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Scrittura e vita, simbiosi perfetta

Scrittura e vita, simbiosi perfetta di Matilde Perriera

di Matilde Perriera

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Still Alice, il brivido di un lungo addio

Novembre 2015

 

STILL ALICE, ANCORA ALICE, SEMPRE, titanicamente protesa contro il devastante “Alzheimer”(1) che, “certamente più pesante di un tumore all’encefalo”, le sgretola la quotidianità e la immette in un sentiero senza ritorno. Cardine del film(2), scritto e diretto da Richard Glatzer e Wash Westmoreland, che hanno pienamente realizzato l’intento di dare “un’espansione cinematografica alla già esistente storia meravigliosa”(3) della neuroscienziata Lisa Genova(4), non è la disfunzione in sé, ma la squisita sensibilità con cui Alice Howland, moglie e madre felice nonché rinomata psicolinguista ordinaria presso la Columbia University di Harvard, affronta il suo fatale morbo. La docente, orgogliosa degli obiettivi raggiunti, in particolare, sullo sviluppo del linguaggio nei bambini dai 18 mesi ai 2 anni e mezzo, con specifica attenzione “sul bisogno di conoscere sempre di più sul sempre di meno fino a sapere tutto di nulla”, coinvolge lo spettatore con la toccante performance di Julianne Moore. La “migliore attrice protagonista”(5), probabile figura autodiegetica di Richard(6) che era affetto da sclerosi laterale amiotrofica (SLA), è schiacciata dalla brutta bestia. “L’intelligenza, che l’aveva sempre contraddistinta, ora la sta abbandonando”, le bastano poche avvisaglie per intuirlo e le rileva nello sbriciolarsi delle proprie competenze linguistiche durante una lezione all’Università UCLA o nello sbiadirsi delle immagini e nel disorientamento delle “percezioni visuo-spaziali”(7) mentre cerca di rilassarsi con il suo solito jogging attorno al campus o nell’avvertire le inquietanti perplessità di Frederic Johnson quando le suggerisce di compiere esercizi fisici per stimolare le sue capacità mentali, di bere molta acqua per potenziare la memoria, di sottoporsi a “un’indagine anatomopatologica”(8) e una serie di test per un oggettivo “viaggio nel cervello”. E’ tragico il momento in cui Seth Gilliam, nel ruolo del sollecito neurologo, avanza il feroce verdetto ... “Risultata positiva all’esame del gene presenilin-1, indicatore dell'Alzheimer precoce di matrice genetica, il malessere psico-fisico la condurrà a un lento ma inarrestabile declino”. L’incolpevole vittima vede sbarrarsi ogni orizzonte nel comprendere che perderà il piacere di partecipate conversazioni, mentre la memoria della sua vita, con nomi, appuntamenti, informazioni, date, eventi, esperienze, intuizioni, parole, calcoli aritmetici mentali impegnativi, conti a ritroso, ricette culinarie, si confonderà in un turbinio di sensazioni sempre più alienanti … “Senza ricordi non c’è presente”.

 

