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Quale amore? Quale felicità?

di Domenico Pimpinella – luglio 2007

- Introduzione

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In un periodo in cui la Filosofia sembra oramai essersi definitivamente sgretolata in una miriade di discipline scientifiche che esplorano tutte la possibilità di trasformare l’ambiente esterno al fine di consentire all’uomo di rimanere il campione di quella che gli è sempre apparsa l’eterna sfida per la sopravvivenza, noi abbiamo sentito il bisogno improrogabile di ritornare a riflettere su un senso della vita più autentico ed appagante.
La Psicologia, sosteneva Herbart, studia l’uomo, per accertare come egli è; la Filosofia morale, invece, gli stabilisce dei fini  è dice come egli dovrebbe essere.
Per il senso comune,  purtroppo, il “come siamo” coincide più o meno perfettamente con il “come dovremmo essere” per cui la filosofia ha finito di svolgere sostanzialmente uno dei propri compiti, cedendo il testimone alla Psicologia per capire sempre meglio come siamo fatti e, quindi, poter mettere in atto strategie adeguate per rimanere al vertice della piramide della vita: per diventare sempre più potenti ed efficienti.
Leibniz ci avrebbe convinti in massa non tanto che questo sia davvero il migliore dei mondi possibili, poiché è indubbio che ognuno lo vorrebbe modificato secondo quelle che reputa le proprie esigenze, quanto che l’uomo odierno sarebbe il migliore degli individui possibili.
Così diventa ineluttabile che la sola via verso il futuro diventa quella dove tutto deve cambiare, trasformarsi, affinché l’”uomo” possa restare tranquillamente sé stesso e godersi in santa pace il predominio sulle cose e sulla natura.
L’imperativo dominante sembra essere oggi: non lasciarsi coinvolgere in alcun tipo di processo adattativo interno, che può sempre nascondere una qualche insidia. Così crediamo, forti della nostra visione razionale, che è più conveniente trasformare l’ambiente, piegarlo, magari violentemente,  alle nostre necessità.
Ma è davvero tutto così chiaro e semplice?
A mio avviso, le ragioni che ci avrebbero portato a simili credenze risiedono nella convinzione, tutta razionale, che il destino dell’uomo, come quello di ogni altro essere vivente, sia solo quello di riuscire a procacciarsi le migliori condizioni e opportunità per sopravvivere. Cosicché una volta che le abbiamo raggiunte, e magari ci siamo anche assicurati una sopravvivenza agiata, ognuno dovrebbe ritenersi appagato e felice.
Eppure, molti cuori, anche e forse soprattutto di quelli che credono di aver raggiunto quel traguardo,  scoprono e riconoscono che non è così! Che anche centrando in pieno l’obiettivo di stabilizzare al massimo grado la sopravvivenza, non si centra automaticamente anche l’obiettivo della felicità. Perché?
Studi condotti sul rapporto ricchezza-felicità consentono oggi di dubitare che il solo raggiungimento dell’obiettivo “sopravvivenza sicura”, e magari anche agiata e magari straricca di piaceri, possa, da sola, determinare quella condizione pienamente appagante che chiamiamo felicità. Sembrerebbe, invece, che per essere felici, pienamente appagati, occorrano anche altri ingredienti: primo fra tutti, adeguate relazioni sociali che ci possano consentire di portare nella nostra esistenza quella nota calda, gioiosa, armoniosa che può scaturire solo dall’amore. E, aggiungerei, da un amore corretto, autentico, che possiamo distinguere dalle varie tipologie d’amore adulterato oggi in voga, perché è il solo che effettivamente può offrirci la possibilità di portarci al di là di un isolamento esistenziale nel quale purtroppo, volenti o nolenti, ci ritroviamo sistematicamente bloccati.
La chiave per riuscire a dare alle nostre esistenze una nuova potenza in grado di farci incuneare con forza nel futuro per renderlo attuale occorre trovarla in una reinterpretazione della coppia amore – felicità, che è diventata oramai obsoleta e del tutto inadeguata per centrare quel destino che invece dovremmo perseguire consapevolmente.

Questo lavoro è una proposta, un’ipotesi mirata che si pone lo scopo di farci prendere coscienza di come ci stiamo, purtroppo, allontanando sempre più da una logica vitale per costruire una ferrovia, per porre dei binari, che ci stanno portando dritto dritto in uno sconfinato deserto, nel quale potremmo, un giorno oramai non tanto lontano, perderci definitivamente e morire come specie.
Quale amore? Quale felicità? Vuole esplorare soprattutto due domande:

  1. Perché non possiamo preoccuparci solo delle nostre singole sopravvivenze, soprattutto se pensiamo di perfezionarle e portarle alla massima agiatezza?

