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Prosa e Poesia

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Discorsi intorno agli enigmi (della vita)

di Cristina Tarabella - Luglio 2009
Pagina 1/4 - Parte seconda

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PARTE PRIMA

 

Premessa.

 

Io sono l’ultimo rimasto.
Per parlare di ciò che avvenne e come fu.
I miei compagni si sono tutti dispersi nel mondo, ed io non li conosco più.
Molti hanno persino dimenticato ogni insegnamento che ricevemmo.
E, mi dicono voci di passaggio, essi vivono ormai per accumulare beni materiali.
Denaro…
Fama…
I nostri Maestri sono scomparsi.
Al loro posto non é più giunto nessuno.
Io sono l’ultimo.
Ma non ho più discepoli disposti ad imparare la vita.
Per questo mi accingo a raccontare la storia di quello che fu.
… Dei miei primi anni.
Allora vi erano Maestri e noi discepoli eravamo numerosi: felici di apprendere.
Quello che narrerò, dunque, sarà l’ultimo documento a ricordo di quei tempi.
E poi tutto se ne fuggirà nell’oblio, portando con sé anche le mie stanche membra.
Skỳatos; l’Ultimo Maestro.
Qui ha inizio la narrazione della vita di Skỳatos, che, dopo essere stato per lunghi anni discepolo, divenne a sua volta un Maestro.

 

**********************************

 

Mi era concesso fare domande, ma dovevo meditarle attentamente.
Erano giorni che cercavo di formulare al mio Maestro, il problema che mi assillava.
Ma non trovavo termini adatti per esprimere l’abisso di perplessità che si era aperto in me.
Mal tollerato era porre domande vuote, ma ancor più grave era non porle affatto, poiché, questo, era l’insegnamento: solo chi domanda è alla ricerca della verità e della saggezza.
Mi mossi titubante, là dove il Maestro sedeva in attesa.
Nella sua immobilità era come l’aria circostante, e in essa si confondeva.
Così, come un alito non stormiva le fronde, anche sul suo volto non aleggiavano sensazioni, né espressioni o pensieri.
I suoi occhi non frugavano il vuoto, più tosto lo riflettevano: erano fissi nel nulla e trasparivano loro stessi.
I miei goffi passi non lo distolsero dal suo immenso silenzio interiore pieno di infinite saggezze.
Ma adesso io stavo andando lì, davanti a lui e dovevo assolutamente trovare qualcosa di saggio da dire.
Un fremito di esitazione mi smorzò l’incedere e l’impercettibile dissenso del Maestro sferzò violentemente la mia anima, facendomi barcollare più vicino.
Il Maestro ora ascoltava la mia presenza, rendendo più greve il silenzio.
Nessun incoraggiamento sarebbe uscito dalla sua voce.
Dovevo parlare.
Affondarono le mie parole, come nell’acqua che risucchia veloce il corpo dopo il tuffo.
“Maestro, per quale fine viviamo?” Trattenni il respiro, come il nuotatore che aspetta di riconquistare la superficie vitale.
Il suo volto non ebbe fremiti; solo mi parve di vedere i suoi occhi intristirsi un poco dietro la luce opaca che li rifletteva. La sua voce mi raggiunse, ed io respirai di nuovo.
“Qualche sprovveduto potrebbe risponderti che il fine della vita è la morte. Ma ben più ampia è la risposta alla tua domanda.
È ampia quanto la tua capacità di pensare.
Fin tanto che tu vivrai, potrai dare infinite mète alla tua esistenza ed infinite risposte.
La morte è una tappa del ciclo vitale, il quale è posto al disopra di ogni umana comprensione.
Poiché la vita pertiene agli esseri viventi, essi ne fanno ciò che vogliono e le danno fini e mète quali arbitrariamente e soggettivamente scelgono nel tempo.”
Senza nemmeno pensare, feci un’altra domanda e lui ancora mi rispose.
“Tu mi chiedi come fanno gli animali a scegliere le loro mète, egli disse, giacché essi sono governati dall’uomo. Ma tu sai che non esistono solamente gli animali che aiutano l’uomo nel suo lavoro, bensì anche le fiere che regnano indomite nei luoghi selvaggi. Ebbene, esse sono libere di scegliere, e un tempo anche gli animali domestici non avevano padroni…
Inoltre, puoi ben renderti conto, Skỳatos, che tutto ciò che è vivente, ha davanti a sé delle mète, in quanto soggiace all’incorruttibile Scettro del Tempo, che induce ogni cosa ad agire e reagire…
…E questo moto, non potremmo noi definirlo ‘un fine’?”
La risposta alle mie domande fu peggiore dell’abisso stesso in cui mi ero trovato fino a quel momento. Sentivo, infatti, le parole del Maestro aliene alla mia realtà; aliene al quotidiano; al contingente, dove io e tutti noi viviamo e nel quale abbiamo bisogno di verità tangibili e ben determinate.
Il Maestro, appesantito nell’anima dalla grevità infinita delle sue riflessioni, sedeva quasi tutto il giorno in mezzo ad un boschetto di fruscianti betulle dorate, e qui, seguiva la luce nella sua eterna evoluzione.
Io, invece, ero divorato dalla frenesia delle membra, e avrei voluto correre lungo i sentieri, giù dal dirupo fino al mare… Ma non era consono, poiché, mi aveva ammonito il Maestro, quando una persona corre, significa che ha dentro qualcosa da cui vorrebbe fuggire; per questo dunque deve fermarsi ad analizzare se stesso.
A me, adesso, non sembrava di avere dei tormenti dai quali volessi fuggire, tuttavia, se riflettevo, mi veniva in mente che quando avevo voglia di correre, di solito era perché mi era capitato qualcosa: o avevo ricevuto un biasimo; oppure non avevo capito una risposta del Maestro. Oppure ero semplicemente pieno di tristezza.
Quindi mi allontanai sul sentiero a passo forzatamente lento, con la speranza che il Maestro, vedendomi, provasse per me un pensiero compiaciuto.
Dopo poco gli alberi mi rubarono allo sguardo l’immobile figura di lui, o forse, egli si confondeva, ormai simile ad essi, fra gli esili tronchi.
Cominciai a riflettere.
Mi sovvenne che la mia domanda non poteva avere una sola risposta, ma infinite, come aveva detto il Maestro; come infiniti sono gli attimi che noi rubiamo alla Morte.
In quel dolcissimo tepore che sapeva di agavi fiorite, il mio pensiero venne cullato e trascinato insieme ai virideggianti fili d’erba che il vento faceva parlare, mentre, come pennellate d’oro, date da un dio nascosto, il ginestrone macchiava di sé i poggi solatii.
Pensai allora come sublime fosse ogni attimo; perché mai, mai!, ne sarebbe venuto uno uguale ad uno trascorso!
Mi persi così nel paesaggio circostante, confondendomi fra i mille, infiniti, invisibili granelli di polline che il tepore alato trasportava lontano….
All’improvviso, come se un lampo fosse scoppiato nell’etere sereno, un brivido mi scosse.
Ogni rumore, ogni immagine, era lo stillicidio del tempo; millenaria stalattite che gocciava impassibile a formare il suo eterno pinnacolo…
Pensai di aver trovato, improvvisa, la risposta alla mia domanda: il nostro fine è combattere il tempo!
Ma fui preso subito da chiaro sconforto, che mi gettò in pasto ad interrogativi ancora più mostruosi ed abissali. Chi, o Che Cosa, aveva creato il Tempo?
E in definitiva, cosa mai era il Tempo?

