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Prolegomeni all'Amarezza

Prolegomeni all'Amarezza

di Anonimo    indice articoli

 

Un Delirio in Nome di Libertà

Settembre 2015

 

"Nessuno è più schiavo di colui che si crede libero senza esserlo". Con queste parole Goethe raccontava le pene d'amore che costellano "Le affinità elettive", indicando come la follia degli amanti avveleni di giorno in giorno l'autonomia del libero arbitrio fino a renderlo, come in una reazione chimica, dipendente da un altro elemento ed incapace di vivere, se non di esistere, in assenza di esso. Ma la sentenza di Goethe cela qualcosa di ben più universale, e pertanto di ben più inquietante. Le sue parole rimandano, infatti, al problema della libertà dell'uomo, questione suggerita a più riprese fin dall'antichità e ad oggi senza esito alcuno che non risulti inestricabilmente irrisolto.

La domanda sulla libertà è inevitabilmente metafisica. Nulla, infatti, all'interno della semplice vita cosciente rimanda ad un qualsivoglia dualismo fra costrizione e libertà, se non nel momento in cui tale concetto viene esatto da una circostanza storica, come esito preciso di pratiche particolari. L'idea della libertà può essere raccolta in tre ambiti principali (religioso, scientifico ed etico), che si diramano racchiusi in una più ampia volta che potremmo complessivamente definire filosofica. Pur lasciando inevitabilmente inevasi infiniti punti, date la vastità del concetto e l'angustia della scrittura, questo cammino verso la libertà tenterà di approdare tangenzialmente a ciascun ormeggio suddetto, prima di confluire in una conclusione che funga da sintesi filosofica.

La libertà all'interno del primo dominio, quello della religione, può e dev'esser ricondotta alla questione del fine (télos). Quella del disegno di Dio come segno di predestinazione individuale è un'idea tipicamente cristiana, peraltro infinitamente problematica, la quale raccoglie, pur estendendolo ambiziosamente, l'esigenza di un senso nella direzione del mondo. Anche il sentimento religioso greco, incommensurabile a quello cristiano, aveva concepito le tre parche come figure rappresentanti la vita dell'uomo "appesa ad un filo" e determinata da una volontà superiore.

Casi analoghi si ritrovano in infinite altre manifestazioni religiose locali ed esprimono precisamente la reazione dell'uomo alla congerie di eventi che egli non sa governare, dalla nascita all'avvizzimento, dai folli sentimenti amorosi fino alla morte. Nella misura in cui tali eventi sono la causa principale del dolore, la domanda che ne segue è: quale colpa può avere l'essere umano per il dolore che pervade una vita che lui non ha scelto di vivere? Il rapporto con l'inspiegabile e con gli avvenimenti che segnano la vita senza averle chiesto il permesso inducono l'uomo a stigmatizzarli ed elaborarne il significato, riconducibile ad un lutto del Sé, attraverso una loro sublimazione, configurata sovente come divinità.

E quando l'essere umano non è più solo con la Terra, non più il sorvegliante del proprio passo errante, il nuovo supervisore cosmico dovrà avere un ruolo nel decorso che il (suo) mondo attraversa. È esattamente da qui, dalla genesi ombelicale di un occhio divino, che l'uomo problematizza la libertà in senso religioso. Ha forse Dio, nella misura in cui è sommo Bene, il dovere di condurre il mondo in una sua perfetta realizzazione, fino al punto da privare della libertà tutti i suoi viandanti? O, piuttosto, Dio ama a tal punto la libertà da lasciare agli uomini la scrittura del proprio destino, anche al costo di scrivere il male?

In entrambi i casi, l'esigenza teleologica è compiuta: se Dio antepone il Bene (o qualsiasi fine, anche se si trattasse della Necessità stessa), l'esistenza del mondo ha un senso perché essa non si struttura come caos anarchico e senza direzione, ma tende inevitabilmente ad un perfetto compimento; se Dio, invece, antepone la libertà, l'intera vita umana è una prova ai suoi occhi e dunque ogni azione va ben ponderata perché moralmente responsabile e determinante il futuro. L'autodeterminazione incondizionata è l'obolo necessario del senso religioso.

Un cammino completamente antitetico è quello inaugurato dal pensiero scientifico, nel quale è  prediletta a tal punto la verità sperimentale da estromettere completamente l'esigenza del télos. Si parte qui dalla premessa che tutto sia governato da leggi fisiche; che esse siano tutte accessibili o inaccessibili all'uomo non fa differenza, perché basta che almeno alcune di esse, quando comprese, consentano di pre-vedere gli eventi per testimoniare che un loro reticolato ben più complesso è il retroscena reale e necessario di un mondo colto dai più con ingenuità.

La natura delle leggi fisiche può far prevedere gli eventi perché si assume che ognuno di essi sia il prodotto di una o più cause, le quali, se isolate singolarmente, indicano incontrovertibilmente il loro esito finale. Ora, se tutto ciò che esiste è presidiato dalla catena inevadibile di causa-effetto, non si capisce per quale ragione l'uomo, che altro non è che un oggetto nel mondo e la sua coscienza un epifenomeno della materia, dovrebbe esserne esente. Si compie qui un'altra assunzione sulla Necessità, solo che, venendo meno la volontà etica di Dio alla sua origine, il finalismo si riduce ad una stringente costrizione nell'insensatezza fisica.

