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Vecchio 02-06-2006, 16.46.40   #1
Flaviacp
Ospite
 
Data registrazione: 10-07-2005
Messaggi: 30
serenità, stasi, movimento e caos

1 giugno 2006
“serenità come movimento armonico”


Stasera ho voglia di scrivere; è da un po’ che mi sembra di avvertire quel formicolio che dal centro della fronte si spande fino a pervadere le mie dita inducendole a scivolare sinuosamente sulla tastiera.
Non ho ben chiaro cosa sia a scuotere la mia mente, sembra che l’oggetto della mia ispirazione si stia divertendo a giocare a nascondino: mi stuzzica per poi nascondersi nelle pieghe dei miei pensieri più reconditi, per poi continuare a solleticarmi da lì, dove non posso vederlo.
Diverse sono le parole che mi danzano in testa da qualche giorno, incalzando al punto che mi sono sorpresa a ripeterle ad alta voce, con la fronte corrugata e lo sguardo serio, perso nel vuoto.
“Serenità” prima di tutto.
Questo concetto è ormai il motore che muove ogni mia riflessione; “motore immobile verso cui ogni cosa tende”, risuona anche questa frase. E’ lei, è l’ispirazione che si diverte ancora a giocare con me, mi sussurra questa frase -ripescata nelle mie reminiscenze di Aristotele- quasi a volermi suggerire qualcosa, ma non lo fa apertamente, vuole che ci arrivi io…
Il motore immobile che tutto muove e verso cui tutto tende è per Aristotele Dio, e per me ora sembra essere la serenità: il motore immobile dei miei pensieri.
L’idea di serenità è ricondotta a diversi concetti; scandendo questa parola il collegamento sarà immediato: equilibrio, stabilità, armonia.
La condizione di serenità sembra rappresentare lo stadio finale degli sforzi dell’uomo; stadio in cui l’uomo si ferma, cessa di agitarsi convulsamente, cessa ogni ricerca semplicemente perché pienamente soddisfatto, perché in possesso,ormai, di tutto ciò che ha sempre cercato.
Nell’immaginario collettivo la serenità è erroneamente accomunata ad un concetto di stasi, al piacere catastematico epicureo costituito dall’aponia e dall’atarassia,cioè dall’assenza totale di sforzo e turbamento.
Mi sembra, però, evidente che sforzo e turbamento siano i motori dell’agire umano stesso; il turbamento indica, infatti, una privazione, e lo sforzo è il movimento dell’uomo volto a colmare la mancanza che genera sofferenza.
“La vita è un pendolo” affermò Shopenauer; la nostra vita oscilla tra il dolore della privazione e la voluttà del soddisfacimento.
Una vita priva di turbamento è una vita priva di desideri; una vita priva di desideri è una vita immobile, statica, improduttiva. Come può, dunque, un’esistenza sterile ed improduttiva essere un’esistenza serena, felice?
Ecco,quindi, chiaro che la serenità non corrisponde affatto all’assenza di turbamento e sforzo perché una tale condizione preclude le basi stesse della pienezza d’animo e coincide piuttosto con l’abulia.
Non è l’assenza di dolore a determinare la serenità in quanto, secondo un antico pensiero, nulla è concepibile se non in relazione al proprio opposto, ed annullando l’opposto si annullerebbe l’oggetto stesso della ricerca. Se ,per assurdo, si potesse eliminare l’oscurità della notte si cancellerebbe simultaneamente anche la luminosità del giorno, perché la luce non è tale se non in relazione al buio.
La serenità si discosta dalla felicità e dalla gioia perché ,a differenza di queste sue “sorelle minori”, è uno stato d’animo che non è determinato da contingenze esterne ma conquistato dall’individuo e dipendente esclusivamente dall’individuo stesso; per questo motivo, se felicità e gioia sono caratterizzate dall’ineludibile caducità, la serenità non necessariamente è destinata a finire.
Non per questo, però, si può considerare la serenità come qualcosa di statico ed immutabile; è uno stato d’animo che va quotidianamente riconquistato, rinnovato; non è dato dall’immobilità che porta invece l’incancrenirsi e l’avvizzirsi dell’uomo; è dato dal dinamismo.
Dinamismo, non caos.
La serenità si conquista nell’acquisizione della distinzione tra mero caos e movimento.
Anzitutto il movimento tende a qualcosa mentre il caos è agitazione fine a se stessa; inoltre il movimento produttivo richiede come principio l’individuazione del proprio sé, la consapevolezza.
Solo un individuo consapevole del proprio sé, della propria soggettività, sarà in grado di muoversi senza perdersi; in caso contrario potrà muoversi nel caos rischiando di smarrire sé stesso, o restare immobile nell’illusione perversa di aver trovato la propria identità, fissa, rigida, statica…
Una tale illusione nasconde, invece, la paura del nuovo, paura di destrutturazione derivante, appunto, dall’instabilità di un sé non ancora individuato, non ancora compreso, non ancora trovato.
Il vero carattere, la vera identità –dice Nietzsche- non è mai meno che quintuplice. Con questo si intende che un’identità irrigidita è sterile e forzata; la produttività necessita movimento, flessibilità.
E’ necessario tenere viva la dialettica tra l’uno ed il molteplice (“uno, nessuno, centomila” sussurra ancora la vocina beffarda nella mia testa), rispettare, quindi, l’irripetibilità del proprio sé senza tentare di ingabbiarlo o di legarlo.
Bisogna conoscere sé stessi a fondo per consentire al proprio sé di indagare il mondo senza smarrirsi.
Ecco, dunque, la serenità : un pendolo,la cui forma si staglia netta e decisa,che ruota a 360° senza però staccarsi dal fulcro che ne costituisce l’essenza (ed ancora questa visione appare troppo statica; bisognerebbe immaginare un pendolo in grado di allungarsi a piacimento restando però legato al fulcro.).
Appare ora chiaro quanto poco abbia a che fare la serenità con la stasi; è piuttosto un movimento armonico, non convulso e caotico ma armonioso, coinvolgente.
La serenità non esclude il movimento impresso alla vita dalle emozioni, anzi non potrebbe sussistere senza di esse (nulla potrebbe sussistere in assenza di stimoli) ma è il modo giusto di viverle: cavalcare l’onda senza esserne travolti.

