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Prolegomeni all'Amarezza

Prolegomeni all'Amarezza

di Anonimo    indice articoli

 

L'Epoca della Superstizione Scientifica

Settembre 2016

 

 

Anni fa conobbi un ragazzino durante una vacanza montana e mi ritrovai a parlare con lui delle grandi questioni della vita. Gli chiesi se credesse in Dio, ma egli rispose che non credeva che alla scienza. Questo breve aneddoto mi riappare sempre più spesso come un sintomo cristallino della pubblica opinione su cosa sia il sapere scientifico e quale il suo statuto di verità – nel caso di quell'incontro, incarnato in un giovane corpo che ancora di teorie scientifiche poteva avere al più le conoscenze di un libretto illustrato. Dal sintomo alla malattia: in che cosa si crede quando si crede alla scienza? Con una mossa estremamente semplificativa, possiamo provare a tripartire l'oggetto di questa credenza: a) si crede nell'oggettività della scienza; b) si crede nell'esplicatività della scienza; c) si crede nel valore veritativo della scienza.

 

Queste posizioni diffusamente condivise non sono certo conclusioni criticamente e documentatamente ricavate, né sono l'oggetto di un'effettiva esperienza individuale – proprio per questo si dice di credere alla scienza, mentre nessuno direbbe di credere a sedie e tavoli, avendoli sempre innanzi a sé come oggetti. Lo scientismo che anima il pensiero comune trova riscontro a tutti i livelli del discorso pubblico: è un cavallo di battaglia dei progressisti, è ciò in nome di cui la ricerca scientifica rivendica ormai da anni investimenti e fondi privilegiati, è oggetto della grande comunicazione mediatica presso la quale di tanto in tanto si ode di qualche prodigiosa scoperta scientifica, dalla robotica all'astrofisica, dall'espansione dell'universo all'origine del cosmo. La scienza non ha, quindi, semplicemente apportato delle radicali modifiche materiali alle nostre vite, ma è diventata a pieno titolo una visione del mondo, dalla quale ormai perfino il parroco ha qualche imbarazzo ad astenersi. È a partire da questa constatazione che vorremmo prendere in esame i tre suddetti 'meriti' della scienza e tentare di chiarificarli enucleandoli singolarmente.

 

Innanzitutto è bene chiarire che 'la scienza', in un senso puro, non esiste. Ad esistere è esclusivamente la pratica o, meglio, le pratiche scientifiche che si incarnano di volta in volta in circostanze particolari e sperimentali. L'immagine affascinante dello scienziato che si muove nella natura e ne scopre i segreti nascosti studiandone i dettagli è una raffigurazione puramente mitologica. Come già aveva intuito Kant, la natura è interrogata dall'uomo non già al modo di un insegnante che esamini lo scolaro, ma di un giudice che incalzi l'imputato. I nostri occhi che guardano il mondo non sono mai vergini, ma gravidi di pensiero; così, mentre si istituiscono le condizioni controllate, reiterabili e misurate (cioè tutt'altro che naturali!) per poter condurre un esperimento pluralmente apprezzabile, ci si sta già disponendo ad un certo modo di interrogare ed osservare i fenomeni, e le risposte che questi forniscono non esisterebbero affatto se non alla luce dello specifico domandare che le ha pro-dotte.

 