John, inizialmente, era scettico sulle dolorose proiezioni e sdrammatizzava, con affettuosi abbracci, le ansie notturne, gli smarrimenti, i pianti disperati della “più bella e più intelligente donna conosciuta in tutta la sua vita” … Arrivata, però, la doccia fredda del “protocollo diagnostico”(9) formulato a seguito di TAC(10) e PET(11), nessun dubbio, “l’atrofia della corteccia entorinale e dell’ippocampo diventa triste realtà” … Che fare? Da dove cominciare per intervenire fattivamente e limitare i danni della grave patologia “che innesca altre problematiche di diversa natura”(12)? Supporta, intanto, la moglie che, organizzata una riunione familiare, con pause e inflessioni magistralmente rese dal doppiaggio di Roberta Pellini, cerca di placare lo sbigottimento di Anna, Tom e Lydia, insistendo sulla necessità che anche i ragazzi si sottopongano al test; l’ostacolo inaspettato che l’ha colpita, infatti, ha il 50% delle possibilità di essere trasmesso anche ai suoi figli rispettivamente impersonati da Kate Bosworth, Hunter Parrish e Kristen Stewart. Lo spettatore, così, con il fiato sospeso per 98 intensissimi minuti di proiezione, si trova di fronte, minuto dopo minuto, sofferenza dopo sofferenza, a un drammatico calvario, con squarci ben precisi che preludono alla disamina di tutte le conseguenze comportate dalla crudele infermità sul matrimonio, sulla famiglia, sul lavoro, sui rapporti interpersonali. Alice Howland, “prigioniera della disperazione per le perdite che subisce, che sa di dover subire”(13), è consapevole del fatto che né il sostegno psicologico dei familiari, né le terapie farmacologiche o “il dentifricio che offusca lo specchio del bagno” potranno impedirle di assistere al suo progressivo decadimento. La ben riuscita fotografia di Denis Lenoir fa sì che “il dramma della protagonista, snodato tra lo stato di New York, Bronx, Lido Beach e Dobbs Ferry, germogli e progredisca sul volto della mirabile Julianne Moore, a cui Richard Glatzer e Wash Westmoreland, compagni nell'arte e nella vita(14), consegnano il film senza contraddirla mai; l'attrice, “incredibilmente dotata e penetrante”(15), appunto, producendo un dosaggio perfetto di segni espressivi e “muovendosi lentamente, chiazzata dalla preoccupazione, dalla disconnessione e dalla vacuità”(16), cattura il pubblico in sala e gli permette di elaborare quanto, con interiorizzata naturalezza, l’affascinante cinquantenne fa e dice”(17). Prima di accettare definitivamente la parte, del resto, la straordinaria esegeta ha analizzato con passione “Perdersi”, ha fatto moltissime ricerche, incontrato tante persone affette dalla malattia, frequentato i gruppi di supporto, parlato con neurologi, elaborato sfumature personali della progressione del morbo, si è sottoposta a test cognitivi “beneficiando, con le sue scoperte, persino i registi”(18). La coinvolgente girandola di un’avventura esistenziale in anticlimax, inquadrata nella sapiente scenografia di Tommaso Ortino e in perfetta sintonia con la sensazione di smarrimento provata da Alice, presenta un tempo della storia spesso vago e, comunque, maggiore del tempo del discorso, con l’ellissi di nuclei portanti che, in apparenza, non permette di seguire dettagliatamente le sette fasi involutive determinate dall’ostacolo inaspettato; attraverso le descrizioni fenomeniche, gli alberi secchi o in fiore, il mare calmo o agitato, il cielo plumbeo o luminoso, però, ci si abitua a presupporre il trascorrere di giorni, mesi, anni e diventa naturale, passando da una scena all’altra, veder scomparire la donna impeccabile e ritrovare una signora sfiorita, in vestaglia, sciatta, disordinata, spenta, mentre una badante l’accudisce, le cura la casa, le gestisce la vita. STILL ALICE, “inno alla vita che tocca nel profondo”(19), è una prova trascinante di perfezione stilistica anche nei passaggi in cui, quasi in ipotiposi, fa toccare con mano le “torture” della creatura adesso fragile e indifesa,  nel vedere le parole “che le galleggiano davanti senza riuscire a raggiungerle”, nell’utilizzare un forno a microonde, nel ripercorrere i propri passi all’interno della propria abitazione, nel controllare la vescica, nel chiedere più volte le stesse informazioni, nell’appoggiarsi ad Alec Baldwin per mansioni solitamente gestite in maniera autonoma, nel non individuare una persona amica o, nientemeno, nel confondere Lydia con una sconosciuta attrice della compagnia teatrale in cui la figlia recita, o, ancora, “nel tentare di prendere un bicchiere d’acqua, ma la sua mano non riesce ad afferrarla, oppure muove la mano, ma quella afferra la saliera oppure rovescia il bicchiere sulla tovaglia”. La cura riservata a STILL ALICE è affidata pure al commento musicale, intrecciato dalle emozionanti e ben contestualizzate tavole sonore che arricchiscono non solo tutto il lungometraggio, ma anche lo scorrere dei titoli di coda e danno voce, addirittura, all’angoscia della protagonista nei suoi impenetrabili silenzi interrotti, all’improvviso, da lampi di limitata consapevolezza; vi si alternano “If I Had a Boat”, vocalizzata dallo statunitense Lyle Lovett in momenti di alto romanticismo, “La ballad” intimistica, resa con la delicata versione della cantante britannica Karen Elson, le sonorità “indie-rock”, interpretate dai danesi The Raveonettes, “Everything With You”, proposta dagli americani The Pains of Being Pure at Heart, “Lucky Man”, presentata da Courtney John,  “Brand New Start”,  sussurrata da Haroula Rose; l’insieme tessuto vocale, inoltre, è cadenzato dallo spettacolare quartetto per archi e piano del musicista inglese Ilan Eshkeri.

 

Still AliceLa concentrazione in sala si cattura sin dall’analisi delle due locandine in cui, come prolessi di tutta l’epopea, Alice si erge a personaggio principale. Dopo la vittoria di Julianne Moore ai Golden Globe 2015 e prima ancora della mitica statuetta come miglior attrice protagonista nel film drammatico di Richard Glatzer e Wash Westmoreland, infatti, è stata rilasciata una nuova copertina di STILL ALICE. Nella prima, la Moore appare demoralizzata, frastornata, irrimediabilmente vinta dall’afasia(20), dalla disprassia motoria(21), dall’agnosia(22) che le hanno fatto crollare tutte le certezze, intrappolata dalla malattia mentre speranze, illusioni, utopie svaniscono in un evolversi inesorabile neutralizzando gli ultimi esili segni di una forza interiore ormai quasi assente. Still AliceNella seconda, invece, si intravede maggiore vitalità evidente nella metafora delle onde del mare che si accavallano rappresentando il desiderio inesausto di interagire con il mondo esterno. Vi si colgono due immagini speculari, nella prima, collocata a destra, Alice, sotto un cielo azzurro, è pensierosa ma decisa a lottare perché, se “i suoi ieri stanno scomparendo, se i suoi domani sono incerti, lei non sta morendo ma, semplicemente, lottando nel presente per rimanere parte della vita, nel modo migliore possibile, pur con l' Alzheimer”; sembra osservare, con tenero rimpianto, l’altra sé stessa che, collocata nella parte posteriore del poster, arricchisce la scena con i suoi sorrisi spontanei e accattivanti, decisa a tenere stretta, finché le sarà consentito, “la chiave dell’ascensore della sua vita”(23).

