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Filosofia - Forum filosofico sulla ricerca del senso dell’essere.
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Vecchio 24-09-2004, 18.30.41   #1
bert
Ospite abituale
 
Data registrazione: 01-06-2004
Messaggi: 105
Come definire l'onestà intellettuale?

Cari tutti,

Nel leggere un bel testo dell'amato bertrand russull dal titolo "filosofia dell'atomismo logico", ho avuto modo di riflettere sulle conseguenze dell'atteggiamento del filosofo inglese sulla filosofia, e più in generale, sul discorrere e sull'argomentare.

Russell enuncia a suo modo quella che è pooi la cifra stilistica dell'approccio che a breve sarebbe diventato quello della cosiddetta filosofia analitica, ovvero: ogni qual volta si enunci un pensiero, si deve controllare quello che si dice, e le conseguenze delle nostre proposizioni. Un atteggiamento dunque rigoroso, preciso, analitico, e per questo così cristallino.

Russell ovviamente pensa ad una critica netta nei confronti della metafisica, quando appunto dice che è la struttura logica del pensiero la vera "sostanza" del filosofare, più che un apparato metafisico.

nel leggere questa opinione, che come avrete capito, condivido pienamente, ho inoltre pensato che questo atteggiamento potrebbe portare automaticamente, se applicato, ad un buon livello di onestà intellettuale.

L'onestà intellettuale è, secondo me, prendersi le responsabilità delle proprie idee, dei propri argomenti, fino in fondo.
Come fare questo? se applichiamo la ricetta di russell, allora prima proponiamo la nostra idea, teoria, opinione, ecc. Poi cerchiamo di generare (per quanto possibile) tutte le implicazioni di questa teoria o opinione in altri contesti, per vedere se (1) se è ancora valida (2) se si scontra con altre teorie o verità date in precedenza considerate vere.

A tal riguardo faccio un esempio a me caro, che ho per altro sempre fatto, ma che adesso comprendo in modo nuovo.

Se uno credesse all'astrologia, non ci sarebbe nulla di male. Tante persone credono all'astrologia, senza per questo imporre ad altri tale credenza. Quindi tutto legittimo.

Ma se il nostro crede all'astrologia, dovrebbe necessariamente credere che la legge della gravitazione di Newton possa perdere di validità in certi casi. Infatti come sarebbe possibile un'influenza così potente di astri tanto lontani, se la forza che tali astri esercitano su di noi diminuisce all'aumentare del quadrato della distanza tra noi e l'astro?

Tuttavia quando invece il nostro amico lasciasse cadere un mazzo di chiavi dalla torre di pisa quando l'andasse a visitare, penserebbe, giustamente, che il mazzo è caduto a causa della forza di gravità regolata appunto dalla nota legge di newton.

A questo punto nasce una contraddizione forte. Infatti come è possibile che la stessa materia con cui son fatte le cose dell'universo
possa essere regolata da leggi così diverse a seconda della situazione?
Non c'è infatti nessun motivo per pensare che se una certa legge fisica verificata sulla terra, tale legge possa essere disattesa su un pianeta della costellazione del capricorno!!

Per finire. Indipendentemente dal particolare esempio che vi ho proposto, quello che voglio qui sostenere, è che l'onestà intellettuale è anche il contestualizzare le proprie opinioni e credenze in ambiti diversi da quello nel quale si sono inizialmente sviluppate questa credenze e opinioni. Questo solo per dire che non volevo, qui, dimostrare la fallacia dell'astrologia. Anche perché, come mi dice il buon russell, non posso proprio farlo, non essendo il nostro linguaggio in grado di farlo!!
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Vecchio 24-09-2004, 19.50.30   #2
epicurus
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ciao bert, qualche mese fa ho letto il libro in questione e l'ho trovato estremamente interessante, appunto perchè propone un nuovo concetto di 'far filofosia': grazie a questo libro, e al Tractatus di Wittgenstein, nasce la filosofia analitica, a me tanto cara.

Ho sempre apprezzato l'onestà intellettuale, probabilmente ancor più della verità delle affermazioni: apprezzo di più un filosofo con grande onestà intellettuale che sbagli, piuttosto di uno che crede ad una verità ma la sua onestà intellettuale lascia a desiderare.