Tale procedimento sperimentale è la linfa della scienza moderna inaugurata da Cartesio e Galilei, sulle spalle della quale si erige l'intera attività scientifica odierna. È proprio su questa rigidità metodologica che si basa la presunta oggettività delle scienze, le quali, differentemente da altri ambiti parascientifici, come la psicanalisi classica, o totalmente inoggettivi ed idiosincratici, quali la filosofia, otterrebbero sempre le medesime risposte, univoche e pubblicamente apprezzabili. Purtroppo anche quest'idea è non meno leggendaria del naturalista naif. Se l'oggettività, infatti, è testimoniata dalla pubblica concordanza dei giudizi su un fenomeno osservato, bisogna notare, in primo luogo, che ogni apprezzamento oggettivo che prescinda dalle condizioni materiali di osservazione è assolutamente impossibile. La struttura di una cellula non avrebbe proprio nessuna oggettività al di fuori dall'essere osservata con il microscopio; ma, nel momento in cui essa è osservata con il microscopio, devono operare già infiniti elementi non scientifici e non oggettivi  che hanno condotto alla decisione,sulla scorta di ragioni localmente condivise, di produrre ed utilizzare proprio quel supporto e quella disposizione interpretativa – perché non osservarla, ad esempio, con un telescopio, un caleidoscopio o attraverso un prisma? In questo caso, la scelta del microscopio è determinata dal fatto che noi riteniamo che rappresentazioni microscopiche siano intellettualmente dominabili e materialmente governabili, nonché dall'idea che il macroscopico sia costituito dal microscopico, il complesso riconducibile al semplice. Ma queste non sono né verità scientifiche, né tesi oggettive, ma solo decisioni metodologiche dipendenti da un particolare modo di operare – che, abbiamo detto, è già sempre un particolare modo di interrogare.

 

In secondo luogo, è falso anche che le risposte fornite da esperimenti siano affatto univoche. Si pensi al caso esemplare della struttura atomica: in seguito all'osservazione microscopica dell'atomo, vennero formulati innumerevoli modelli fra Dalton, Thomson, Rutherford, Bohr, De Broglie etc. Ora, la modellizzazione rappresentativa di un fenomeno è importante ed utile perché ne consente maggiori maneggevolezza, intelligibilità, richiamabilità mnemonica e dominabilità, proprio come una mappa consente di muoversi meglio in una foresta che non guardando direttamente la foresta stessa. Ma la mappa non è la foresta; parimenti, nessun modello scientifico è il fenomeno che cerca di chiarire. Eppure noi non possiamo lavorare che con modelli scientifici, precisamente perché rispondono delle esigenze operative delle pratiche sperimentali.

 

Il modello, quindi, non è il fenomeno, né è in grado di spiegarlo. Ci ricongiungiamo così alla presunta esplicatività delle scienze. Le scienze naturali sarebbero in grado di dire perché alcuni fenomeni accadono. Ad esempio, possiamo render ragione del fatto che l'acqua evapori o si congeli mostrando che le molecole di H2O si allentano o si irrigidiscono in un reticolo cristallino. Di fatto, che il microscopico sia esplicativo del macroscopico non significa altro che mentre noi guardiamo l'acqua evaporare, se la osservassimo al microscopio, vedremmo le molecole muoversi più caoticamente. Eppure, a ben vedere, quello che otteniamo col microscopio non è che un altro fenomeno. Certo, se noi operiamo con la struttura molecolare dell'acqua possiamo ottenere molti effetti desiderati e prevederne decorsi causali anche a lungo termine, cosa che non sarebbe stato possibile fare, allo stesso modo,con l'acqua 'in carne ed ossa'; tuttavia, non si capisce affatto perché l'immagine al microscopio dovrebbe essere 'più vera' di quella ordinaria, né perché dovrebbe poter spiegare quest'ultima.

 

È questa, infatti, una delle grandi lezioni della fenomenologia: un fenomeno è solo ed assolutamente indicativo di se stesso. Attraverso la pratica scientifica quel che accade è la correlazione di fenomeni covariabili, cioè di immagini microscopiche e macroscopiche ove la modificazione delle une influenza le altre e viceversa. Ma se inizialmente di fronte ad un'immagine ponevamo la domanda relativa alle ragioni del suo accadere, il fornire un'ulteriore immagine non può in alcun modo spiegare la prima, perché ne ha esattamente il medesimo statuto rappresentativo – infatti possiamo benissimo chiedere il perché dei fenomeni microscopici stessi. Potremmo dire che nella pura contingenza dell'accadere nulla spiega nulla; ogni cosa è, niente di più, ed il perché, in senso metafisico, della fattualità è destinato a rimanere eternamente inevaso.

