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Antropologia della morte

di Federico E. Perozziello - Febbraio 2014

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Federico Edoardo Perozziello è medico, storico della medicina e docente universitario. E’ autore di numerose pubblicazioni riguardanti la medicina e i suoi rapporti con il pensiero filosofico e scientifico. Per Mattioli 1885 ha pubblicato una Storia del Pensiero Medico in cinque volumi, il quarto dei quali, dedicato alla medicina moderna, ha vinto nel 2011 il primo premio per il giornalismo e la saggistica al Concorso letterario Mario Pannunzio di Torino.
Su Riflessioni.it cura la rubrica: Filosofia della Medicina.

 

Sulla condizione umana PerozzielloLa sua ultima opera: Sulla condizione umana. Riflessioni mediche e antropologiche, Mattioli 1885 Editore, 2014.

"Dal concetto di salute a quello di dolore, per comprenderli e se possibile affrontarli. Dalla cura del malato, un viaggio che porta alla più radicale delle tematiche: la fine della vita. Una guida tracciata tra medicina, filosofia ed antropologia, una mappa da seguire lungo i percorsi più difficili dell'esistenza. Una riflessione condotta sul significato della nostra condizione e in generale della natura umana."

 

Il seguente articolo sul tema della morte è un'anticipazione e un estratto presente nel volume, tema che il professor Perozziello ha trattato in numerose conferenze e lezioni.

 

 

Antropologia della morte

Federico E. Perozziello

 

 

Nam non essent exteriores tenebras, nisi essent et interiores
(Infatti non esisterebbero le tenebre al di fuori di noi,  se non esistessero quelle dentro di noi)
da Fredegiso di Tours, De nihilo et tenebris (1)

 

Il medico francese Marie François Xavier Bichat (1771-1802) fu un geniale patologo, morto purtroppo di tubercolosi in giovane età. Bichat non definì la morte, ma riuscì a dare una descrizione condivisibile della vita, una valutazione che tutti potevano accettare e di cui ogni essere umano fosse in grado di trasmettere l’esperienza, a differenza della morte, che come il nulla e l’assenza di qualcosa è per questo di difficile delimitazione, anche solo linguistica. Affermò Bichat:

 

«la vita è costituita dall’insieme delle forze che si oppongono alla morte» (2).

 

Una definizione basata sull’alternativa tra due stati dell’essere, che risospingeva la ragione nel mistero di alcune riflessioni alto medievali, come quella di Fredegiso di Tous (VII-IX secolo). Aveva infatti ipotizzato l’abate Fredegiso, vissuto in un’Europa in cui l’Impero Carolingio sembrava opporsi con tutto il suo prestigio e la sua forza alla disgregazione di quel che restava dell’antica civiltà romana, che il termine nulla, cioè il latino nihil, dovesse per forza indicare qualcosa di realmente presente ed esistente. Il ragionamento di questo filosofo, espresso in un piccolo trattato dal titolo di  De nihilo et tenebris (Intorno al Nulla e alle Tenebre),si basava sul fatto che la grammatica e il linguaggio attribuivano ad ogni nome un proprio equivalente reale. Pertanto anche il termine nulla avrebbe dovuto indicare qualcosa di esistente in sé, indipendentemente dalla difficoltà di descriverlo e quindi di definirlo per assenza di esperienza diretta. (3)

 

La ragione poteva dunque riscattare l’angoscia generata dalla paura del fine della vita, ma sarebbe stato necessario distinguere tra la morte di un singolo individuo, che costituiva un fattore profondo di ansia per ogni essere dotato della consapevolezza del sé e l’estinzione di un intero gruppo di soggetti viventi o di un’intera specie. Dovremo rivolgere una particolare attenzione all’importanza della riproduzione sessuata nel circoscrivere e rimandare la morte. Gli organismi che si riproducono per partenogenesi godono infatti di una delimitazione del problema della morte più sfumata, esprimibile in termini forse più favorevoli. I batteri si moltiplicano per scissione, in un modo tale che è difficile appurare quando uno di essi possa essere considerato morto, dal momento che il codice genetico di un microrganismo trasmigra continuamente da un individuo a un altro. I batteri hanno rinunciato ad una riproduzione sessuata secondo il modello erotico tradizionale degli esseri viventi pluricellulari. Non seguono una differenziazione sessuale esplicita che faccia da stimolo alla riproduzione, poiché è spesso la forma dei diversi sessi a promuovere la seduzione, ad attrarre i diversi generi e di conseguenza promuovere la vita.

