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Prolegomeni all'Amarezza

Prolegomeni all'Amarezza

di Anonimo    indice articoli

 

Aporie della Solitudine

Dicembre 2015

 

 

1. Storia ed Eternità di un Sentimento

2. La solitudine ai tempi della moneta

3. La Sindrome della Disgregazione

4. Veleno e Linfa di una Radice

5. Evangelismo e Comunismo: oltre l'Aporia

 

 

"Qui ne sait pas peupler sa solitude, ne sait pas non plus être seul dans une foule affairée"    Charles Baudelaire

 

"Chi non sa popolare la sua solitudine, non sa neppure restare solo in mezzo a una folla indaffarata"

 

 

1. Storia ed Eternità di un Sentimento. La solitudine non è una condizione reale ma uno stato psicologico; non si è mai davvero soli, ci si sente soli. Gli echi di tutto il Novecento, nella sua trasversalità artistico-intellettuale, risuonano sordamente nella contesa della solitudine fra Essere e coscienza. Se l'uomo, per incomunicabilità, per l'abisso che lo separa dall'Altro, per la differenza ontologica rispetto a tutto ciò che non è sé, non sia in fondo strutturalmente solo: il conflitto ideale fra Heidegger e Lévinas e infiniti altri non ha mai cessato di consumarsi su queste parole. Rispetto a codesto spazio di solitudine esistenziale, per così dire antropologica, possiamo ritagliarne un altro già sociale e storico, meno accidentato ma non per questo sorvegliato dalla quiete. Se la solitudine è una condizione psicologica, lo stesso si dovrà dire della socialità, a sua volta irreale ma esperibile. Ogni concrezione di questi stati non è mai, dunque, lo stato in sé, ma una sua manifestazione particolare, influenzata dalle circostanze in cui essa si presenta e dalle pratiche sociali in esse vigenti. In questi termini, la socialità come la solitudine sono una cultura, ovvero qualcosa di appreso e contestualmente determinato, quasi il frutto di un'educazione sentimentale che s'insozza e modella nel confronto con il prossimo. La solitudine si impara, così come la compagnia. Non posizioni teoriche innate, ma passioni che maturano nella fatiche delle tappe, necessarie o meno, di una vita.  Con ciò non si vuole intendere in alcun modo che vi sia in termini assoluti un modo intrinsecamente etico e corretto di stare insieme o di stare da soli, ma che vi è qualcosa come un'evoluzione nel rapporto con sé e con l'altro che germoglia nel cuore dell'esperienza – così come si passa dallo stadio infantile del Fort/da all'autonomia dalla guardia del genitore. Tornando alla Storia, la coltre gelida di quest'oggi, abitato da nichilismo, morte d'ideali, sentimento d'inadeguatezza, insensatezza e solitudine è tutta un medesimo groviglio rigurgitato proprio dall'inaridimento del sentimento nella sua priorità esistenziale. L'intransigente violenza delle passioni ha ceduto al giogo della mediatizzazione, lato sensu. Entrano così in gioco due ambiti, storicamente identificati, entro i quali si gioca l'aberrazione del sentimento: l'uno disgregante, depersonalizzante quale la transazione economica; l'altro sorgente di radici ed identità forti, quale i rapporti familiari.

 

2. La solitudine ai tempi della moneta. In un sistema di mercato efficiente, il denaro è uno strumento che dev'essere esercitato in modo solitario, senza legame con la sua origine o dal suo merito, ed il suo potere d'acquisto deve realizzarsi indipendentemente dal consenso altrui. Economicamente, ogni uomo è un'isola. I beni, nel loro anonimato, hanno a loro volta la sola determinazione del prezzo e, quando integralmente pagato, devono essere ceduti, senza interferenze di giudizio personale sul suo uso futuro o l'individuo che l'acquista, atti teoricamente illegali. In una transazione economica, l'altro in quanto persona è un accidente. L'attitudine spontanea della pratica monetaria alla capillarizzazione, e conseguentemente all'estensione diffusiva, tende a sostituire ed eliminare tutte le transazioni alternative, cioè partecipative e di dono, che dipendono dal riconoscimento personalistico. Quando ogni atto è indipendente, è l'individualismo metodologico il solo faro del soggetto, le cui possibilità e decisioni sono autoreferenziali e seconde solo alla disponibilità materiale. A morire in questo processo non sono solo gli scambi e i favori pseudo-economici che implicavano comunque un giudizio delle parti, ma soprattutto tutte le iniziative che inauguravano rapporti comunitari, l'humus della strutturazione sociale, che ora divengono puri atti di compravendita. Se la tendenza espansiva della moneta non è più solo un'inclinazione ma una realizzazione storica globale, com'è oggi in tutto il mondo civilizzato e in esportazione in quello "in via di sviluppo", le implicazioni sistematiche di tale processo sono tanto drammatiche quanto eloquenti.