Russell è sicuramente un filosofo che va rivisto, ma sicuramente è stato uno dei filosofi con maggior onestà intellettuale.

Bert, condivido pienamente l'idea dello studio delle conseguenze delle nostre tesi, metodo, questo, che applico sempre alle mie e altrui tesi (magari non correttamente, ma almeno ci provo).

Ho una tesi, cerco di trovare tutte le deduzioni che da essa si possono trarre e controllo se vanno a cozzare con un'altra mia tesi o con un fatto assodato (magari una osservazione immediata).

Cero è che se (come molti forumisti) si decide di metter da parte il ragionamento e la testa in filosofia, allora si potranno anche credere a tesi incomplatibili.

epicurus is offline  
Vecchio 25-09-2004, 10.55.55   #3
epicurus
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mi reintrometto: penso che fortemente correlata all'onesta intellettuale ci sia quella concezione chiamata 'sperimentalismo'.

Si è sperimentalisi quando si cerca continuamente di ternere sotto tensione le proprie teorie, cercando controesempi, incongruenze o altro, che possano falsificarle.

Quando si riuscirà a vedere il filosofare come una ricerca (nel senso scientifico del termine) e non un modo per confermare continuamente le proprie idee, allora si che la filosofia riceverà preziosi apporti.

Io trovo che sia importantissimo il fatto che un filosofo cambi idea, e persino le idee-base.
Io parecchie volte ho cambiato idee su argomenti centrali (ero materialista, ero determinista, ero verificazionista, ero un realista tradizionale, ..., ora non più).

Apprezzo molto i filosofi analitici proprio perchè vedono il filosofare come una ricerca, e questo li porta spesso a cambiare un'intera impostazione concettuale: questo denota grande onesta intellettuale.


epicurus
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Vecchio 05-10-2004, 00.21.34   #4
Marco Cicuta
Ospite
 
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Messaggi: 14
ciao bert, ciao epicurus.

è bello trovare le vostre dichiarazioni di principi nel forum.
Non sono esperto di filosofia analitica, ma condivido in pieno l' idea di filosofia come ricerca, l' apertura dei propri paradigmi, ecc. ecc.

Per questo mi trovo spesso in imbarazzo nel forum di riflessioni.it. Spesso non mi capacito, ci sono interi settori, forse generazioni, di novelli come pure di "navigati" pensatori che non fanno altro che parlarsi addosso. La cosa più incredibile è che riescono a darsi ragione, ma sulla base di quali argomenti, dimostrazioni, analisi, non si sa proprio.
Forse è una questione di "Stimmung", una roba un pò empatica, campo sul quale noi sostenitori del pensiero analitico, si sa, siamo un pò lenti.
Ad ogni modo niente di male, va bene anche se chi interviene si lascia un pò andare, non incasella perfettamente le deduzioni e le premesse, il dialogo va comunque apprezzato. Ma capita anche che nella foga vengano anche veicolate idee sorprendenti, veramente imbarazzanti a livello civile. Improvvisamente, ti capita lì una frase tipo "io lo so, degli arabi non ti puoi fidare". Magari è anche vero, ma che diamine, siamo in un forum di filosofia, possibile che una frase de genere non venga neanche problematizzata? e ce ne sono di esempi!

Ecco, io penso che serebbe bene, per i pensatori che valutano l' analisi e l' argomentazione come i punti nodali dell' onestà intelettuale, non limitarsi a creare stanze separate, dove gli stessi valori, riferimenti e procedimenti vengono rispettati, ma infilarsi dove volano le parole grosse, e dove i giudizi ti possono cascare addosso senza preavviso, semplicemente per chiedere: davvero? come lo sai? come passi da qui a qui?

si può fare?

con affetto

Marco Cicuta
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Vecchio 05-10-2004, 01.55.39   #5
leibnicht
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Data registrazione: 06-09-2003
Messaggi: 486
Siccome mi sento

