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Prosa e Poesia

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Il nostro tempo. Una dimensione che non ci appartiene più.

di Cristina Tarabella - marzo 2009
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Inizialmente non consideravo il fatto con grande attenzione.
Mi sfuggivano i giorni uno dopo l’altro e un  po’ mi imbarazzava questo impetuoso susseguirsi, ma solo quel tanto da dar àdito ad una fugace riflessione sul tempo che se ne fugge…

 

Vivevo normalmente, come fanno tutti, un po’ angosciata da qualcosa di indefinito, ma vivevo.

 

Poi un fatto ci fu, che cambiò radicalmente il mio modo di prendere coscienza di ciò che è la vita; la mia vita ed il mio tempo.

 

Me ne stavo in cucina, scrivendo una lettera ad un’amica. Arrivai ad un punto morto nella narrazione di ciò che le raccontavo, così vagavo con lo sguardo sulle pareti per ritrovare un’idea.
Lo sguardo si posò su un ritratto. Una foto in bianco e nero. Un primo piano del mio volto. Quante volte al giorno vedo quella foto, l’ho sempre davanti agli occhi, ma la vedevo sempre senza guardarla. Quella volta però lo sguardo vi si fissò. Dapprima incosciente, poi consapevolmente studiò quel volto ritratto: il mio. Inizialmente colsi le caratteristiche tecniche: una bella foto, pensai. Mio padre, che l’aveva fatta e stampata, è proprio un bravo fotografo, pensai nuovamente. Cominciai poi a confrontare quel mio volto con quello di ora. Nel ritratto avevo capelli molto lunghi e anche ora cominciavano ad esserlo nuovamente, anzi, mi toccai i capelli: lo erano già molto lunghi. Eppure poco tempo prima li avevo tagliati cortissimi. Poco tempo prima?, quanto tempo prima? Un anno?, no di più! Due anni? Dovetti fare grossi sforzi che in effetti li avevo tagliati tre anni prima. Tre anni. Erano già passati tre anni!, ed io che credevo fosse l’anno scorso! In effetti, pensai, quando mi ero tagliata i capelli cortissimi era il Solstizio di Primavera dell’anno in cui compii 21 anni, e adesso è quello in cui ne compio 24!
Un brivido mi percorse la schiena. Ero esterrefatta. Quello non mi sembrava un lasso di tempo di tre anni, mi sembrava molto più corto!
Abbastanza sconvolta da questa presa di conoscenza riportai lo sguardo e l’attenzione sulla fotografia con il mio volto.
Allora quella fotografia, quando me l’aveva fatta mio padre? Non riuscivo proprio a ricordarlo.
La presi in mano per averne più direttamente coscienza, ma non mi venne in mente alcuna data lo stesso. Andai in bagno con il ritratto in mano e lo confrontai con la mia immagine nello specchio. Studiavo a fondo le due immagini. I due volti erano simili, certamente: ero io.
Ma la foto ritraeva un viso un poco più grassoccio di quello nello specchio. Però per il resto mi sembravano uguali quei due volti.
No. C’era ancora qualcosa di diverso.
Non focalizzavo, ma qualcosa c’era.
Ecco, sì, erano gli occhi. Lo sguardo.
Gli occhi della foto erano più ridenti, forse?
Un poco più vivi?
Ma che cos’era quella sfuggente differenza?
Mi guardai con attenzione nello specchio; guardai gli occhi e poi subito quelli nella foto. lo specchio mi ritornava una tristezza corrugata, nella foto invece…
Mio Dio!, pensai, qui forse sta giocando a mio svantaggio l’aver letto il ‘Ritratto di Dorian Grey’ di Wilde. Forse mi sto autosuggestionando.
Tornai in cucina con un mezzo sorriso beffardo dentro di me, pensando a quanto potesse la suggestione.
E comunque non ero ancora riuscita a ricordare di quando fosse la fotografia. L’avevo ancora tra le mani, senza sapere cosa farci. Decisi di riappenderla al muro. Prima però la girai, così, per curiosità, quasi con un gesto meccanico.
Sul dietro della cornice c’era una dedica: “A Cristina. Da tuo padre” e sotto, molto piccola c’era la data! Mi assestai gli occhiali sul naso per leggere meglio.
“8 Giugno 1981”. Pensai di aver visto male. Mi premetti gli occhiali sul naso e avvicinai gli occhi. “8 Giugno 1981”. Avevo letto giusto: “1981”.
Rimasi lì per un attimo incapace di fare il conto poi chinai gli occhi e vidi imprimersi nella mia mente un numero: “8”: erano passati otto anni, quella foto era stata fatta otto anni prima, otto anni! Ah!, mi sembrò un’enormità, una cosa impossibile. Eppure era lì: “8 Giugno 1981”, non si poteva sbagliare. Io in quella foto, allora, quanti anni avevo? Ero in preda alla confusione; mi ci volle un po’ per fare il conto. In quella foto avevo sedici anni!!, e ora, pensai, ne ho ventiquattro. Mi sembrava che mi risucchiasse un abisso. Che cosa avevo fatto in quegli otto anni?, come mai erano trascorsi senza che io me ne accorgessi? Eppure erano anni, formati da giorni, scanditi da ore, che io avevo vissuto. Che io avevo riempito con la mia vita, con i fatti quotidiani…
Quegli anni erano stati riempiti di avvenimenti, di cose accadute, di esperienze fatte, di sensazioni provate. Erano stati riempiti da me! Ed io li avevo vissuti così, senza coscienza di starli vivendo. Senza sapere che si accumulavano.
Senza rendermi conto che mi allontanavo sempre più dallo scatto di quella fotografia. Senza sapere che me li lasciavo alle spalle e che non avrei mai più potuto avere i miei sedici anni, dopo quello scatto di fotografia…
Mi sembrava di avere stipato in un cassetto migliaia di indumenti messi solo una volta con noncuranza e mai più presi.
Mi sembrava di avere inghiottito grossi pezzi di cibo senza averne assaporato il gusto.
Che spreco!, pensai,come ho potuto vivere tutti questi anni senza assaporare ogni ora; senza guardare retrospettivamente i miei giorni.
Perché ho agito così stoltamente, chiesi a me stessa, senza però trovare risposta alcuna. Fui assalita da un senso di vuoto abissale che mi strappò un lamento. Ed ora che me ne faccio, pensai, di questi otto anni che non sembrano nemmeno un giorno. Avevo infatti sincopato questo tempo in un recesso così piccolo di spazio nel mio cervello, al punto che questo tempo si era accorciato così tanto, da sembrarmi adesso, non più di un battito di palpebre. Lì avevo sedici anni; qui ne ho ventiquattro. Il tempo in mezzo sembrava non esistere.
Avevo passato otto anni senza accorgermene, senza soffermarmi mai a considerare il nascere e il morire di ogni giorno. Senza considerare l’avvicendarsi di ogni compleanno in termini di spazio e di tempo. Senza vedere in ogni successiva stagione un’epoca nuova. Un altro anno che si aggiungeva al precedente, non che vi si sostituiva. Era come se non mi fossi mai ‘mossa’, sentendomi dentro una cornice statica, dove ogni colore, giorno, anno è unicamente uguale a se stesso.
Mio, solo mio era lo sbaglio, perché nella realtà il tempo si avvicenda e muta ogni cosa al suo passare. Scorre inesorabilmente verso l’esterno.

 

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