 

3. La Sindrome della Disgregazione. Una volta i panni si nettavano nei lavatoi lungo il fiume, oggi nella sicurezza di un'abitazione grazie alla lavatrice. Una volta ci si recava personalmente da diretti produttori per chiedere dei loro prodotti, nella maggior parte dei casi artigianali; oggi un supermercato risparmia da solo mille dispersive fatiche nell'omogeneizzazione dell'offerta dei beni. Una volta il tarlo di un dubbio mobilizzava alla ricerca di qualche sapiente, un anziano, un intellettuale o un bibliotecario, che potesse dirimerlo o reindirizzare ad altri testi o fonti che l'avrebbero fatto, inaugurando una nuova peripezia di ricerca; oggi non c'è quesito che non conosca risposta se digitato sulla rete. E per fortuna, si direbbe – e ogni incipit narrativo vuol testimoniare proprio quanto anacronistiche queste pratiche, ormai lambenti il cliché, appaiano a chi mai ha avuto occasione di viverle. L'evoluzione di simili atti costituisce indubbiamente un progresso in termini di comfort, ma altresì concorre significativamente a sfilacciare i processi di socializzazione che ciascuno dei suddetti contesti avrebbe comportato. Allo stesso modo, ogni iniziativa individuale che un tempo avrebbe inevitabilmente richiesto il ricorso ai favori dei membri della comunità e all'indebitamento morale con essi può oggi comodamente esser sopperita dall'intervento di professionisti a pagamento, la cui efficienza è probabilmente maggiore, il cui rapporto è meno dispersivo e verosimilmente più rapido. Nel momento in cui è la socialità stessa a proporsi come esigenza inappagata, ecco fiorire senza indugio tutto un mondo di surrogati economici: dal personal trainer allo psicanalista o al recente car sharer, dall'insegnante a ore alla prostituta. Homo, sive pecunia: puri rapporti fra soggetti economici, da cui l'eterna solitudine dei clochard.

 

4. Veleno e Linfa di una Radice. L'alternativa a questo quadro distopico di individualizzazione e desocializzazione è la forza delle relazioni sociali strutturate, partecipative. Prima fra tutte, nonché inaugurazione primordiale del rapporto di dono, la famiglia. Questo termine, spesso inteso in senso biologico, è in realtà una pura determinazione sociale e contingente: nulla vincola naturalmente la madre al figlio, né il figlio alla madre, né un individuo ai propri simili. Ma se la madre si occupa volontariamente del figlio, e tale cura è da considerarsi una scelta culturale, ma non per questo meno vincolante, questo si ritroverà inevitabilmente a riconoscere con chiarezza che, senza la premura genitoriale, non sarebbe affatto vivo. Esistere, quindi, è già sempre il frutto di un atto gratuito altrui, che getta forzatamente di fronte alla condizione di debito originario che ogni vita, in quanto tale, sottende. In questo senso, la dipendenza morale dalle generazioni precedenti è costantemente viva, talora come linfa incentivante ad un'iniziativa che si adoperi nel ripagare tale debito esistenziale, talora come catena che rammenta un'obbligazione non scelta e a cui non s'ha deciso di partecipare – è la stessa culla che anima la trasgressione omicida di Edipo e la responsabilità lungimirante di Telemaco. Ora, se intendiamo la famiglia come un termine d'aggregazione sociale, cioè come nucleo fondamentale del rapporto di dono, questo si realizza in disparati contesti, e, anzi, rappresenta la sola cellula possibile di una socializzazione solida. I gruppi, i clan, la mafia, la gang, i club, indipendentemente dalla moralità della loro vocazione, sono rapporti fiduciari dove si stabilisce e rafforza una reciprocità che lega gli individui e, progressivamente e differenziatamente, non li rende pensabili all'infuori del loro circolo d'appartenenza. In altri termini, ogni possibile definizione dell'individuo, cioè un riferimento ai suoi caratteri particolari, irriducibili ed irriproducibili è sempre una definizione che passa attraverso l'Altro, il suo riconoscimento e l'appartenenza ad esso – o, come scriveva Paul Ricoeur più risolutamente, essere "sé come l'Altro". Contestualmente, la situazione è opposta diametralmente a quella del liberismo, giacché qui l'individuo, anziché non essere altro che sé, non può essere solo sé.
La famiglia rappresenta, quindi, una cellula radicale che, come solo tratto collaterale apparente, sembra poter incitare un Edipo latente; e, d'altronde, solo nella persistenza viva della Legge posta dall'Altro si hanno catene da scalfire, bastioni da violare, forze a cui opporsi. Simultaneamente, la famiglia è anche la base inaugurale della socialità positiva, nonché della condizione della sua riproducibilità, poiché ogni futuro riverbero di questa si struttura sull'impianto familistico originario. Sviluppando il concetto, se la socialità è quella della famiglia, tutti coloro che non ne partecipano saranno esterni alla famiglia, non as-sociati. Anche qualora si tendesse a fare conoscenza, l'istanza prima sarebbe di riprodurre il rapporto familistico, riconducendo la nuova conoscenza al nucleo già formato o tentando di crearne uno nuovo. Per quanto socializzante sia, la famiglia è dunque l'istituzione privata per eccellenza, poiché fonda la linea di demarcazione strutturale fra il simile e il diverso, fra il consanguineo e lo straniero. Così, se caldo è il rapporto familiare, freddo sarà ciascun rapporto che non vi assomiglia. E come potrebbero somigliare al volto della madre le rughe di una signora in metro, gli occhi di una sconosciuta in tram? Anche qualora le si ritenessero vicine, non sarebbe a partire dalla loro umanità intrinseca, ma dalla somiglianza al volto della madre che inaugurò tutti quelli a venire. Così, paradossalmente, è l'ipertrofia sociale della famiglia a far insorgere la diffidenza della differenza, a creare una nuova solitudine, quella dell'esterno, quella dello straniero.