(sventuratamente) chiamato in causa... Mi introduco con una modesta considerazione nella presente discussione.
Temo, infatti, di essere io l'autore della frase relativa alla mancanza di lealtà degli arabi, comparsa in seno ad un altro dibattito.
Permettetemi, quindi, per effettiva esigenza di chiarezza (la quale è premessa logica, mi pare, per Russell, dell'onestà intellettuale), di spiegarla.
Credo che esista una differenza fondamentale tra opinioni e idee, intese queste ultime non nel senso alto degli idealismi filosofici, ma in quello più generico di orientamenti di massima del pensiero, la cui aspirazione è quella di coniugare in una coerenza sostanziale il proprio "sentire" con il proprio "agire".
Le opinioni che, pure, da un lato attingono alle idee, da un altro non possono che confrontarsi con il contesto in cui sono espresse e con il ruolo (ossia l'insieme di aspettative di Altri che noi legittimamente riteniamo di dover confermare) che ci riconosciamo in quel contesto.
Ora, mentre ci sono ruoli nei quali autenticamente posso progettarmi, altri ve ne sono in cui debo riconoscermi una certa inautenticità.
Così, ad esempio, una qualsiasi opinione sulla povertà e lo sviluppo in Argentina sarà diversa se la esprimo da economista liberale oppure da cugino e nipote di emigranti italiani in quel Paese: sebbene la massima che ispira i miei giudizi sia la stessa.
Dunque, cosa c'è di strano se l'arabo, quando dialoga in quanto arabo, non è affidabile, mentre lo può essere, certamente, in quanto padre, tecnico, uomo di cultura?
La sua scarsa affidabilità, in realtà, mette in conto anche me, quando sono il suo interlocutore: ed è ovvio che, nel tacciarlo di "slealtà", io, a mia volta, parlo da occidentale, in quanto occidentale.
Non sono così sciocco da non comprendere che il mio giudizio di slealtà non è che il giudizio "intersezione" tra due modi e mondi culturalmente diversi.
Ma quando esprimo le mie opinioni nel contesto di una discussione in cui sento che il mio ruolo non può essere che quello di uno che propugna la sua scelta, ideale, di "appartenenza" al suo proprio mondo di valori, allora il mio giudizio non può più stemperarsi in così tanti "distinguo".

A otto anni, al mercato di Fetiye offesi un venditore di dolci: gli chiesi quanto costava una ciambella e, avutane la risposta, gli porsi il denaro.
Lui mi mise in mano, nervosamente, la ciambella e rifiutò i miei soldi.
Un momento dopo mio padre mi spiegava che, in quel modo, io avevo disprezzato la sua merce. La compravendita era, infatti, un'occasione per far valere, attraverso la qualità della propria merce, la propria dignità e serietà.
Non potevo accettare, senza contrattarla, la cifra richiesta: era un atto arrogante che umiliava il venditore.

Infine, caro Cicuta, perchè sei venuto a lamentarti su di un altro thread (e perdipiù proprio in uno in cui si discute di onestà intellettuale)?
Giacchè mi avevi risposto su quell'altro, perchè non rimarcare in quella sede la tua critica ?
leibnicht is offline  
Vecchio 05-10-2004, 09.16.47   #6
bert
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Messaggi: 105
Re: Siccome mi sento

poche veloci parole sulla questione.

Io sono un fervente sostenitore dell'incapacità del significato di significare se decontestualizzato. Mi spiego: non c'è significato senza contesto, non c'è nulla di umano senza contesto. Il contesto è lo spazio nel quale sempre ci muoviamo e sempre diciamo qualcosa, e quel movimento e quelle parole acquistano un senso solo all'interno di quel particolare contesto.

Dunque, sempre le comunicazioni acquistano senso nei contesti, e contesti diversi creano diversi significati.

Ho quindi risposto: l'onestà intellettuale è (anche) comprendere come una nostra certa teoria o convinzione abbia risvolti nel contesto nel quale noi l'abbiamo inizialmente fatta nascere. E' chiaro che, se cambio il contesto, la medesima teoria o convinzione cambia risvolti e significati.

Non dobbiamo quindi allarmarci se le nostre idee hanno valenze diverse in contesti diversi: questo è un fatto naturale ed ovvio, e, soprattutto, assolutamente ineludibile (sulla questione dell'ineludibilità, prometto che ve ne farò parola quando avrò qualche minuto in più...)