 

La bomba emotiva, pertanto, anche se, per una strana ironia della sorte, passa dalla notorietà di risonanza mondiale per le sue ricerche sul cervello umano in tutto il suo mistero a uno stato di incolore apatia codificato da silenzi sempre più lunghi, vuole essere STILL ALICE, SEMPRE, in una sfida incessante che la spinge, con contegno quasi maniacale, ad affidarsi al cellulare, al computer, al paroliere o a quotidiane prove retrospettive sulla sua biografia nel tentativo di riaccendere la mente e sopperire alle carenze della sua memoria. Alice Howland, insomma, posta di fronte a un destino che non riesce ad accettare, cerca in tali strategie, con la tecnica intuitiva di una vera studiosa, validi ausili o mezzi per la soluzione dei problemi più macroscopici o indispensabili strumenti di lotta per salvare, finché le sarà possibile, “il ricordo di quello che è ma, soprattutto, di quel che è stata” agli occhi della famiglia, degli amici, dei colleghi, degli studenti, persino pianificando la drastica decisione che influenzerà radicalmente il suo futuro nel momento in cui il suo declino cognitivo giungerà in cima alla scala di Barry Reisberg(24)

 

18 euro ben spesi, dunque, per il DVD di STILL ALICE, che consente di gustare, anche attraverso i bei costumi di Stacey Battat, una struttura filmica dalle molteplici sfaccettature, un competente laboratorio medico-psicologico che sottolinea l’amara impotenza dell’uomo costretto a subire la spietatezza di sintomi inarrestabili capaci di reificare personalità di grande spessore e di gettarle fra i tentacoli di una piovra invincibile ... Quando si spengono le luci, comunque, al di là delle note demistificanti, il film lascia una scia  propositiva per la determinata fermezza e l’inossidabile forza di volontà che connotano la meravigliosa interprete … Sì, è vero, giunge per lei, a questo punto, il momento in cui occorre deporre le armi, ma il fortissimo legame tra genitori e figli, l’affetto e la dedizione pur tra naturali conflitti, l’empatia crescente tra Julianne Moore e la Kristen Stewart che, egregiamente riflessa nella voce di Federica De Bortoli, prima urla alla madre, poi la perdona e le dona il diario con il “No secrets”, nessun segreto tra noi, produce un cortocircuito con lo spettatore di ogni età e lo fa riflettere. Un posto particolare, quindi, occupa in tal senso Lydia, la minore dei figli, l’unica che, forse, con la sensibilità da attrice all’Open Space, sembra davvero entrare in contatto con la nuova Alice Howland, interpretando, nel dolore di veder allontanarsi chi si ama, il ruolo che ogni occasione le assegna. Convinta della funzione catartica dell’arte che agisce sui circuiti emozionali e li fa sopravvivere a quelli cognitivi, cerca di distrarla con la recitazione … La madre capisce? “Non si sa, ma è attenta, balbetta e, alla fine, proferisce qualche parola incomprensibile che, seppur sospesa nel vuoto di un presente che non ha più senso, di un passato irraggiungibile e di un futuro inutile, dimostra che Alice è ancora Alice”(25) e, senza sosta, in cerca di “amore”. Le tecniche narrative del team Glatzer-Westmoreland, di conseguenza, supportate dal “miglior audio per dialoghi”(26) e da un cast attendibilissimo che riesce a portare il fruitore del messaggio dentro quelle mura in cui presto Alice si perderà, dimostrano come, nella pellicola, sia opportuno cercare quanto di più bello essa propone … STILL … STILL … STILL … STILL ALICE, ANCORA E SEMPRE nel ricordo di quanti hanno avuto la fortuna di salire sullo stesso treno di una “fiamma affettiva che, al di là dell’epilogo, rimane a scaldare le memorie di chi resta”(27). Rimangono memorabili i “lunghi addii”(28) delle sue continue riflessioni lapidarie attraverso cui denunzia quanto incredibilmente attuale sia il suo problema”(29), insegna “a trasformarsi in variopinta farfalla pronta a tendere una mano nei giorni pieni di vento, di rabbia, di lacrime”(30), una farfalla che “ha una vita breve ma gode di ogni momento” e sa cogliere ogni occasione come stimolo funzionale per “regalare brividi che nessun deficit neuropatologico potrà mai fermare”(31).

 

      Matilde Perriera

 

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