  2. E di conserta: perché non può esserci felicità senza amore?

Senza amore è sicuramente possibile raggiungere condizioni di parziale soddisfacimento (che all’apparenza può sembrare simile alla felicità) se siamo fortunati e riusciamo a fare in modo che permangano nel tempo determinate condizioni. Quasi sempre però queste, prima o poi, sono destinate a venir meno  e allora diventa lampante che non stiamo facendo altro che accontentarci di un surrogato.
La speranza, per riuscire ad incidere sulle attuali coscienze e infine scuoterle, si basa sulla capacità di riuscire a mostrare che in noi, nel sistema conoscitivo razionale che siamo diventati, si è instaurato un tragico errore di fondo che ci sta impedendo di realizzare le nostre migliori opportunità di esseri viventi. Un errore che ci ha fatto impantanare nelle sabbie mobili di un luogo comune molto diffuso: che l’amore comporta sofferenza e privazioni. Un errore concettuale che sta bloccando la razionalità sulla soggettività (o come si usa dire, con espressione più comune, sull’individualismo) e non ci consente più di continuare ad evolverci in maniera davvero significativa.
La nostra cultura, oramai da millenni, sta sviluppandosi su un paradigma che ci costringe a girare in tondo e a rimanere così ancorati a situazioni ripetitive.
Le ragioni di questo pericoloso stallo sembrerebbero risiedere in cattive interpretazioni della nostra intima natura e, di conseguenza,  in concettualizzazioni dell’amore che non offrono sbocchi a quelle soluzioni che invece dovremmo perseguire per realizzare un destino comune ricco di soddisfazioni.

Chiedere al lettore di rimanere fino in fondo sulle pagine di questo libro, per affrontare insieme un discorso che si propone un rinnovamento profondo della struttura dell’individualità, è un appello che ci sentiamo di rivolgere solo a coloro,  giovani e meno giovani, che sentono improrogabile il nostro stesso bisogno e che magari, già per conto loro, hanno cominciato a segnare sui loro percorsi di vita più punti interrogativi di quanti non ve ne siano rimasti di affermativi.
La ricompensa potrebbe essere quella di riuscire a migliorare le opportunità di crearsi un senso della vita per cui varrebbe davvero la pena impegnarci fino in fondo.
L’opportunità potrebbe essere quella di riuscire a rendersi conto che il pifferaio che seguiamo oramai stancamente, senza coscienza critica, ci sta portando verso un abisso dal quale non riuscirà a salvarsi neppure più la nostra filogenesi.
A chi, quindi,  non si è ancora rassegnato, a chi non riesce a credere all’attuale meschino modo di vivere, all’egoismo, alle illusioni che ci sono state proposte come rimedi da ciarlatani di ogni specie, mi sento di dire, già da ora,  che ci sono modi che ci consentono di impiegare senz’altro meglio le nostre enormi potenzialità mentali.
Possiamo senz’altro, con una diversa consapevolezza, avviarci fiduciosi verso un destino migliore.

Cominceremo, nel prossimo capitolo, ad affrontare le ragioni e le possibilità di cambiare un destino, che molti, è vero, subiscono senza possederne una chiara consapevolezza; che a moltissimi altri però appare crudele e insensato e, nonostante tutto, accettano come ineluttabile. Il poeta, con la sua sensibilità, lo coglie come vuoto angosciante, trasformandolo in un intreccio di parole su cui ricama l’urlo straziante e poderoso di chi si sente oramai cadere in un abisso senza fondo mentre il suo anelito sarebbe quello di volare in altro modo e per altri cieli.

Restituitemi il canto!
Il  desiderio d'immensità
é diventato un pianto
che nessuna madre potrà consolare.
Restituitemi i boschi
dove sarò  ancora usignolo,
cerbiatto impaurito.
Restituite alla mia dignità
il fiume limpido,
l'acqua cristallina,
la duna profumata di sale;
restituitemi il vento, il fiore
la sofferenza e la gioia
e la carezza
- soprattutto la carezza -
quel contatto che racchiude
che fa di tutto un canto.
Restituitemi gli occhi
che portavano dritto al cuore,
quegli occhi
che sapevano ancora piangere.
Restituitemi
ciò che ho pagato con il delirio
con la follia del pugnale insanguinato
con l'ansia
con il puzzo di catrame e di nafta,
con lo sguardo pieno di lattine
e di plastica
con i pesci morti, il sudiciume
e la ferraglia.

Il desiderio d'immensità
è uno squarcio tremendo:
è un urlo!


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Bibliografia

Questo saggio è un testo in fieri, l’autore offre ai lettori l’occasione di partecipare alla sua composizione e quindi al suo sviluppo. Per proporre correzioni, miglioramenti o altro, scrivere a suggerimenti@riflessioni.it verranno presi in considerazione solo scritti sostenuti da valide spiegazioni.

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