vita per costringerci ad andare avanti piega la mente, gradualmente, sul contingente e immediato della vecchiaia e stende una coltre di oblio su quello che ci dava piacere nella giovinezza.
Così, piccoli , miseri piaceri di vecchio , strappati come attimi fuggenti alla sofferenza, ci sembreranno già sufficienti per continuare, fino in fondo, l'esperienza del vivere.
Penso che nell'anzianità la Vita appaia ancor più come un inganno dei sensi e questo potrebbe portare il canuto senescente alla saggezza se...la Vita stessa non ti privasse molte volte della possibilità, ultima risorsa che ti rimane, di riflettere su di Essa!
Non ricordo bene la fine di Epicuro ( mi sembra che sia morto di calcolosi renale ormai anziano per l'epoca), ma non vorrei che fosse finito anche lui biascicante con qualcuno che lo aiutava ad alzarsi dal letto, che gli infilava la tunica e che gli puliva il sedere.
Non è così semplice uscire da questo postaccio di mondo...
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Vecchio 24-09-2015, 12.04.28   #5
Duc in altum!
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** scritto da sgiombo:

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A me piacerebbe potermi accorgere per tempo di essere destinato a soffrire molto più che a gioire (per esempio perché mi vengono diagnosticate una o più malattie croniche inguaribili ma solo lenibili con palliativi e terapie meramente sintomatiche) così da potermi dare una morte indolore nella soddisfazione per avere complessivamente ben vissuto, un po’ come ci si addormenta contenti dopo una giornata in cui si è agito bene e fatto diligentemente il proprio dovere.


Premettendo che sono completamente d'accordo con questa tua schietta e appassionante riflessione epicurea: libero arbitrio al di sopra di tutti e prima di ogni cosa; desidero farti riflettere solo su alcuni aspetti che secondo me, nei tuoi concetti, sono contraddittori.

Darsi una morte indolore non concede la stessa sicurezza di aver fatto diligentemente il proprio dovere, così come quando ci si pone, con un sorriso da lobo a lobo, con il capo sul cuscino, dopo una giornata in cui, una coscienza tranquilla e una pace nel cuore e un'assenza di preoccupazioni, ci fanno sperimentare empiricamente che si è agito bene.

E' una scommessa che il suicidio possa rientrare nei doveri umani o, forse, danneggiare irrimediabilmente, il buon agire di un'intera esistenza.
E la conferma è che tu affermi che ti piacerebbe accorgerti per tempo sul tuo futuro, mentre non puoi far altro che avere fede, fiducia, che il tuo gesto non sia una stupidaggine dettata dalla disperazione creata dal panico alla sofferenza.




