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Quale amore? Quale felicità?

di Domenico Pimpinella – luglio 2007

- Capitolo 3 - Cosa si oppone al miglioramento

Paragrafo 1 - Dall’egoismo all’amore

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A questo punto del discorso spero cominci a delinearsi per molte persone, seppure in modo abbozzato, il tipo di progetto che vorremmo mettere in atto per passare dall’attuale diffusa condizione di egoismo ad una diffusa condizione d’amore.
Un amore che non deve essere considerato assolutamente una condizione problematica, innaturale, da sostenere con una forte volontà, con sacrifici e privazioni. Questo deve essere ben chiaro fin dal primo momento.
L’amore a cui facciamo riferimento è, invece, un perenne innamoramento, un congiungersi salvaguardando la propria soggettività in una dimensione di cui riusciamo ad afferrare solo un aspetto: quello del tempo. L’idea che si debba rinunciare alla propria autonomia, alla propria libertà, è errata. Occorre comunque far riferimento ad una diversa autonomia e ad una diversa libertà, che devono apparirci condizioni desiderabili e piacevoli in grado di fornirci quella splendida sensazione che non può venir fuori in nessun altro modo: la gioia.
Un progetto che dobbiamo riuscire a realizzare qui, su questo nostro pianeta, nel periodo che ci è concesso di vivere sia come singoli individui che come filogenesi. Contrariamente ai tanti progetti “religiosi” che si trovano in giro, non vogliamo fare affidamento ad una improbabile vita spirituale ultraterrena, come accade per le tre grandi religioni monoteiste: Cristianesimo, Ebraismo e Islamismo,  né, come contemplato nelle maggiori filosofie Orientali, ad una ciclo di rinascite in cui dovremmo imparare a rinunciare ad ogni desiderio, fino ad arrivare alla quiete assoluta, alla non esistenza simboleggiata dal Nirvana.

Il progetto che vorremmo vedere realizzato mira, invece,  ad un’esistenza piena e felice (fattori casuali permettendo) qui su questa terra. Non, però, quel tipo di vita piena e felice che abbiamo finora supposto nell’edonismo, nell’incremento incontrollato di soggettività che cerca di arrivare alla massima  potenza possibile, per garantirci una vittoria certa nella lotta senza quartiere per la sopravvivenza che crediamo esiste in natura. Nossignore! Il nostro intento è mostrare che esiste la possibilità per la nostra razionalità, innanzitutto, di considerare come “nostra” vita non l’ontogenesi ma la filogenesi, e poi di considerare due possibili obiettivi concatenati e complementari come il vero obiettivo che dovremmo considerare per svilupparci in maniera corretta. E poiché tutto ciò finora non è accaduto, rendere conto anche del perché.
Un progetto che si fonda sulla possibilità di mettere finalmente in sintonia la conoscenza razionale con la conoscenza emotiva. Cosa che fino ad ora non è accaduta in quanto la conoscenza emotiva è la sola in condizioni di sapere come stanno le effettivamente cose, non dovendo interpretare il mondo, poiché, come sostiene anche Penrose, è lei stessa a costruirlo algoritmicamente.
La conoscenza razionale, invece, se lo trova davanti spezzettato nelle sue parti più “dense”, nei grumi di materia, e, quindi, deve in qualche modo riuscire ad interpretarlo correttamente per dargli il giusto significato.
Per questo, come alla fine ha compreso Nietzsche non esistono fatti ma solo interpretazioni. Perché i “fatti” in realtà sono interni ed osservabili da un occhio della mente che non sa immediatamente da dove sono usciti fuori. Questi “fatti” sono componibili, utilizzabili, e per questo che la conoscenza razionale ha una ben altra valenza rispetto all’emotività. Con essi, come vedremo meglio nel capitolo 5, una parte del cervello può impegnarsi per costruire il futuro, come fa il pittore con il bozzetto, per poi andarlo a realizzare, se davvero una tale realizzazione è attuabile.
Da sola l’emotività è utilizzabile, anche se presenta il difetto di una certa rigidità strutturale tra stimolo e risposta; cosa che è invece impossibile alla razionalità che può solo manovrare degli elementi che le sono “esterni”.  Lavorando in simbiosi hanno una potenzialità eccezionale e possono catalizzare processi che per essere attuati la sola emotività impiegherebbe tempi lunghissimi.
Riuscire a mettere in sintonia queste due conoscenze è dunque di un’importanza strategica che non ha eguali. Se infatti l’interpretazione risulta errata allora si hanno tempi ridottissimi per correre ai ripari e mettere mano ad eventuali guasti: per azionare cioè un feed back incisivo. Un’interpretazione completamente errata come quella di far coincidere l’individualità con la sola soggettività, può infatti portarci in breve tempo alla catastrofe. Consideriamo che il tempo in cui opera l’uomo è solo un istante brevissimo rispetto ai milioni di anni di evoluzione della vita e già le emergenze planetarie considerate dagli scienziati hanno superato la cinquantina.
A questo punto è davvero pazzesco continuare ad andare avanti per la solita strada. Occorre una sospensione del giudizio ed andare a valutare con maggiore attenzione cosa ha cercato di farci realizzare l’emotività nel lunghissimo periodo in cui ha avuto tra le mani le redini del comando.
Ritenendo attendibile quanto ci suggeriscono scienziati come Maturana e Varela, Lynn Margulis, ed altri dovremmo ipotizzare con una certa sicurezza che l’emotività si è impegnata affinché degli esseri autopoietici di secondo ordine potessero dare vita ad una nuova realtà unitaria: la società. Una società che può cominciare dalla semplice coppia, può allargarsi alla famiglia, al clan e andare oltre a piacimento.  Su questo progetto dovremmo quindi sintonizzare la conoscenza razionale per far si che possa contare su nuovi e più potenti strumenti.
Sarebbe da sciocchi, da perfetti autolesionisti, continuare ad impegnare la razionalità sul vecchio progetto che ha permesso agli esseri autopoietici di concretizzarsi nell’individuo di oggi, confidando che il Noi possa essere realizzato solo da quella “mano invisibile” ipotizzata dal liberalismo, che poi sarebbe la mano dell’emotività. Quella mano è oggi così debole che non può mettere insieme che pochi Noi e per un tempo davvero limitato come accade per la coppia sessuata o per poche amicizie su base fortemente empatica.
Sganciarsi da una storia antica quanto l’uomo, correggere il nostro destino, non si può se prima non si diventa perfettamente consapevoli che la socialità di cui tanto ci vantiamo è in realtà una socialità di cui quasi sempre dovremmo vergognarci. E’ un velo con cui tentiamo di celare le nostre autentiche condizioni; un velo dietro il quale si preparano il più delle volte gli agguati più subdoli e feroci.