Dunque, se io penso che gli arabi non siano leali, questo pensiere per se non vuol dire assolutamente nulla. Quali tra i tanti arabi ? e di quale nazionalità? arabi credenti o meno? arabi musulmani? o cattolici? e dove sono gli arabi in questione? in casa loro? al governo dell'iran? ... potrei andare avanti ore.....

E quindi tutto questo che significa? il mio senso è: basta contestualizzare. A questo punto io sono in grado di esprimere un giudizio morale/etico sul contenuto di quanto è stato detto, e posso quindi emettere la mia conclusione.




Citazione:
Messaggio originale inviato da leibnicht
(sventuratamente) chiamato in causa... Mi introduco con una modesta considerazione nella presente discussione.
Temo, infatti, di essere io l'autore della frase relativa alla mancanza di lealtà degli arabi, comparsa in seno ad un altro dibattito.
Permettetemi, quindi, per effettiva esigenza di chiarezza (la quale è premessa logica, mi pare, per Russell, dell'onestà intellettuale), di spiegarla.
Credo che esista una differenza fondamentale tra opinioni e idee, intese queste ultime non nel senso alto degli idealismi filosofici, ma in quello più generico di orientamenti di massima del pensiero, la cui aspirazione è quella di coniugare in una coerenza sostanziale il proprio "sentire" con il proprio "agire".
Le opinioni che, pure, da un lato attingono alle idee, da un altro non possono che confrontarsi con il contesto in cui sono espresse e con il ruolo (ossia l'insieme di aspettative di Altri che noi legittimamente riteniamo di dover confermare) che ci riconosciamo in quel contesto.
Ora, mentre ci sono ruoli nei quali autenticamente posso progettarmi, altri ve ne sono in cui debo riconoscermi una certa inautenticità.
Così, ad esempio, una qualsiasi opinione sulla povertà e lo sviluppo in Argentina sarà diversa se la esprimo da economista liberale oppure da cugino e nipote di emigranti italiani in quel Paese: sebbene la massima che ispira i miei giudizi sia la stessa.
Dunque, cosa c'è di strano se l'arabo, quando dialoga in quanto arabo, non è affidabile, mentre lo può essere, certamente, in quanto padre, tecnico, uomo di cultura?
La sua scarsa affidabilità, in realtà, mette in conto anche me, quando sono il suo interlocutore: ed è ovvio che, nel tacciarlo di "slealtà", io, a mia volta, parlo da occidentale, in quanto occidentale.
Non sono così sciocco da non comprendere che il mio giudizio di slealtà non è che il giudizio "intersezione" tra due modi e mondi culturalmente diversi.
Ma quando esprimo le mie opinioni nel contesto di una discussione in cui sento che il mio ruolo non può essere che quello di uno che propugna la sua scelta, ideale, di "appartenenza" al suo proprio mondo di valori, allora il mio giudizio non può più stemperarsi in così tanti "distinguo".

A otto anni, al mercato di Fetiye offesi un venditore di dolci: gli chiesi quanto costava una ciambella e, avutane la risposta, gli porsi il denaro.
Lui mi mise in mano, nervosamente, la ciambella e rifiutò i miei soldi.
Un momento dopo mio padre mi spiegava che, in quel modo, io avevo disprezzato la sua merce. La compravendita era, infatti, un'occasione per far valere, attraverso la qualità della propria merce, la propria dignità e serietà.
Non potevo accettare, senza contrattarla, la cifra richiesta: era un atto arrogante che umiliava il venditore.

Infine, caro Cicuta, perchè sei venuto a lamentarti su di un altro thread (e perdipiù proprio in uno in cui si discute di onestà intellettuale)?
Giacchè mi avevi risposto su quell'altro, perchè non rimarcare in quella sede la tua critica ?
bert is offline  
Vecchio 05-10-2004, 11.40.51   #7
Marco Cicuta
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Messaggi: 14
il Cicuta si scusa

ciao Liebnicht,
non mi sono lamentato su un altro sito, ho solo fatto una considerazione, generale, e di metodo.
Non sei il solo a avere fatto quel riferimento, ti assicuro, per questo non ti ho citato, ho letto anche altro altrove, e su questo thread ho riassunto senza attribuire colpe.