Corsi dal mio Maestro con l’affanno di un cucciolo spaventato. Bramavo rifugiarmi nella bonaccia della sua quieta voce, dove nessun turbamento poteva far breccia.
Con la vetustà che lo rendeva greve nelle membra, alzando piano una mano, sfiorò il mio capo in disordine, quasi a voler rassettare le mie angosce, lisciandomi i riccioli ribelli.
E dal suo tocco linfa scivolò a placare i miei affanni.
“Piccolo Skỳatos. Tremi e ti abbandoni disordinatamente alla corsa.
Segno di un turbamento che ti opprime…”
Sì, era vero. Correvo.
Correvo per cercare di fuggire dallo scivoloso cratere di un abisso, che tuttavia, lo sentivo!, era in me.
Posi la domanda.
“Maestro. Cosa è mai il Tempo?”
L’affanno ancora mi troncava le parole in gola.
I pori della mia pelle stillavano disperazione assieme al sudore della lunga fuga.
Il Maestro sembrò sorridermi in quella lunga fissità e le rughe del suo volto si schiarirono un poco.
Forse comprendeva la mia ansia?
Forse in un tempo lontano e quasi inimmaginabile della sua fanciullezza, anch’egli aveva sofferto affanni?
Adesso mi rispose con la tranquillità dei saggi, in una lingua per me ancora troppo oscura.
“Il Tempo è ciò che si contrappone alla Stasi.
La Staticità è Morte; il Tempo è Vita.
Quando è cominciata la Vita, è cominciato il Tempo e viceversa…
Entrambi sono una cosa; entrambi esistono e per loro stessa accezione, si contrappongono all’Eterno.
La Materia è tale in quanto presuppone come condizione innata e ingenerata, il Tempo.
Il Tempo è la scansione della Morte; dell’Eterno; della Stasi: a tutto ciò si contrappone, e tutto ciò determina.
Tutto quello che conosci è Tempo.”
Io avevo confusamente afferrato un paio di sintagmi dalle sue parole, ma intanto la pace
dell’anima si era magicamente trasfusa, attraverso il canto della sua voce, in me.
Adesso non ansimavo più e mi tenevo ben eretto davanti all’amato volto, guardando in quegli occhi che vedevano ormai solo se stessi…
Quando mai sarei potuto diventare come lui?, mi domandavo con la tristezza nel cuore. Mi sembrava impossibile, infatti, poter raggiungere la calma saggezza del Maestro.
Mi abbandonai con la tunica scomposta accanto ai suoi piedi e, in preda ad un gran bisogno d’amore, poggiai il capo sulle sue ginocchia; speravo che nuovamente mi toccasse con la sua tiepida mano…
“Skỳatos; sei ancora un fanciullo, ma non temere: io ti guiderò nella vita.”
Mi commossi teneramente e fui felice di essere lì, nella mia imperfezione che mi concedeva le parole amorevoli del Maestro.
Sentii di amarlo profondamente. E per ascoltare di nuovo la cara voce gli posi un’altra domanda.
“Maestro; cosa significa ‘amare’?, tu ami?”