Pace&Bene
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Vecchio 24-09-2015, 14.39.16   #6
memento
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Una vita senza patimenti non può esistere,sarebbe priva di senso.Il dolore ci è necessario per fare esperienze e farne tesoro,la vita stessa potremmo considerarla come educazione al dolore. Abituati agli agi dei giorni nostri,abbiamo dimenticato il vero volto dell'esistenza,la sofferenza. Ma non capisco anche chi,guardandola in faccia,si gira dall'altra parte,pur professandone la verità. E mi ci metto anch'io fra questi,ma per cosa poi?
A mio avviso quindi la qualità del vivere sta nella qualità del tuo soffrire. Questo non significa che a dolore più grande corrisponde esperienza più gratificante,ma che più avrai coraggio di esplorare e affrontare il dolore,più la tua esperienza di vita assumerà nuovi significati e potrà dirsi sensata. Molto spesso si associa erroneamente l'infelicità al dolore,bensì la causa è il rifiuto di tale dolore,che lo rende pesante a sopportare. Prendiamolo invece per quello che è,uno stimolo vitale,un segno dell'universo solo per noi.
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Vecchio 24-09-2015, 18.51.47   #7
paul11
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Per un “epicureo”, o comunque un ateo razionalista che ritiene che nella vita si debba ottenere la maggior felicità possibile nei limiti dell’ onestà e del rispetto dei diritti e delle legittime esigenze altrui, credo che non importi tanto la durata della propria vita quanto piuttosto la sua qualità.
Di tanto in tanto credo che chi seguisse un’ etica siffatta dovrebbe in linea di massima chiedersi se la vita che ragionevolmente si può ritenere probabile gli resti da vivere sia degna di essere vissuta o meno; a proposito della possibile continuazione della propria esistenza dovrebbe fare una sorta di bilancio costi-benefici circa ciò che potrebbe ragionevolmente aspettarsi dal futuro, e decidere di restare in vita nel caso le aspettative siano ragionevolmente positive, di suicidarsi “dolcemente” qualora sia ragionevolmente prevedibile un consistente eccesso di dolori e infelicità piuttosto che soddisfazioni e felicità.
Morire si deve comunque prima o poi, in un modo o nell’ altro, ma ci si può dare di proposito una morte fisicamente indolore e serena (se si è sereni in vita), mentre un decesso naturalmente subito ha “buone” (si fa per dire…) probabilità di essere più o meno violento, doloroso, penoso.
E avanzando negli anni, tendenzialmente sempre minori sono le probabilità di ottenere ulteriori soddisfazioni e felicità, sempre maggiori quelle di ottenere in prevalenza sofferenze e dolori.
Tutto è molto aleatorio in proposito e solo in parte prevedibile, ma anche proprio per questo credo che, giunto a una certa età, in una condizione di salute (inevitabilmente, prima o poi) alquanto precaria, in una situazione nella quale ragionevolmente dovesse aspettarsi in futuro molta più sofferenza che soddisfazioni, un ateo razionalista dovrebbe saggiamente decidere di morire serenamente, sazio di soddisfazioni e pago del proprio essere vissuto onestamente, degnamente.
L’ aleatorietà in moltissimi casi e per tanti importanti aspetti ineliminabile nel prevedere ragionevolmente quale potrebbe essere il proprio probabile futuro rende inevitabilmente sempre difficile una simile decisione.
Ma credo che la prudenza dovrebbe consigliare che sia preferibile perdere qualche ulteriore potenziale anno di vita serena e felice, piuttosto che correre il rischio (se questo rischio è molto elevato; e nel valutarne l’ entità ragionevolmente presumibile sta la difficoltà principale della decisione) di subire molte più sofferenze che soddisfazioni e felicità.
A me piacerebbe potermi accorgere per tempo di essere destinato a soffrire molto più che a gioire (per esempio perché mi vengono diagnosticate una o più malattie croniche inguaribili ma solo lenibili con palliativi e terapie meramente sintomatiche) così da potermi dare una morte indolore nella soddisfazione per avere complessivamente ben vissuto, un po’ come ci si addormenta contenti dopo una giornata in cui si è agito bene e fatto diligentemente il proprio dovere.
Naturalmente è necessario tenere anche conto delle esigenze legittime (ma non: eccessivamente egoistiche o “possessive”) dei propri cari e in generale di ci circonda, degli “altri”, che potrebbero anche avere il sacrosanto diritto di ottenere ancora qualcosa di “spirituale” o anche di materiale da noi (e coi tempi che corrono la pensione di un anziano che ha iniziato a lavorare prima della caduta del muro di Berlino -per me mai abbastanza rimpianto- può costituire un reddito importante in una famiglia).
Voi che ne pensate (se siete giovani e in buona salute probabilmente nulla; io stesso, pur non soffrendo finora di gravi malattie -ma a una certa età bisogna ragionevolmente aspettarsene prima o poi- solo da poco tempo mi pongo il problema)?

da "bastian contrario" rispondo provocatoriamente, anche per alimentare punti di vista diversi.
Un "ateo razionalista" per quale motivo dovrebbe farsi scrupoli sull'onestà e dignità, termini moraleggianti che nulla hanno a che fare nella materialità dell'esistenza, se non per costruire ipocrite supporti alle ben più importanti logiche di dominio?
Se io fossi ateo e razionalista e credessi che la mia esistenza, vita, finisse alla polvere condividerei in pieno il pensiero di Nietzsche, perchè è nudo e crudo quanto la realtà materiale dell'esistenza.

La felicità personale sarebbe l'unico scopo, e la morte una semplice fiala in un cassetto pronta alla bisogna.
paul11 is offline  
Vecchio 24-09-2015, 19.18.19   #8
sgiombo
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Finalmente una discussione da me aperta con ben cinque (5) interventi (finora).
Nelle precedenti occasioni per contarli avanzavano alcune dita della mano...
Ringrazio tutti per questo, anche quelli che non ho capito proprio (e mi pare viceversa: segnatamente Acquario).

L' intervento che più condivido é quello di CVC (a parte l' apprezzamento per Oriana Fallaci, che detesto dal più profondo del cuore).
Io ho già contattato l' istituto svizzero che si occupa di aiutare a morire serenamente, conosciuto allorché se ne avvalse Lucio Magri; tuttavia penso che se avrò la fortuna di potermi dare serenamente la morte "per tempo", cioé prima di incorrere in sofferenze eccessivamente pesanti e non sufficientemente compensate da soddisfazioni, provvederò personalmente alla bisogna; sono medico e posso "fare da me").

A Sariputra devo dire che per quel che ne so Epicuro visse serenamente fino a tarda età e morì effettivamente per un’ ostruzione delle vie urinarie (ipertofia prostatica scompensata? Calcolo dell' uretra?) fra atroci sofferenze fisiche durate vari giorni e sopportate magnificamente con grande forza d’ animo, circondato dall’ affetto e dall' ammirazione dei suoi seguaci (che potrebbero avere forse un po’ abbellito la storia).