Secondo questa longeva teoria, filosoficamente anche pre-scientifica e nota come "determinismo", ogni evento, ogni nostro gesto, pensiero od emozione non sono altro che momenti predeterminati di una catena causale necessaria, radicata nelle sinapsi del cervello o nelle relazioni fisiche intrattenute fra oggetti. Osteggiare questa teoria è sempre stato piuttosto difficile, precisamente in quanto essa richiederebbe prove incontrovertibili della possibilità, testimonianze del fatto che le cose sarebbero potute andare altrimenti. Ma com'è possibile fornire la prova di un'alternativa, se la vita dell'uomo è racchiusa in un eterno presente che non può assistere ad una produzione attuale del caso? Avrei mai pensato alle foglie d'autunno, se non pensando prima al colore della mia candela preferita, alla quale ho pensato dopo aver inalato un profumo molto simile al suo? E se non si trattasse solo di un'isolata rapsodia immaginativa ma della trama immanente a tutto ciò che è?

Conseguita l'amarezza dell'insensatezza, l'ultimo ritratto della libertà è quello etico, il quale attualizza l'esistenza del senso anche in assenza di Dio. Gli uomini hanno un vasto lessico sulla giustizia e, a seconda della loro parziale significazione di essa, prescrivono, giudicano, puniscono, incolpano ed ordinano secondo legge. Qualsiasi ordinamento legale, scritto od orale, che si appelli agli individui e alle loro azioni distinguendole secondo giustizia ed ingiustizia deve assumere che essi siano liberi. Senza libertà, infatti, non vi sarebbe responsabilità, né colpa e senza queste categorie fondative ogni sovrastruttura morale collasserebbe, trascinando con sé tutto quanto nell'indifferenza e nell'insignificanza.

Il concetto di libertà nell'etica non gode di una teoria metafisica forte e comparabile a quelle precedenti, perché il fatto stesso che gli uomini stabiliscano con ricorrenza quasi antropologica un ordinamento morale è prova sufficiente che essi vivono come se (als ob) fossero liberi, indipendentemente dalla verità sottostante. Infatti, anche assumendo che gli enti e gli eventi influiscano sul comportamento umano e che le pulsioni e gli istinti ne intessano la natura involontaria, qui si pretende 'solo' che tutto ciò non sia determinante, ovvero che persista uno spazio, benché circoscritto, di competenza decisionale autonoma e volitiva, appartenente alla coscienza e da essa, nell'istante dell'azione, mossa.

Arenati dopo la tempesta di tesi e antitesi, possiamo solo raccogliere gli elementi suggeriti da ciascuna posizione, fino a comprendere che il carattere più intimo della libertà e l'esigenza che la muove, ben più decisiva della risposta che ci s'attende, sono di natura morale. È ovvio il naufragio di una simile conclusione di fronte all'eventuale perentorietà del determinismo, che, in quanto teoria metafisica, non può essere definitivamente fondata, ma certamente nemmeno osteggiata. Infatti, se esso fosse vero, nemmeno le teorie possibilistiche o indeterministiche che volessero negarlo da un punto di vista scientifico potrebbero sapere con certezza se i loro contenuti non sono altro che fasulli anelli di una catena senza verità.

Ma, proprio in quanto fatto morale, la libertà è intatta dal determinismo, perché essa non ha a che fare con la verità quanto con la vita – e solo quando, dall'implicito che era, la libertà viene pensata ci s'accorge di tutto ciò che in sua assenza crollerebbe. Di fronte alla materializzazione della libertà, autentica come una lacrima, l'uomo si ritrova inevitabilmente ostaggio di un esistenzialismo che lo rivela, come dirà Sartre, "condannato ad essere libero". Una condanna data dall'estromissione storica di Dio e del finalismo, quando le mani stringono in pugno il gravoso fardello della morale e della responsabilità; queste infondono sensatezza alle pratiche, ma le appesantiscono e le sottraggono all'ormai obliata leggerezza della Necessità.

Così di Necessità si abusa, assolvendo le responsabilità con un "tanto era destino", o trascrivendo nel cielo onnisciente l'eleganza di un fatuo incontro irrinunciabile dicendo "è stato il destino a farci incontrare". Se Ananke (*) fosse nuda, noi non vedremo che le sembianze di Tyche; ma quando Tyche è presenzialmente tracotante, meglio farle indossare le più pregiate vesti d'Ananke. Comunque sia, il destino è la dissimulazione dell'amarezza del presente disciolta in un vanaglorioso delirio che, noncurante del sapore della verità, si premura ad inasprirla per il timore della sua dolcezza.

 

    Anonimo

 

NOTA
(*) Ananke e Tyche, sono due rappresentazioni impersonali rispettivamente della Necessità e del caso.

 

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