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Tempi di rischi o di pericoli?

di Alessandro Bertirotti - Gennaio 2013

 

Partiamo da questa interessante storia che un mio caro amico di nome Antonio mi ha inviato e che inizia pressappoco in questo modo: “Una donna tedesca, abitante nei pressi di Bonn, nel 1770, si trovò in una tragica situazione: in attesa del suo settimo figlio, in gravi difficoltà economiche, con il marito – da lungo tempo alcolizzato – morto improvvisamente, malata di sifilide. Una condizione disperata, triste e davvero priva di futuro. Se oggi un caso simile si presentasse, avremmo un movimento di opinione in favore del suo aborto e la cosa più importante è che se questa decisione fosse presa, oppure imposta da altri, non nascerebbe Ludwig van Beethoven".

Sono dunque molte le domande che possono scaturire da questa lettura.

Risulta comunque difficile esprimere un'opinione accettabile per i più, perché ogni ragionamento fatto a posteriori sarebbe comunque falso rispetto alle considerazioni che ogni persona compie quando si trova a prendere decisioni che hanno ripercussioni così forti sul proprio futuro.

Non si tratta di discutere o meno sulla liceità dell'aborto, sulla eventualità che esso possa essere più o meno terapeutico, quanto di soffermarci a fare qualche considerazione sul valore temporale di alcune azioni umane, nel momento in cui agiamo.

Tutti gli individui sanno che ogni azione ha la sua conseguenza, e proprio grazie a questa consapevolezza, come mi capita spesso di scrivere e dire, è possibile mettere in successione cronologica una serie di comportamenti che ci permettono di raggiungere uno scopo. E fin qui tutto sembra ovvio, mentre le cose cambiano radicalmente nei casi simili a quello proposto dal mio amico Antonio.

Cosa decidere quando una propria scelta può comportare la messa in atto di conseguenze che non siamo assolutamente in grado di prevedere con certezza oggettiva? La nostra decisione sul da farsi quanto viene influenzata dalla percezione che si possiede del futuro e quando invece dall'imponderabilità?

Entriamo, quando ragioniamo in questo modo, nel panorama cognitivo che si definisce "del rischio" e "del pericolo".

Prima di affrontare più dettagliatamente la questione, è necessario precisare che esiste una profonda ed importante differenza tra la percezione umana del pericolo e quella del rischio.

Il pericolo è qualche cosa che percepisco come tale indipendentemente da qualsiasi decisione io possa prendere nei suoi confronti, mentre il rischio ha a che fare con la mia decisione di stabilire con la situazione che sto valutando una relazione precisa.

Con il rischio mi avvicino al pericolo considerandolo secondo una serie di riferimenti che si valutano importanti nella propria esistenza, mentre con il pericolo mi allontano dalla possibilità che la situazione negativa da esso rappresentata possa avere a che fare con me.

Facciamo un esempio per meglio chiarire la cosa: andare in aereo costituisce un potenziale pericolo per ogni essere umano ragionevole che decida di non andarci, mentre diventa un rischio per tutti coloro che decidono di andarci. In base alla percezione personale di un proprio livello di rischio accettabile o meno, le persone decidono di prendere l'aereo per andare a trascorrere alle Maldive un periodo di vacanza. Come vedete, si tratta, ancora una volta, di una percezione del futuro che cambia in relazione ad una valutazione del presente: prendere o meno l'aereo per andare in vacanza.

Bene, avviene esattamente la stessa cosa rispetto al problema che abbiamo posto all'inizio, ossia se mettere o meno al mondo una persona in condizioni di vita pericolose o quanto meno rischiose. Qualsiasi decisione si prenda è importante sapere che la si prende basandosi sulla percezione che si possiede del proprio futuro e delle conseguenze che tale percezione potrà avere sugli altri, in questo caso il feto. Se la madre ha già stabilito un rapporto affettivo con il feto, esso rappresenta un rischio, anche quando è sano e a maggior ragione quando qualcuno le dice che è ammalato o che è nefasto l'ambiente nel quale andrà a vivere (e nel quale vive la stessa madre). Se la madre percepisce il feto come qualcosa di slegato rispetto al suo contenerlo, esso diventa un pericolo che la madre può decidere di allontanare o meno dal proprio utero, determinando in questo modo la realizzazione di un futuro preciso e chiaro, proprio perché si decide di stabilire con il feto un non-rapporto che lo definisce "pericolo" e "non rischio".