Vorrei precisare che non sono un pavido, che ho anche affrontato disagi e privazioni nella vita (che avrei potuto evitare a costo della mia dignità), che non mi spaventa il dolore, se serve una causa giusta o se serve a procurarsi soddisfazioni maggiori, che ne “valgano la pena”, ma che non saprei accettare volentieri una sofferenza fine a se stessa che non servisse né a coltivare la virtù (che con gli stoici considero sempre “premio a se stessa”, anche a costo del dolore più grande immaginabile), né a servire una causa degna, né a procurarmi altre soddisfazioni che lo compensino adeguatamente.
Vorrei potermi dare serenamente la morte nel caso fosse ragionevolmente prevedibile che mi rimarrebbe una vita nella quale la sofferenza fosse molto maggiore delle gioie e della felicità e non compensata dall’ onestà, dalla “virtù” o da vari altri tipi di soddisfazione: per problemi di salute decisamente gravi, e non certo alla prima febbriciattola o al primo acciacco della vecchiaia! (Alcuni dei quali fra l’ altro già subisco da qualche tempo senza venirne minimamente impressionato o scoraggiato).

Con DucinAltum! devo dire che (al solito) non sono d’ accordo; in particolare con l’ affermazione per la quale “Darsi una morte indolore non concede la stessa sicurezza di aver fatto diligentemente il proprio dovere, così come quando ci si pone, con un sorriso da lobo a lobo, con il capo sul cuscino, dopo una giornata in cui, una coscienza tranquilla e una pace nel cuore e un'assenza di preoccupazioni, ci fanno sperimentare empiricamente che si è agito bene”.
La sicurezza di aver fatto diligentemente il proprio dovere ce la può ben dare la nostra coscienza senza bisogno dell’ approvazione di nessun moralista di professione, di nessun confessore, di nessun DucinAltum!, di nessun Chichessia (i quali avrebbero -se per assurdo li si volesse ritenere arbitri della bontà o malvagità del nostro agire- la stessa nostra umana fallibilità, senza avere di noi stessi la conoscenza che abbiamo noi).
Inoltre non ritengo affatto il suicidio, o meglio l’ eutanasia, un dovere, bensì casomai un diritto; e non vedo come potrebbe mai “danneggiare irrimediabilmente, il buon agire di un'intera esistenza”, se praticato tenendo conto (anche) dei nostri reali doveri verso chi ci sopravvive (e non di eventuali loro indebitamente eccessive pretese -prepotenze!- nei nostri confronti).
Una stupidaggine (da masochista) sarebbe casomai per me accettare sofferenze atroci “fini a se stesse”, cioè non giustificate e compensate da adeguate ricompense di varia natura (in primis la “virtù” degli stoici).
sgiombo is offline  
Vecchio 25-09-2015, 05.00.58   #9
acquario69
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anche quelli che non ho capito proprio (e mi pare viceversa: segnatamente Acquario)
.

mi sono riallacciato al titolo,non avendo punti di riferimento validi (i miei) per l'argomento perché evidentemente non sono riuscito a trovare una risposta valida per me stesso..(ma l'argomento lo trovo interessante a prescindere ed e' un motivo per provare a capirne qualcosa in più) pero ritengo che il problema della morte sia indissolubilmente collegato a quello della vita,in senso meno specifico nel caso in questione di auto-eutanasia.
secondo me,tornando a quest'ultimo,sarebbe inutile negare che non abbia in se delle contraddizioni di fondo,sfido chiunque anche i più convinti di voler prendere questa decisione e che non abbiano avuto anche solo per un istante,ripensamenti o cose del genere..
a quel punto ogni discussione,ogni dubbio,non penso si sarebbe nemmeno presentato,forse bisognerebbe esserci "fisicamente" in quelle situazioni per poter effettivamente rendersi conto il più vicino possibile di cio che potrebbe comportare di fatto e se in quei momenti specifici non intervenga magari qualcos'altro e in maniera del tutto inaspettata che faccia cambiare completamente idea,almeno per come si era assunta precedentemente..ma solo in maniera teorica

quello di cui non ho dubbi e' il voler prolungare la vita a tutti i costi (accanimento terapeutico,che serve solo a prolungare un eventuale agonia) ma il punto per me e'; e' giusto che si intervenga "artificialmente" (sia nel prolungarla a tutti i costi,sia ad interromperla) oppure e' la natura che deve fare il suo corso fino all'ultimo?
vi sarebbe in quest'ultima mia domanda non tanto il cosa sia giusto o meno,che al limite potrebbe essere solo il suo rivestimento più superficiale ma andando più a fondo,vi sarebbe invece il chiedersi il motivo stesso del rifiuto del dolore e della sofferenza,anche se bisogna ammettere che a nessuno credo faccia piacere,nella sua ovvietà..dunque sembrerebbe scontata MA..su quest'ultimo punto,almeno per come lo avvertirei io,ci troverei comunque una stonatura di fondo,difficilmente se non impossibile da rintracciare ma comunque presente.
acquario69 is offline  
Vecchio 25-09-2015, 07.55.01   #10
pepe98
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Riferimento: Vita, morte, saggezza