 

5. Evangelismo e Comunismo: oltre l'Aporia. Se la solitudine è una condizione psicologica e la famiglia un'istituzione culturale, nulla esclude che questi due coefficienti possano mutare con il progredire dei tempi, pur con tutto il peso che la Storia implica. Così come nei Vangeli (Matteo 10, 37; Luca 14, 26) Cristo dice di abbandonare con risolutezza il padre, la madre, figli e fratelli per esser degni di lui e raggiungerlo, Marx, e molto prima di lui Platone, teorizzavano che i figli dovessero essere educati collettivamente, salvi dalla privatezza e la privatizzazione dell'istituzione genitoriale, affinché della somiglianza non nutrissero un'idea familiare ma ideale, cioè rivolta astrattamente e generalissimamente ad ogni prossimo, ad ogni esistenza in quanto tale e non solo a quella con il colore della pelle o la fisionomia che ricordino un parente. Queste due posizioni teoriche vogliono essere soluzioni in quanto superamenti ed assiologici in vista di una prassi dei vicoli ciechi in cui siamo incappati nelle precedenti analisi: non la solitudine dei rapporti monetari in un mondo senza identità, non lo smarrimento in un nido familistico pullulante di diversità esterne. Cristianesimo e Comunismo sono degli affronti ad ogni teoria della tradizione, tentativi filosofici di educare indipendentemente dalla località e da ogni determinazione materiale alla nascita, mirando originariamente ad un cosmopolitismo morale e razionale. Si tratta pur sempre di un'istanza culturale? Probabilmente sì, ma un'istanza che più d'ogni altra su questo terreno si approssima alla perfezione dell'Idea.

Alla diffidenza su queste posizioni degli occhi perbenisti di chi è aduso all'inviolabilità del reale a tal punto da aver obliato la bellezza della critica, vorrei ricordare che ben più aberranti e disumane di esse sono la nostra parossistica xenofobia o l'ammorbante solitudine che intessono ruvidamente il principio di realtà con cui tanto serenamente si convive. Come diceva Nietzsche, "l'uomo è qualcosa che va superato. Cos'avete fatto per superarlo?"; e, in fondo, c'è ben poco di inquietante in quella che si pone come la sola alternativa alle aporie della solitudine, oltre le quali non si potrebbe procedere in alcun modo se non precipitando nella miseria già attraversata. Solo una volta che l'umanità si sarà spinta oltre quella sua fasulla essenza che ritiene immutabile potrà constatare se ancora e ancora "si è soli anche fra gli uomini", come confidò il serpente al Piccolo Principe. Fino ad allora, e probabilmente per sempre, ci s'arrenderà a vivere nello scacco di un mondo dove la solitudine è la Lex Aeterna e non esiste alternativa alla vita morente. Eppure, per non dimenticare l'Ideale intravisto in fondo allo Spleen, quandanche questo mondo decaduto non possa essere sanato, si sperimenti almeno il palliativo dell'azione morale, il timido ardimento del cambiamento.

 

    Anonimo

 

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