Perche´non ti ho fatto notare la frase sul primo thread: perche´mi sembrava di essere stato sufficientemente polemico e non volevo portare la discussione troppo fuori strada. Per quel contesto, su come modifichiamo le nostre opinioni generali, l´esempio su "gli arabi" non era gestibile come argomento (da parte mia). Per esempio, una volta io sostenevo la stessa cosa dei preti: dei preti non ti puoi fidare in nessuna occasione, mirano sempre a fregarti (certo, non mi esprimevo con questi termini). Come poi ho parzialmente cambiato idea, deriva da una lunga serie di piccole esperienze individuali, in cui non avrei saputo coinvolgerti e consigliartii.

Amici come prima?

saluti

Marco Cicuta
Marco Cicuta is offline  
Vecchio 06-10-2004, 11.53.41   #8
r.rubin
può anche essere...
 
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Theodor W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa

L'esortazione all'onestà intellettuale si risolve perlopiù in un sabotaggio dei pensieri. Si richiede, in altri termini, allo scrittore, di riprodurre esplicitamente tutti i passi che lo hanno condotto alla sua affermazione, e di mettere in grado ogni lettore di ripercorrere il processo, e possibilmente - nel lavoro accademico - di duplicarlo.
Questa richiesta, oltre ad operare con la finzione liberale della comunicabilità universale e ad libitum di ogni pensiero, e ad ostacolare la sua espressione oggettivamente adeguata, è falsa anche come criterio dell'esposizione. Poiché il valore di un pensiero si misura alla sua distanza dalla continuità del noto, e diminuisce obbiettivamente col diminuire di questa distanza; quanto più si avvicina allo standard prestabilito, e tanto più sparisce la sua funzione antitetica; e solo in questa funzione, nel rapporto patente col suo opposto, e non nella sua esistenza isolata, è il fondamento della sua verità.
Testi dove ogni passaggio è accuratamente segnato, ed è evitata ogni discontinuità, risultano inevitabilmente di una banalità e di una noia che non affetta solo la tensione della lettura, ma la loro stessa sostanza.
Gli scritti di Simmel, per esempio, risentono tutti della contraddizione tra l'eccentricità degli oggetti e la meticolosa lucidità dell'esposizione. Lo stravagante risulta così il vero complemento di quella mediocrità in cui Simmel vedeva -a torto- il segreto di Goethe.
Ma, indipendentemente da tutto ciò, la richiesta di onestà intellettuale è di per sé poco onesta. Anche se fossimo disposti a far nostro, e cercassimo quindi di applicare, il difficile e problematico monito di riprodurre, nell'esposizione, il processo del pensiero, questo processo sarebbe tanto poco un procedere discorsivo di gradino in gradino, quanto poco - d'altra parte - le idee cadono dal cielo.
La conoscenza si attua in una fitta rete di pregiudizi, intuizioni, nervature, correzioni, anticipi ed esagerazioni, cioè nel contesto dell'esperienza, che, per quanto fitta e fondata, non è trasparente in ogni suo punto. La regola cartesiana, che raccomanda di rivolgersi solo agli oggetti " di cui il nostro spirito è in grado di acquistare conoscenza chiara e indubitabile", con tutto l'ordinamento e la disposizione a cui si riferisce, dà un'idea altrettanto falsa dell'esperienza quanto la teoria opposta, ma intimamente affine, dell'intuizione delle essenze. Se questa rinnega il principio logico, che si fa valere, nonostante tutto, in ogni pensiero, quella lo accoglie nella sua immediatezza, in quanto lo riferisce ad ogni singolo atto intellettuale, anziché mediarlo attraverso il flusso dell'intera vita cosciente del soggetto.
Ma in ciò che si è detto è implicito il riconoscimento di una profonda insufficienza. Poiché se i pensieri corretti si risolvono infallibilmente in pure e semplici ripetizioni, sia del dato, sia delle forme categoriali, il pensiero che rinuncia, in nome del rapporto al proprio oggetto, alla piena trasparenza della sua genesi logica, resta pur sempre in difetto, in quanto rompe la promessa che è implicita nella forma stessa del giudizio.
Questa insufficienza somiglia alla linea della vita, che procede storta, deludente rispetto alle proprie premesse, e solo in questo decorso, in quanto è sempre meno di quello che dovrebbe essere, è in grado di rappresentare, nelle condizioni date dell'esistenza, un esistenza non regolamentata.
La vita che adempisse direttamente alla propria destinazione, in realtà la mancherebbe. Un uomo che morisse vecchio, e nella coscienza di un successo senza pecche, sarebbe, in segreto, il ragazzo modello che, con uno zaino invisibile sulle spalle, supera tutti gli stadi senza interruzioni o lacune. Ma in ogni pensiero non ozioso resta il segno dell'impossibilità di una completa legittimazione: come, in sogno, sappiamo di lezioni di matematica perdute per una beata mattina in letto, e che non sono più ricuperabili. Il pensiero attende che un giorno il ricordo di ciò che è stato perduto lo ridesti, e lo trasformi in teoria.