Citazione:
Originalmente inviato da sgiombo
Per un “epicureo”, o comunque un ateo razionalista che ritiene che nella vita si debba ottenere la maggior felicità possibile nei limiti dell’ onestà e del rispetto dei diritti e delle legittime esigenze altrui, credo che non importi tanto la durata della propria vita quanto piuttosto la sua qualità.
Di tanto in tanto credo che chi seguisse un’ etica siffatta dovrebbe in linea di massima chiedersi se la vita che ragionevolmente si può ritenere probabile gli resti da vivere sia degna di essere vissuta o meno; a proposito della possibile continuazione della propria esistenza dovrebbe fare una sorta di bilancio costi-benefici circa ciò che potrebbe ragionevolmente aspettarsi dal futuro, e decidere di restare in vita nel caso le aspettative siano ragionevolmente positive, di suicidarsi “dolcemente” qualora sia ragionevolmente prevedibile un consistente eccesso di dolori e infelicità piuttosto che soddisfazioni e felicità.
Morire si deve comunque prima o poi, in un modo o nell’ altro, ma ci si può dare di proposito una morte fisicamente indolore e serena (se si è sereni in vita), mentre un decesso naturalmente subito ha “buone” (si fa per dire…) probabilità di essere più o meno violento, doloroso, penoso.
E avanzando negli anni, tendenzialmente sempre minori sono le probabilità di ottenere ulteriori soddisfazioni e felicità, sempre maggiori quelle di ottenere in prevalenza sofferenze e dolori.
Tutto è molto aleatorio in proposito e solo in parte prevedibile, ma anche proprio per questo credo che, giunto a una certa età, in una condizione di salute (inevitabilmente, prima o poi) alquanto precaria, in una situazione nella quale ragionevolmente dovesse aspettarsi in futuro molta più sofferenza che soddisfazioni, un ateo razionalista dovrebbe saggiamente decidere di morire serenamente, sazio di soddisfazioni e pago del proprio essere vissuto onestamente, degnamente.
L’ aleatorietà in moltissimi casi e per tanti importanti aspetti ineliminabile nel prevedere ragionevolmente quale potrebbe essere il proprio probabile futuro rende inevitabilmente sempre difficile una simile decisione.
Ma credo che la prudenza dovrebbe consigliare che sia preferibile perdere qualche ulteriore potenziale anno di vita serena e felice, piuttosto che correre il rischio (se questo rischio è molto elevato; e nel valutarne l’ entità ragionevolmente presumibile sta la difficoltà principale della decisione) di subire molte più sofferenze che soddisfazioni e felicità.
A me piacerebbe potermi accorgere per tempo di essere destinato a soffrire molto più che a gioire (per esempio perché mi vengono diagnosticate una o più malattie croniche inguaribili ma solo lenibili con palliativi e terapie meramente sintomatiche) così da potermi dare una morte indolore nella soddisfazione per avere complessivamente ben vissuto, un po’ come ci si addormenta contenti dopo una giornata in cui si è agito bene e fatto diligentemente il proprio dovere.
Naturalmente è necessario tenere anche conto delle esigenze legittime (ma non: eccessivamente egoistiche o “possessive”) dei propri cari e in generale di ci circonda, degli “altri”, che potrebbero anche avere il sacrosanto diritto di ottenere ancora qualcosa di “spirituale” o anche di materiale da noi (e coi tempi che corrono la pensione di un anziano che ha iniziato a lavorare prima della caduta del muro di Berlino -per me mai abbastanza rimpianto- può costituire un reddito importante in una famiglia).
Voi che ne pensate (se siete giovani e in buona salute probabilmente nulla; io stesso, pur non soffrendo finora di gravi malattie -ma a una certa età bisogna ragionevolmente aspettarsene prima o poi- solo da poco tempo mi pongo il problema)?
Il fatto è che la gente ha paura della morte perché si affida al senso comune secondo il quale la vita è un percorso in avanti che arriva fino al "nulla". Ma basta ragionare un po' per capire che allora si tratterebbe di un loop, di cui il nulla non può fare parte. Inoltre la mia filosofia mostra come sia una nostra invenzione la separazione delle coscienze, quindi in realtà se muore uno, muore solo una fonte della nostra coscienza.
pepe98 is offline  

 



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