 

Veniamo ora al terzo punto: il valore veritativo della scienza. È opinione condivisa che la pratica scientifica possa di principio fornire l'immagine vera del mondo, alla quale si approssimerebbe asintoticamente, superando di volta in volta il solo ostacolo dei supporti materiali storici. Secondo quest'ottica l'immagine contemporanea del calore come agitazione molecolare supererebbe quella moderna del calore come fluido perché sarebbe effettivamente più vera. Un piccolo passo per l'uomo, un grande passo per l'umanità – ed il cammino non sarebbe infinito. È questa, in effetti, un'idea che ha animato l'intrapresa neopositivista per una Enciclopedia Internazionale della Scienza Unificata, ultimo grande tentativo epistemologico di ambire all'assemblaggio dell'immagine vera del mondo per mezzo di teorie locali vere.

 

Tentativo, questo, rovinosamente ed esemplarmente fallito alla luce delle disparate e trionfali scoperte scientifiche di tutto il '900. Ora, non solo vi è una totale incomunicabilità fra specialisti di diversi settori, ma vi è altresì una mutua intraducibilità fra le rappresentazioni e le teorie di ambiti differenti. Fondamentalmente, ciò dipende da due elementi intrinsecamente appartenenti alla pratica scientifica. Il primo, come si è già detto, è l'utilizzo di modellizzazioni che non sono i fenomeni che vorrebbero spiegare. Un modello scientifico, infatti, ha esclusivamente una funzione operativa e, mutando le esigenze dell'operare, come di fatto accade nei diversi ambiti epistemologici, deve mutare il modello stesso. Il secondo è il totale disinteresse per la sinteticità onnicomprensiva. Il biologo davanti al microscopio e l'astronomo al telescopio devono fornire teorie regionali capaci di dominare intellettualmente l'immagine che hanno innanzi, in modo totalmente indipendente dalle immagini fornite da altri ambiti – ciò che Husserl chiamava 'ontologie regionali'. Non si tratta affatto di un inciampo di percorso, ma del nerbo della scienza moderna nella sua riduzione del complesso al semplice, nella sua divisione del lavoro e nella sua formulazione di teorie locali aventi per fine esclusivamente la governabilità del particolare. L'unione di teorie disgiunte, come accadde per l'elettromagnetismo, sono casi eccezionali, non il modo ordinario di procedere.

 

Emerge così limpidamente come la scienza non possa affatto fornire l'immagine vera del mondo, semplicemente perché essa non può mai avere il mondo come proprio oggetto. La scienza può non curarsi dell'intero – compito che invece la filosofia deve necessariamente sobbarcarsi – e proprio per questo è in grado di operare efficientemente, prestarsi al lavoro d'équipe ed ottenere risultati performativi. La scienza produce fenomeni, li 'chiama fuori' e li utilizza operativamente; in questo senso, essa assomiglia più ad un'arte, ad una téchne che ad un sapere veritativo.

 

Per questa ragione è un puro fraintendimento pensare che la scienza possa assolvere la funzione di visione ontologica del mondo. La scienza non guarda in faccia il mondo e l'unica arida visione che essa possa fornirne è quella di un fisicalismo riduzionista, di un classico 'non esiste che res extensa misurabile'. Ma come si può dalla pura quantificazione derivare la significazione? La qualità della percezione? L'atto stesso del pensare? Il fatto di esserci come coscienza? Come derivare la storia, l'economia, la scienza stessa?

 

In questo senso, la pervasività del pensiero scientista è tale da poterlo chiamare a pieno titolo una superstizione, così famelica di progresso ed esattezza da aver dimenticato le ragioni del suo stesso procedere. Ma il vero enigma non è già (solo) il mondo silenzioso che interroghiamo, ma il fatto stesso che lo interroghiamo. Così la domanda di senso, quella che muove ogni atto, anche quello scientifico, deve necessariamente essere esterna alla scienza, nonché ad ogni sapere – e lo stesso varrebbe per la verità, della quale nessun fatto, in quanto fatto, potrà mai essere una testimonianza. Una volta tanto sarebbe auspicabile che, anziché guardare, l'uomo si guardasse mentre guarda; scoprirebbe allora che ciò che viene visto non è altro da ciò che si vuole vedere. Si traccerebbe così una soglia ben più definita che la scienza non dovrebbe poter superare: l'uscio del laboratorio, l'ingresso nella vita.

 

    Anonimo

 

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