Mi guardò come si guarda l’infans-nèpios (1): ‘colui che non sa parlare, perché non è ancora maturo’…
“Quanta parte ha l’Amore nell’Universo, tu, fanciullo, lo comprenderai con il tempo.
L’Amore ha vari gradi ed è definito per aspetti e figure cui l’uomo si riferisce.
Ma l’Amore è, in ultimo e in sintesi, il metasignificato dell’essere umano nel suo esistere; nella forma in cui esso si trova.
L’Amore non è soltanto un sentimento, come tanti a torto ritengono; esso è sopra tutto l’intimo e indispensabile motore di ognuno: è ciò che determina tutte le nostre facoltà.” Fece una piccola pausa, poi poggiò lo sguardo su di me.
Pensai di avere intuito un poco.
“Dunque, Maestro, il fine per cui viviamo è amare…”
Ma sarebbe stato troppo semplice aver trovato così facilmente una risposta.
E infatti il Maestro allargò su di me un sorriso dicendo: “Skỳatos, ascolta le mie parole con orecchio più attento. Ti ho detto che l’Amore è motore, e ciò vuol dire che non può essere un fine per l’uomo, ma se mai la sua causa prima.

Arrossii per la mia stupidità ed abbassai la fronte sulle ginocchia.
Il Maestro, preso dalle sue riflessioni, continuava intanto a parlare, ma non più per me adesso; semplicemente aveva dimenticato di tacere la voce e parlare intimamente solo con l’anima sua.
“Amare significa dimenticare ogni meschino senso di grandezza e capire quanta poca cosa noi siamo nei confronti della Natura: la Grande Madre…Amare significa fondersi con Lei e per Lei e ottenere quella stupenda umiltà per capire che il Suo respiro è la nostra vita…Che le Sue creature sono la parte più perfetta di un Tutto di cui anche noi, misconoscenti e miserrimi, facciamo parte… - Faceva ogni tanto delle pause; per sottolineare quei pensieri, quelle assolute Verità che dispensava. – L’Amore sono gli alberi; i fiori; il mare; le tempeste. Il verde dell’erba ed il profumo dei frutti…Tutto ciò che ci circonda è Amore. Tutto ciò che non sia contaminato dall’Uomo, impuro ed empio, Figlio degenere: perché solo l’Uomo può concepire il male. Quel male fine a se stesso, sterile, che in Natura non esiste e non è mai esistito….
In Natura tutto è simbiosi. Niente impedisce, con il fine del proprio tornaconto, la libertà di altri esseri…
Nessuno ostacolo, esiste in Natura, solo per il semplice gusto di un dispetto maligno… Mai si concepì l’Odio in Natura; mai! L’Odio pertiene solo all’Uomo, perché l’Uomo è imperfetto…
Solo ed esclusivamente l’Amore ha dato vita alla Vita.”
Tacque.
Ora discese da quella stupenda contemplazione durante la quale, ne ero sicuro, era molto vicino alla Grande Madre e sentiva alitare nel vento il bacio di Lei, che sfiorava il suo candido pallore.
E infatti aveva il volto radioso e felice, come la luce che, intorno, ci avviluppava tiepida.
Si volse a me di nuovo.
“Tu Skỳatos, dovrai amare. Tu sei in tempo…sei ancora un fanciullo incontaminato dal Fuori e puoi purificare la tua anima: io ti aiuterò.”
Fui colto da imbarazzo e dissi:
“Maestro. Io amo già. Amo te…”
Lui allora guardò lontano.
“Skỳatos, il Vero Amore, quello che ti avvicina alla Grande Madre, quello che ti offre la Verità…quello, lo vivrai, quando sarà il momento. E quando ciò avverrà te ne accorgerai, credimi! Allora verrai da me per avere spiegazioni; per chiedermi consigli. Io ti aiuterò sempre nella Giusta Via.”
Allora non capivo a cosa si riferisse parlando di Amore, ma quando, trascorsi gli anni della fanciullezza, mi trasformai in uomo, allora sì: afferrai a pieno il significato delle sue parole.

 


1) Infans > ‘in’ = alfa privativo – per Rotazione Consonantica germanica da la semivocale Indoeuropea ‘ạ’, che dà esito ‘a/in’ e ‘fans’ > da una radice *for/faris, attinente al linguaggio parlato. Quindi l’ ‘infans’ è il bambino piccolo, che non sa parlare e come tale è anche privo di intelligenza propriamente detta.


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