Così per avere qualche possibilità di riuscire nella complessa operazione che proponiamo occorre capire come dirottare le potenzialità della razionalità su una corretta sintesi di socialità e soggettività. Dove la soggettività deve essere reperita diminuendo la carica egoistica e la socialità ritornando alla socialità autentica e “ingenua” delle origini che può essere rispolverata solo se ci rendiamo chiaramente conto che la socialità di oggi è un artefatto che va piano piano cambiato completamente. La socialità, contrariamente a quanto accade, dovrebbe essere raffigurata nella nostra mente come una struttura tentacolare che partendo dal corpo centrale della soggettività si dirama in varie direzioni. L’idea, la raffigurazione che più gli si avvicina è la struttura del neurone con i suoi dendriti che vanno a costituire con la parte terminale le sinapsi. Solo se sostituiamo l’idea sferoidale di noi stessi, una figura ad area superficiale minima che non deve “allargarsi” oltre il proprio nucleo, con l’idea di un individuo tentacolare che deve cercare di stabilire quanti più legami possibili in varie direzioni, potremmo iniziare a ristrutturare in modo conveniente la nostra socialità.
Iniziando un’adeguata ristrutturazione della socialità si può cominciare a traghettare verso reali possibilità d’amare. Ovviamente operando da soli, si è già detto, questi tentacoli potranno cominciare solo timidamente a formarsi, a guisa di pseudopodi. Con gli incontri giusti, insieme ad altri concentrati sugli stessi nostri obiettivi, possiamo permetterci di “tendere”  più decisamente le “braccia” con fiducia.
Sembrerebbe così ovvio e scontato che gli individui debbano assumere una tale identità per potersi realizzare liberamente. E invece le nostre psicologie sono rimaste come bloccate sul vecchio progetto che tanto tempo fa ha riunito un insieme di cellule eucariote per formare l’attuale individuo pluricellulare.
Va bene che lo sviluppo della conoscenza, che è poi lo sviluppo dell’essere stesso, ha usato le nuove possibilità per cercare di stabilizzare ancora meglio quella sorta di microcosmo che è ognuno di noi, ma ad un certo punto avremmo dovuto capire che la stabilizzazione in una sorta di  essere sferoidale, finito, isolato, si stava risolvendo in una pericolosa involuzione. Ci sono segnali che suggeriscono di non andare oltre una certa soggettivazione. Altri che ci spingono ad aprire porte e finestre per incontrare gli altri, per legarci a loro in modo sincero e leale. Perché non li abbiamo captati e non ne abbiamo fatto tesoro?
La risposta ce l’ha già anticipata Wittgenstein con la famosa metafora della mosca prigioniera sotto un coperchio di cristallo. Ci sono delle trappole che ci bloccano senza che possiamo averne consapevolezza. Il nostro aumento indiscriminato di soggettività che ci porta a sconfinare in una situazione palesemente egoistica non riesce a innescare la necessaria reazione critica, come logicamente dovrebbe visto che ci sta portando verso l’autodistruzione, perché l’idea azionale che abbiamo di noi stessi, pur sbagliata, riesce a dominare su quella emotiva. Così è l’idea emotiva che si cerca di “interpretare” secondo una  preconcetta visione di noi stessi e del mondo.
E’ indubbio che noi oggi ci troviamo in una trappola dalla quale sarà impossibile uscire se non capiremo che è proprio in una trappola che siamo caduti. Una trappola concettuale che in realtà è formata da due grandi avvallamenti concentrici che ci bloccano in una situazione di stallo. In questa situazione abbiamo finito, proprio come gli ebrei abbandonati da troppo tempo da Mosè  alle falde del Sinai, per adorare gli idoli, per rivolgerci a modelli animali anteriori che però tutto sommato ci portiamo ancora dentro e ci offrono dei punti di riferimento importanti. Prima del Cogito ergo sum ci rispecchiamo sicuramente in altre frasi dal realismo più immediato,  come ad esempio,  un Manduco ergo sum.
Le trappole che cercheremo ora di evidenziare in tutta la loro cruda e brutale realtà sono quelle che possiamo a ragione chiamare le trappole della Finitezza e dell’Immutabilità. Riuscendo a vederle in modo chiaro ed esplicito forse ci sarà possibile tentare di scalarle e ritrovare quel sentiero che ci porterebbe verso l’amore, verso la pienezza dell’essere e, perché no, verso la felicità.

 

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Bibliografia

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