I microbi ribadiscono pertanto la loro fuga riuscita da Tanatos, che avviene escludendo Eros nelle  forme estetiche e culturali quali gli altri esseri viventi lo intendono. Probabilmente non avvertono piacere nell’atto riproduttivo e sfuggono in tal modo alla morte intesa come dissolvimento fisico totale del proprio sé. Un io che continuamente si trasfigura e si reincarna nell’altro della stessa specie. Alcuni particolari microrganismi, come i virus, non si possono nemmeno definire come sicuramente viventi, in quanto  per riprodursi hanno bisogno di infettare e distruggere una cellula ospite. Non sono quindi caratterizzabili secondo un tipo di vita autosufficiente proprio della specie cui appartengono. Non essendo generati completamente come individui da altri loro simili non possono neppure morire nel senso compiutamente inteso del termine che noi umani attribuiamo alla parola. La loro esistenza dipende strettamente dalle altre vite di cellule e organismi che essi devono sacrificare e distruggere per perpetuarsi.

L’archeologia, lo studio del passato e di chi ci ha preceduto nel cammino dell’esistenza  si confronta spesso con la morte o con il ricordo e il rito che la riguarda. E’ il caso dell’esercito di terracotta a guardia della tomba dell’imperatore cinese Qin Shi Huang  (260-210 a.C.), un sovrano ossessionato dal tentativo di raggiungere l’immortalità fino ad essere avvelenato e poi ucciso da una bevanda che aveva assunto per tale scopo. Non volendo essere lasciato solo nell’aldilà, l’imperatore si era fatto edificare un enorme mausoleo con migliaia di soldati di terracotta, cavalli e suppellettili varie, i quali vegliassero sulla propria regale persona anche dopo la fine dell’esistenza terrena. Aveva esteso così il proprio delirio di potere anche ai morti, non apparendo sufficiente all’imperatore angariare unicamente i vivi. Tumuli sepolcrali, piramidi, mausolei, monumenti funebri più o meno fastosi, rimangono a testimoniare la volontà di pochi di essere comunque ricordati dalle generazioni successive.

Le pratiche funerarie studiate dall’archeologia possono essere viste come una modalità di comunicazione elaborata dai superstiti per trasmettere delle informazioni sul defunto alla comunità dei vivi. Il trattamento del cadavere serviva a enfatizzare alcuni  dei ruoli che la persona aveva avuto in vita.  Più il sistema sociale di riferimento era complesso, più la diversificazione delle figure aumentava. Quindi la variabilità dei riti e delle usanze funerarie rifletteva il livello di complessità  organizzativa della società che le aveva prodotte. Un esempio di civiltà in cui la morte rivestiva un compito preciso di spartiacque sociale, oltre che esistenziale, è stato quello costituito dall’Antico Egitto.  Nella Valle dei Re, alla periferia di Luxor, il nome moderno dell’antica città di Tebe, sono state scoperte negli anni le tombe di re, nobili e dignitari del Regno Medio. Secondo la religione egiziana la morte dava inizio ad una serie di procedure volte ad assicurare la sopravvivenza del defunto. Ne possediamo una descrizione accurata attraverso il racconto dello storico greco Erodoto di Alicarnasso (484-425 a. C.), il quale nel II libro delle sue Storie ci ha raccontato gli esiti di un viaggio da lui compiuto nella Terra dei Faraoni. (4)