Spesso la vita ci ferisce e ,nel tentativo di difenderci, ci raggomitoliamo su noi stessi, ci appigliamo a convinzioni convenzionali e rigide perché la rigidità suggerisce sicurezza. Capita addirittura che riusciamo a convincerci di aver trovato la serenità ma, ovviamente, non è che un mero inganno della coscienza impaurita ed irrigidita dal timore.
“ogni barca anela il mare eppure lo teme” mi suggerisce la giocosa vocina ,che ha ripescato questa frase da un remoto ricordo di una splendida poesia. E’ così con la vita: ciascuno la desidera e la teme ma la paura non deve paralizzarci.
Dobbiamo concentrarci su noi stessi ed individuare quel cardine essenziale che è la nostra identità, ma non dobbiamo fermarci a questo, dopo viene il compito più arduo: vivere, assaporare la vita in ogni sfumatura, concedendo al nostro sé di arricchirsi e di mutare, di evolversi restando però fedele a sé stesso.
La serenità consegue sempre dalla consapevolezza di sé che ci dà la possibilità di vivere tutte le emozioni, positive o negative che siano, senza però rischiare di essere risucchiati in un vortice ingestibile.



-cosa ne pensate?-
grazie,
Flavia
Flaviacp is offline  
Vecchio 02-06-2006, 20.39.26   #2
cielosereno52
Ospite abituale
 
L'avatar di cielosereno52
 
Data registrazione: 21-05-2006
Messaggi: 211
Cosa ne penso
Mi sembra una tesi di laurea...
Mi piace l'idea di una ricerca delle motivazioni alla serenità...
ma se uno è sereno...cosa cerca...?
Esistiamo perchè siamo pieni di domande... di un vuoto da riempire...imparando da tanti errori.


E forse oggi siamo troppo pieni di materialità... dimenticando le lezioni di chi ci ha preceduto, se non ricavandone solo
frasi che adoperiamo a nostro uso e consumo x avvalorare nostri ragionamenti...

