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Vecchio 12-10-2004, 10.06.09   #1
visechi
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Strani miti e leggende

Mia personale interpretazioni di miti antichi.

Le fate (le janas)
“Le ho viste danzare: belle, fiere, flessuose come giunco. Accompagnate dal vento, sulla sponda di un fiume, le ho viste flettersi, sensuali, al tiepido sole che declina dietro i colli, quando il bosco si colora di rosso. Inseguivano il vento al suono leggero del soave lamento della Natura. Le fate, minute, hanno profondi occhi neri, che s’insinuano nell’animo di chi riesce a sognarle, e una lunga chioma color della notte, rilucente i raggi del sole, scarmigliate dal vento e dalla danza perenne, i piedi nudi, e vesti dorate, filate in telai d’oro. Ho inteso il loro ansito sincopato, il tutto è durato una notte incantata. Danzavano festose in una sera d’estate; passavano sulla terra leggere, sfiorando i sassi con piedi minuti di fata; volavano ariose fra le fronde degli alberi, intrecciando mesti duetti con la Natura. Il fiume brillava nel silenzio ancestrale forgiato da un millenario romitaggio, attenuato soltanto dal loro armonioso gioire.
Sensuali e dolcissime, donavano a questi recessi i propri colori: l’azzurro al cielo, il rosso al bosco, il pallido rosa alle nubi ovattate, il verde alle fronde degli alberi.
Danzando, effondevano d’intorno i propri profumi, intridendone il mirto, il lentischio, l’antico ginepro, l’olivastro imperioso. A ciascuno donando qualcosa di sé, alla terra riarsa dal sole due lacrime, dal colore verde o celeste, chiamata rugiada, dal sapore dell’ambrosia ed il corpo del miele.
Le ho viste giocare con gli animali del bosco, cantavano loro qualcosa di sacro: la Vita. All’ombra degli alberi, confuse fra il verde e il bronzeo terreno, le ho viste contendere la notte agli spettri del buio, lottare per ore, sfinirsi, sfiancarsi, poi, infine, all’alba, vincenti, ricevere l’omaggio del sole. Ho visto, in quell’ora, le messi e le greggi, le mandrie e la selva, rendere loro onore regale. Poi, con un sorriso munifico, le ho viste enfiare i chicchi di grano e coprire con l’oro delle vesti le messi. Al fine, d’un fiato, felici, inchinarsi leggere al giorno incipiente, infilarsi diafane nelle proprie regge di roccia, per tessere ancora una volta i propri orditi dorati.”
Ma tutto questo accadeva mill’anni fa.
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Vecchio 12-10-2004, 20.38.12   #2
Amil
Un'anima nel mare
 