In tutte e due le situazioni, sia che si accetti il rischio o che lo si neghi, definendolo eccessivo e dunque assimilabile al pericolo, vi è sempre un essere umano, che già esiste, che decide sulla vita di qualcuno che deve venire e che dovrà adattarsi o meno alle condizioni che troverà, e che originano dal passato. E questo avviene sempre, in ogni circostanza, in ogni azione della vita umana, non solo in riferimento alla nascita e crescita di una vita. Se le persone si affezionano alle intenzioni che vengono prima delle azioni, correranno il rischio di curiosare nel futuro permettendo l'avvento delle conseguenze, mentre coloro che si affezionano con maggiore facilità alle azioni concrete, cercheranno di trasformare un rischio nella semplice percezione di un pericolo.

Ecco perché io non sarei tanto severo nella condanna di persone che, avendo una personale percezione del futuro, decidono di rischiare la propria vita e quella di qualcun altro (mettendo ad esempio a repentaglio il futuro di un gruppo di persone, come può accadere nel caso delle scelte politiche...) in nome di un futuro che percepito come rischio che si può correre e non pericolo da evitare.

Decisamente importante dovrebbe essere allora, specie in questo contesto politico-esistenziale, la presenza di una comunicazione corretta ed una onestà intellettuale da parte di colui che percepisce il rischio oppure un pericolo in quella precisa azione da attuarsi, specialmente rispetto a coloro che diventeranno proseliti. E questa è la tipica situazione di una scelta politico-elettorale, che non è possibile attuare rispetto ad una vita che sta per nascere, o, secondo altri punti di vista, è già nata. In questo ultimo caso, dal mio punto di vista, si tratta solo di una questione affettiva genitoriale, tanto materna quanto paterna.

La cosa peggiore, o migliore – dipende dai punti di vista – è che comunque in questo caso non è possibile conoscere in anticipo il comportamento del nascituro, pur non ignorando le oggettive difficoltà ambientali nelle quali potrebbe venire a trovarsi.

Io ritengo che la "Natura" abbia stabilito, indipendentemente dai nostri giudizi e dalle nostre azioni, una specie di "giudizio a monte" che, prima ancora del verificarsi delle azioni umane, determina la quota numerica di azioni pericolose e rischiose accettabili dalla "Natura" stessa.

Anche in questo caso, ritengo che il nostro livello di libero arbitrio sia minore di quello che si pensa se paragonato alle decisioni di una madre, proprio perché il sistema di riferimenti culturali su cui si basa la decisione della madre la può portare a prendere decisioni dettate dall’affetto.

Come vedete, la questione dell'imponderabilità dovrebbe essere, secondo me, alla base della sospensione di giudizi di valore, che vengono appunto dispensati, in questi casi, con molta facilità, allontanandoci dal rispetto della storia personale di ogni singolo individuo. E questo è il caso dell'aborto, mentre le cose stanno diversamente nel caso dei rischi di una scelta politica condivisa, che sono invece legati alla necessità di una comunicazione il più possibile divergente, ossia in grado di evidenziare chiaramente gli aspetti positivi e negativi di qualsiasi decisione si prenda a monte.

Forse, la presenza di momenti di dialogo collegiali, anche rispetto a tematiche come quelle dell'aborto e della politica, potrebbero aiutare meglio l'intera umanità ad affrontare questioni rischiose o pericolose.

Come al solito e ancora una volta, indipendentemente dalla mia fiducia verso le "misteriose ragioni della Natura", il libero arbitrio utilizzato al servizio della solidarietà può rivelarsi risolutivo in questo nuovo millennio umano.

 

Alessandro Bertirotti

 

Alessandro Bertirotti, laureato in Pedagogia e diplomato in pianoforte, è scrittore, ricercatore, docente universitario. È l'unico docente italiano di Antropologia culturale che si occupa di Antropologia della Mente.

È socio fondatore e vice presidente della ANILDA (Associazione Nazionale per l'Inserimento Lavorativo e l'emancipazione dei Diversamente Abili) con sede a Milano. È presidente dell'Associazione Culturale Opera Omnia, che si occupa di comunicazione culturale e scienze esoteriche. Fa parte di Comitato Scientifico del Centro Studi Internazionale Arkegos di Roma. E' membro dell'International Institute for the Study of Man di Firenze, dell'A.I.S.A. (Associazione Interdisciplinare di Scienze Antropo-logiche) e della Società di Antropologia ed Etnologia di Firenze. È direttore scientifico della collana Antropologia e Scienze cognitive per la Bonanno Edizioni, e membro della Direzione scientifica della Rivista scientifica on-line www.neuroscienze.net. E' autore di numerose pubblicazioni.


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