La procedura del rito funebre ha sempre seguito delle modalità codificate dalle culture e dalle convenzioni sociali legate al periodo storico ed al contesto geografico e religioso di riferimento. Per prima cosa si formava un’ideologia funeraria comune e condivisa. Una ritualità solida e rassicurante, arricchita  dagli elementi e dalle credenze necessari a circoscrivere l’angoscia della perdita. A questo nucleo ideologico e formale consolidato facevano poi da contorno altri elementi di certezza, sostenuti dal corredo funebre e dai ruoli assegnati ai  familiari ed ai  parenti nella cerimonia. Dopo un richiamo celebrativo a ciò che il defunto era stato in vita, effettuato in modo spesso declamatorio dai congiunti o dai ministri del culto,  accompagnato magari dall’esposizione di oggetti a cui il morto era particolarmente legato, si procedeva all’occultamento del cadavere attraverso la sepoltura o l’incenerimento. Un’azione che segnava e delimitava l’esclusione del defunto dalla vista dei vivi, non dai loro ricordi. Un insieme di comportamenti che dimostrava una volta di più, se fosse stato necessario, come il discorso sociale intorno alla morte fosse interamente creato da coloro che piangevano il trapassato. Il cadavere diveniva pertanto un veicolo passivo delle modalità attraverso cui si esplicitava e si organizzava  la cultura materiale del tempo a riguardo della morte.

La rappresentazione della morte è stata da sempre una delle tematiche più diffuse nell’arte. La morte è stata raffigurata sia come un destino collettivo, che come un’inevitabile incombenza personale e individuale. Esiste un dipinto che racchiude in sé tutta l’angoscia senza limiti di un futuro ultraterreno immaginato senza speranza. Questo quadro è il Trionfo della Morte, dipinto da Pieter Brueghel il Vecchio (1525-1569) nel 1562. In questo terribile dipinto l’umanità intera viene sospinta dai demoni infernali verso un confine di dannazione ed eterna  sofferenza, costretta ad abbandonare  le attrattive della vita, come il potere, la ricchezza, le gioie della tavola e del sesso. Un paesaggio infuocato e devastato dalla guerra e dalla pestilenza fa da sfondo al racconto, in un orizzonte in cui predominano due colori simbolici, il rosso del sangue e del dolore ed il giallo dell’eternità. Si tratta di una rappresentazione che non lascia spazio ad alcuna  speranza.

 

Morte

 

Quattro secoli dopo, in un’epoca considerata ormai scientifica e moderna come il Novecento, dobbiamo invece soffermarci sull’opera di Gustav Klimt (1862–1918)  Morte e vita del  1911. La società viennese del tempo non sembrava minimamente presagire le devastazioni irreparabili che la Prima Guerra Mondiale avrebbe a breve prodotto. Nel quadro di Klimt  la morte se ne stava in disparte, osservando il confuso e morbido intrecciarsi dei corpi nel lato opposto del dipinto, un luogo in cui tutte le età dell’uomo venivano rappresentate attraverso una composizione in cui la sensualità e l’abbandono al piacere della vita costituivano una zona franca di libertà da una fine inevitabile, appena momentaneamente sospesa. Un destino senza possibilità di scampo, che prima o poi avrebbe riaffermato il proprio potere. Soltanto un momentaneo oblio, legato indissolubilmente al piacere, consentiva di attendere felici il trascorrere del tempo, di illudere le persone a riguardo di una possibile anche se  provvisoria intangibilità.

Morte e vita

 

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NOTE

1) Fredegiso di Tours, Il nulla e le tenebre, Genova, 2011.

2) Bichat F.M.X., Recherches physiologiques sur la vie et la mort (première partie), in  Recherches physiologiques sur la vie et la mort (première partie) et autres textes, présentation et notes par André Pichot, Paris 1994.

3) Fumagalli B. Brocchieri M.T., Parodi M., Storia della Filosofia Medievale, Roma-Bari, 1990.

4) Erodoto e Tucidide, Storie, Firenze, 1968.


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