Ma il vissuto reale... appartiene solo a chi ha vissuto quelle frasi, quei conceti.. che non sono formule chimiche o stati della materia che si possono riprodurre o quantificare, analizzare...

cielosereno52 is offline  
Vecchio 05-06-2006, 13.12.06   #3
visechi
Ospite abituale
 
Data registrazione: 05-04-2002
Messaggi: 1,150
Una bella ed accattivante descrizione dell’animo sereno. La serenità è collocata al centro delle esperienze; non vanifica la ricerca e non rappresenta il contraltare del desiderio, quindi della naturale tensione dell’uomo verso la conoscenza. Io credo che l’uomo sia un composto alquanto complesso di mancanze ed assenze, una miscela esplosiva di pulsioni che, per non implodere, tendono ad imporsi tanto verso l’esterno quanto in direzione dell’interiorità del suo ospite. La conoscenza è un processo complesso che si significa e sviluppa in virtù dell’interrelazione dell’uomo con il mondo che lo circonda. E’ però anche un’inappagata e inappagabile progressiva e parziale acquisizione legata all’esperienza, che lascia dunque spazio ed area a quelle mancanze ed assenze che tendiamo a colmare anche attraverso la relazione con i nostri simili. Senza esperienza non è dato conoscere il mondo, se non per quegli elementi nucleari che rappresentano il basamento imprescindibile da cui sviluppare il processo cognitivo il più compiutamente possibile. Si tratta delle “conoscenze a priori”, di cui diffusamente trattò un noto filosofo del XVIII° secolo, cioè esperienze acquisite apoditticamente, non necessitanti d’alcuna esperienza o dato empirico che le deduca dalla realtà circostante. Assume, quindi, i connotati del sapere soggettivo, proprio perché afferente le vicende e l’avventura cui nascendo siamo individualmente e soggettivamente chiamati ad affrontare nella quotidianità del mondo. Si tratta così di una successione di eventi che ci fronteggiano e fronteggiamo sulla scorta delle nostre peculiarità razionali, istintive e biologiche, tanto che a due diversi individui non è dato aver cognizione della medesima esperienza che si manifesti e si sviluppi in modo sempre identico a se stesso, percepita da questi in maniera perfettamente uguale, subendo, infatti, perlomeno i contorni – ma non solo -, una decodifica per effetto dell’azione posta in essere dalla coscienza. Qualsiasi evento ci veda coinvolti, anche marginalmente, è mediato dalla nostra coscienza, in caso contrario lo si subisce in modo inconsapevole, e i dati dedotti dall’evento sono depositati nel fondo della nostra psiche (chiamala pure ANIMA), per essere estratti in maniera inconsulta ed estemporanea e resi disponibili in altre circostanze.