...non so se centra col discorso, credo di sì. se qualcuno è così grandioso da saperne dare un riassunto minimo, sintetico, e comprensibile...
r.rubin is offline  
Vecchio 06-10-2004, 13.50.17   #9
leibnicht
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Ci provo

Il pensiero "cade" in un a posteriori linguistico.
In questo "cadere" esso si "normalizza", divenendo, in misura direttamente proporzionale alla sua chiarezza espositiva, sterile e povero.
L'effettiva autenticità del "darsi" del pensiero non può essere replicata in una semplice "decodificazione" della sua espressione nel linguaggio, ma deve essere generata ex novo facendo leva sul perno linguistico.
In modo analogo l'esistenza, in quanto linearità storica, non restituisce l'autenticità del progetto esistenziale, la quale può essere "rilevata" soltanto componendola e confrontandola con il suo "poter non essere stata così".
Anche questa "spiegazione" deve essere recepita in questo modo.
leibnicht is offline  
Vecchio 06-10-2004, 14.51.10   #10
r.rubin
può anche essere...
 
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ci provo e non ci riesco... ma proprio per questo mi diverto!

l'esistenza è molto meno precisa e determinata della spiegazione della stessa.
l'esistenza affonda nell'opacita e riemerge a tratti nella chiarezza, ma non è mai totalmente chiara come la sua spiegazione analitica pretenderebbe che fosse, anzi, è un intreccio imprevedibile di eventi.

il desiderio di spiegare l'esistenza, provoca delle conseguenze sull'esistenza stessa: ispirato da un segmento di esistenza spiegata, l'uomo proietta nel futuro il percorso che deduce essere logicamente conseguenziale, ed attraente; ma provandosi a percorrerlo, inevitabilmente viene deviato nei suoi coerenti propositi da ogni sorta di imprevisti.
imprevisti che lo rendono incerto, insicuro, che lo allontanano da ciò che aveva previsto, ma proprio per questo rendono la sua esistenza tutt'altro che scontata, noiosa, anzi interessante e degna di essere vissuta.

è proprio l'entità di questo scarto, tra la chiarezza attesa, e la caoticità dell'esperienza vissuta, a rendere l'esperienza sempre nuova, interessante. a rendere la vita, vita.

la vita è come il pensiero, deviato da ogni sorta di imprevisti spesso oscuri, di cui spesso si resta inconsapevoli.
sono questi imprevisti che rompono la linearità noiosa, allontanano dalla certezza scontata, e immettono su strade realmente nuove, quindi lontanissime dalla certezza tautologica, quindi innovative, affascinanti.

voler tradurre la caoticità del pensiero nella consequenzialità in cui si cerca la legittimazione del pensiero, perchè lampante prova di onestà intellettuale, comporta tagli d'idee, radrizzamenti di percorso: quindi comporta l'allontanarsi dall'autentica realtà del pensiero, ossia entrare nel regno della finzione, della disonestà.

grazie leibnicht della tua risposta, quanto sopra è quello che ho recepito.
ciao
r.rubin is offline  

 



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