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Accadeva, mille anni fa... in Sardegna.
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Vecchio 13-10-2004, 10.15.36   #3
visechi
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La Parca degli umili (Sa Filonzana)
“Piano piano, senza far rumore, cammini occultato nell’ombra della notte. Il silenzio, rotto solo dal frinire dei grilli e dallo stormire delle fronde degli alberi, avvolge ogni cosa. Solo Selene, argenteo solitario guardiano nell’immensità delle valli avite, guida i tuoi passi. Nei villaggi, i vecchi incartapecoriti da mille anni di fatiche ammoniscono severi che in questi recessi i tuoi passi siano sicuri e prudenti, ché incespicare nelle radici di un albero o in un sasso potrebbe risvegliarla, scotendola dal torpore in cui il progresso e la civiltà vorrebbero relegarla. Chi vive qui sa bene che è viva, è solo assopita e il suo risveglio, qualora volgesse il suo gelido sguardo verso di te, sarebbe nefasto, ché il filo della vita, spezzandosi, giungerebbe alla fine. La ‘filonzana’, col suo fuso dorato, fila la vita e stringe fra dita grinzose il destino degli uomini. Solo lei lo conosce. Quando t’incontra ti ruba la vita, l’estirpa dalla bocca e la porta con se: si nutre di essa. Qui, quando tutto tace, e il rumore dell’uomo s’acquieta, quando è solo la Natura selvaggia a cantare la sua nenia, la ‘filonzana’, orrida vecchia, ricurva sotto il peso del Fato, percorre le valli e i campi in cerca di Vite da portare lontano. Le conduce con sé, fra i misteriosi recessi insondabili per l’occhio dell’uomo. E’ una visione spettrale: vestita di nero, con un’orrida maschera calata sul volto, rassetta la casa con una scopa di crine e il bastone forgiato con le tibie dei morti. Ha gli occhi infossati e una sguardo di ghiaccio; ha lunghi, scomposti poveri resti d’incanutiti capelli, celati sotto un lurido brandello di panno dal funereo colore. Lenta e greve cammina fra i boschi e gli aridi campi percorsi dal fuoco, guada ruscelli, supera monti, incutendo timore a coloro che incontra per strada. Le genti la sfuggono fra mille scongiuri. Ma Ella prosegue riverita e temuta, fintanto che il filo di qualche povero cristo Lei spezza. Allora son truci lamenti di umili prefiche. Si levano mesti dalle povere case fatte solo di pietra. Ma è il destino dell’uomo, lo si accetta così, fra pianti e tormenti, come volle mandarlo chi la ebbe guidata a bussare alla porta. Se viaggi per monti e per valli, se sgombri la mente da inutili cure, la vedi ancor oggi, piccola nera vecchina, spiccare fra roccie bruciate dal sole o riarse dal sale.”
Ancor oggi è così!
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Vecchio 15-10-2004, 10.17.09   #4
visechi
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Per chi muore di parto (Le Panas)
“Se attento, in silenzio ascolti il silenzio notturno, se quieti la mente, se la Luna ti assiste e la notte è clemente, se il sonno ritarda e hai l’animo scosso, le senti e le vedi: son sole, disperate e piangenti, sfuggite dal mondo, son figure spettrali, son morte di parto, per questo sono dannate a vagare nel mondo, son incubi in cerca di bimbi a cui suggere il sangue: è la loro vendetta. Sono dette le ‘panas’: nebbiose figure fra gatto e serpente. Se presti attenzione, vagando per valli, le incontri nei pressi di qualche ruscello, fra l’una e le tre della notte. Vi lavano i panni dei propri bambini, battendoli con tibie di morti, è questo il sordo rumore che cogli nel buio argentato della luna, fra querce, fra lecci, in mezzo al lentischio, fra grilli e fra ombre ferali. Le senti intonare tristi ninne o nenie funeree. Puoi solo osservarle, non devi turbarle, ché ti brucian con l’acqua. Il loro supplizio nella terra dei vivi si spegne se il piccolo bimbo diventa fanciullo, e allora più nulla può nuocergli, e loro ripiegano fra i tanti defunti, e chiudono gli occhi per sempre, e gli danno riposo. A capo del piccolo letto c’è il padre che veglia con una piccola falce. La ‘pana’, ammaliata, ne conta i dentini, e il rosso dell’alba la costringe a fuggire. E’ una dura battaglia fra i muri di pietra di povere case e gli effluvi di muffa. Povere donne da tutti temute, son tristi ed irose per i figli mai visti, mai tenuti sul seno, mai potuti allattare. Sfuggite dal mondo e sempre ingiuriate, ma se ascolti col cuore, se le vuoi compatire, capisci che il Fato è stato crudele, ché a loro ha levato il bene più grande, ché il cuore ha spezzato nel momento più bello, e allora ti senti intonare con loro una tristissima nenia, un mesto scongiuro che è una lieve preghiera, ché tanto dolore ti brucia nel petto e aspetti che il Sole risplenda al mattino per riprendere a vivere sfuggendo la sorte di chi ha perso un bambino.”