Tu poni la serenità dell’animo al centro di questo processo cognitivo: tutto gli ruota attorno, perlomeno questa è la sensazione che ho ricavato dal tuo scritto. E’ il perno intorno al quale si muove la Vita, e l’animo sereno da questa attinge senza che la superficie quieta delle sue acque s’intorbidino e si agitino. Io ritengo, viceversa, che, essendo la Vita un turbinio, un ditirambo sgraziato e irriguardoso, piuttosto che un gentile valzer fra due figure leggiadre che eteree si accompagnano a vicenda, anche ciò che entra in contatto con questo magma ribollente debba per necessità seguire il moto ondulatorio, se non proprio furioso, che la rende vitale significandone l’essenza ineffabile ed intangibile per le nostre facoltà e capacità di conoscere. Quell’oscillazione che ben cogli nel processo vitale che ci accompagna fino all’ultima paventata meta, è il respiro stesso della Vita. L’Anima lo avverte e con esso tende a connettersi, rimarcando però, ogni volta e senza redenzione, la profonda distanza che la separa dal quel centro immobile che tutto osserva e tutto ingloba, che irraggia intorno a sé le contingenze della vita entro cui siamo immersi. Non esiste un vedere o percepire una realtà indefettibile e oggettiva, anche se è innegabile che la conoscenza a posteriori, cioè quanto acquisito, anche fraitenso, sulla base della propria esperienza, si deve necessariamente appoggiare ad un nucleo di oggettività che i nostri sensi, soggiacenti alla mediazione della coscienza individuale, non può raggiungere e tangere. E’ la particolare limitata e limitante conformazione della natura umana che necessita questo dato di fatto assolutamente innegabile e riproducibile anche come dato empirico di laboratorio. E’ ancora proprio questo limite la scaturigine della stupefazione che ci coglie nell’incontro con il prossimo, perché grazie ad esso si ha estro ed occasione per stimare quanto variegata sia la dimensione umana. E’ questo limite invalicabile che impone la constatazione dell’unicità di ciascuno di noi, che impedisce l’omologazione supina ad un dato indefettibile della realtà esterna, e, ancor più, anche interiore. Non vi è una sorta di norma eteronoma cui l’individualità possa in tutto e per tutto soggiacere. La variabilità cangiante della realtà è anche lo spazio offerto alla nostra possibilità di decisione, di scelta, che implica anche, perché no, la facoltà di sbagliare, d’incorrere in un errore. E’ questa limitatezza congenita ed inalienabile dal nostro essere umani che dà sostanza e nutre l’errore e il divenire caotico, che si oppone alla staticità del Sapere onnicomprensivo, all’abulia dell’Anima, all’amorfismo dei sensi e del cuore, che si relaziona e connette con una realtà imprevedibile, facendo sì che l’insoddisfazione e la necessità di riempire i vuoti che ci abitano rappresentino il vero ed unico motore del nostro incerto incedere sulle strade della vita e del nostro valicare cime e vette inusitate e, per noi, spesso inviolate. Noi aspiriamo e auspichiamo questa violazione ed irruzione nelle segrete stanze dell’ignoto, ad esse tendiamo pur nella consapevolezza che la conoscenza è un moto perpetuo, incessante, inappagabile. La visione orizzontale, cioè quella che si vitalizza ponendosi su una visuale posta sul medesimo piano dell’esperienza, offre l’opportunità e il senso di sentirsi immersi in questo mare magnum della Vita, anche se questa fosse travolgente, cosa non consentita dalla visione dall’alto: troppo vana e vacua, evanescente e irridente a quella magmatica essenza che ci vive dentro. La Vita non è stasi, è ribollio inesausto, così pure la nostra essenza più viva, cioè l’Anima.
La conquista del centro immobile ed immoto, cioè del proprio Sé Superiore, è un concetto iperuranico, che attiene, a parer mio, al mondo delle idee di Platone. Il mondo delle idee platonico non coglie l’aspetto dionisiaco del nostro cuore, più portato alla danza sincopata che alla stasi e all’ammirazione estatica di un paesaggio immoto e di cartapesta, fondamentalmente ricreato ed indotto dal timore di celebrare l’impossibilità per la ratio, i sensi e l’anima di conseguire la perfetta conoscenza che attiene più al mondo iperuranico che a quello degli uomini. Comprendo bene che tendi a tenere ben discosti il concetto di serenità da quello di stasi, ma l’idea di centro immobile ubicato nel profondo dell’inviolabile sancta sanctorum del cuore dell’uomo, porta inevitabilmente a concepire questo status dell’Anima. L’inquietudine è dedotta e necessitata da questa inarretrabile ed inalienabile tensione che violenta il limine dell’ineffabile centro del nostro sacro cuore, senza peraltro mai infrangerlo o penetravi all’interno. Così è che la Vita sia affanno, un perenne valicare versanti scoscesi e sdrucciolevoli, ma è questa condizione che insaporisce l’immersione nei marosi di quel fluire incessante e incoercibile che definiamo Vita. Ogni tanto la barca, il nostro vascello, inalberato o meno, festoso e fastoso o meno, raggiunge un porto, ma si tratta sempre di una meta provvisoria da cui ripartire, dopo i necessari approvvigionamenti, per nuove inesplorate mete, fino a che non si giunge al porto di destinazione, mata occulta che trattiene i misteri tanto del viaggio che dell’epilogo.

Ultima modifica di visechi : 05-06-2006 alle ore 13.27.30.
visechi is offline  

 



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