I vecchi millenari raccontano ancora di averle vedute e sentite cantare.
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Vecchio 18-10-2004, 15.40.38   #5
visechi
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Mentre la notte riposi (S'Ammuttadore)
“Nelle notti d’estate, spento il gioioso fragore della festa paesana, svanito il frastuono dei canti e dei balli innaffiati dal vino verace dal colore del sangue, riposi beato fra fresche risate di fiere ragazze, rapito dipingi nel sonno quegli occhi color del carbone, ti perdi estasiato tra bianchissimi chicchi di riso che fan capolino fra turgide labbra vermiglie e fra vesti leggere che sfidano il vento in un arioso ballo antico come la terra. Purché sia di notte, è allora che accade, che venga e ti colga, che s’insinui nel sogno e ti penetri il cuore recandoti affanno. E’ un nero signore, non è corpo né spirito, d’Incubo è fatto. E’ un peso solenne che schiaccia il tuo petto rubandoti l’ansito e pure la voce. Di notte s’avanza avvolto in un nero sudario, tu nulla puoi opporgli, puoi solo aspettare che l’alba lo cacci lì dove è venuto. L’ammuttadore è l’Incubo che coglie chi dorme, ma la vita non toglie. Si nasconde e muove nel buio, nelle stanze di tutti, è un’ombra fugace che preme sul cuore. Per poterlo fugare, per scacciarlo dai piedi del letto, hanno scritto soavi canzoni intonate con voce sommessa e con grande speranza:
Il mio letto è di quattro angoli,
quattro angeli vi si mettono,
due ai piedi e due sulla testa,
nostra Signora mi sta al fianco,
e mi dice dormi e riposa,
non aver paura di niente,
non aver paura della fine cattiva.
L’angelo Serafino,
l’angelo bianco,
lo Spirito Santo e la vergine Maria,
tutti siano in mia compagnia.
Angelo di Dio,
mio custode,
questa notte illuminami,
guarda e difendimi,
perché io mi affido a te.”
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Vecchio 19-10-2004, 09.56.34   #6
visechi
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La Strega Vampiro (La Surbile)
“Tetra e veloce percorre le valli; scalza, in silenzio si muove nel buio; scaltra e mendace ti volge lusinghe; nero il suo manto, dimesso il vestire, brutta nel corpo peloso, triste nel viso, lunghe le unghie e pure la coda ferale, la Strega Vampiro, la Surbile, incute timore e sugge il sangue ai bambini. Viva si nutre delle vita dei bimbi. Ha stretto col diavolo un patto nefasto, venendo al mondo nel dì di Natale, oppure nascendo come settima figlia. Sa pure volare, se taci, nel buio, ed ascolti il silenzio, ne odi il ronzio, allora, ben lesto, per farla fuggire, rivolta i vestiti, oppur, senza indugio, scagliar per aria un cappello dovrai. E’ un orrido essere che percorre le valli, s’insinua furtivo nelle misere case di pietre per rubare la vita ai teneri pargoli. Si muove nel buio di lugubri notti, di giorno però si confonde con noi, vivendo una vita del tutto normale. E’ falsa, mendace, di morte foriera, le urla degli altri son la sua cantilena, il pianto dirotto di povere madri le intonan una nenia leggera da cui ella attinge vitale energia per esser ogni giorno più forte e viva di prima. Non reca con sé alcun ornamento che possa abbellire il suo viso grinzoso, non indossa mantello che possa coprire le sue spalle ricurve dal peso degli anni e dei funerei pasti, incontrarla di notte ti turba nel cuore. E’ triste, solinga, scavata nel volto, con dentro, nel cuore, profonde ferite, incise negli anni dalla tetra condanna di esser di giorno una donna del volgo, per assumer di notte le vesti di un demone nero.”
Son solo leggende narrate dai vecchi, ma attenzione la notte, vegliate sui bimbi, ché non passi furtiva per pascer sé stessa con le tenere carni.
visechi is offline  
Vecchio 19-10-2004, 12.40.30   #7
ConteOliver
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Messaggi: 55
Per tornare al tema...

Cosa può esserci di "strano" in un mito o una leggenda?

Entrambe le cose discendono verticalmente dalla cultura di chi le sviluppa e le tramanda a chi, dopo di lui, ne considera apprezzabile il valore.

Strana potrebbe essere una leggenda ormai perduta, o un mito dimenticato. Stranezza che andrebbe di pari passo con la domanda:

"Ma come ha potuto mai interessare qualcuno, un tempo, questa strana cosa?".

Il termine "strano" ha a che fare con "estraneo" e non con "buffo" o "interessante"...
ConteOliver is offline  

 



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