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Riflessioni sul Senso della Vita

Riflessioni sul Senso della Vita

di Ivo Nardi

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Riflessioni sul Senso della Vita
Intervista a Moni Ovadia

Maggio 2013

 

Moni Ovadia nasce in Bulgaria da una famiglia ebraico-sefardita. Dopo gli studi universitari e una laurea in scienze politiche ha dato avvio alla sua carriera d'artista come ricercatore, cantante e interprete di musica etnica e popolare di vari paesi. Nel 1984 comincia il suo percorso di avvicinamento al teatro, prima in collaborazione con artisti della scena internazionale e poi, via via proponendo se stesso come ideatore, regista, attore e capocomico di un "teatro musicale" assolutamente peculiare, in cui le precedenti esperienze si innestano alla sua vena di straordinario intrattenitore, oratore e umorista. Filo conduttore dei suoi spettacoli e della sua vastissima produzione discografica e libraria è la tradizione composita e sfaccettata, il "vagabondaggio culturale e reale" proprio del popolo ebraico, di cui egli si sente figlio e rappresentante, quell'immersione continua in lingue e suoni diversi ereditati da una cultura che le dittature e le ideologie totalitarie del Novecento avrebbero voluto cancellare, e di cui si fa memoria per il futuro. www.moniovadia.net

1) Normalmente le grandi domande sull'esistenza nascono in presenza del dolore, della malattia, della morte e difficilmente in presenza della felicità che tutti rincorriamo, che cos'è per lei la felicità?

Le risponderò facendo riferimento a Karl Marx. Il grande pensatore di Treviri aveva anche vita familiare e conviviale. Con le sue figlie nel corso delle riunioni con gli amici era solito partecipare ad un gioco che consisteva nel rispondere a dieci domande, una di queste domande era: “Papà, che cosa è per te la felicità” e il grande Karl Marx rispondeva: “Felicità per me è lottare”. Ritengo che questa idea di felicità sia sorprendente e straordinaria, scompagina la retorica della felicità. Lottare significa essere costantemente impegnati per la costruzione di relazioni umane più giuste, per la costruzione di una società di giustizia, lottare è affermare i grandi valori della vita, l’uguaglianza, la dignità. Un simile impegno ti dà vita, ti dà felicità, ti dà energia. Ora, è bene chiarirlo, lotta non è sinonimo di violenza, è piuttosto sinonimo di coraggio, di lungimiranza. Lottando per i grandi valori ci si iscrive nel futuro, si lascia un’eredità viva e pulsante alle nuove generazioni. Coloro che invece cedono, accettano ingiustizie, si abbandonano all’indifferenza è come se fossero una radice morta che lascia al futuro una necrosi etica.

 

2) Maestro Ovadia cos'è per lei l'amore?

L’amore per me è prima di tutto accoglienza dell’altro nella sua piena dignità. Molti ritengono di amare rivolgendo al proprio simile tante belle parole. L’amore è fatto di azioni di gesti concreti, significa anche  sapersi ritrarre per lasciare spazio a colui che si ama. Il vero amore secondo me rifiuta l’omologazione ed è accoglienza dell’altro nella pienezza della sua alterità, dignità, e se mi è concesso servirmi di una brutta parola, della sua tuità; ovvero, non ti accolgo a patto che tu sia come me, ma ti amo per ciò che sei nella specificità e nella diversità di cui sei portatore.

Insisto sui concetti di alterità, dignità, tuità ovvero il pieno riconoscimento del tu perché spesso l’idea dell’amore è stata strumentalizzata per colonizzare l’altro, per imporgli una visione di amore univoca mirante ad includerlo in una fede o in un’ideologia.

Come ebreo ne so qualcosa di questo tipo di perversione coperta dal pretesto dell’amore.

 

3) Come spiega l'esistenza della sofferenza in ogni sua forma?

La sofferenza è il segno della costitutiva e irredimibile fragilità umana. Se noi vogliamo evitare la sofferenza si può fare, pian piano con strumenti tecnologici si trasforma l’essere umano in un robot, in un androide modificato, forse non soffre ma cessa di essere l’uomo che conosciamo. Vede, per evitare la sofferenza psicologica, l’aggressività, la violenza per esempio, basta una lobotomia, ma una volta praticata non esiste più l’essere umano. Secondo me finché l’essere umano resta libero come è, sottoposto a scelte, affidato anche all’elemento del rischio della sua libertà, perché la libertà è rischio, allora la sofferenza in qualche sua forma non può essere evitata, può essere attenuata, può essere in qualche modo alleviata, ma non eliminata. Io non so se in assoluto sia necessaria, ma di fatto è costitutiva della caducità dell’essere umano per come è costituito ontologicamente.

 

4) Cos'è per lei la morte?

La morte è la destinazione della vita. Muore solo chi ha vissuto. Mi spiego meglio. La morte fa parte della vita, è un aspetto del vivere, quindi, la morte conferisce alla vita, come la conosciamo noi, uno dei sensi più pregnanti. Se sapessimo di essere eterni vivremmo in modo completamente diverso, quindi la morte è l’approdo che dà un senso alla vita per come è. Lei immagini di essere immortale, è evidente che la sua vita assumerebbe un senso completamente diverso o piuttosto un non senso, la vita stessa diventerebbe forse una noia insopportabile.

Per questa semplice ragione ogni essere umano dovrebbe avere la consapevolezza della morte sempre presente a se stesso. I frati che bussavano alle porte dei confratelli dicendo “memento mori!” – ricordati che devi morire – non intendevano dire una cosa lugubre, anzi, si sollecitavano vicendevolmente a praticare una vita sensata. Molti uomini di potere, per esempio, credono di essere eterni, di conseguenza si comportano in assonanza con i modi ottusi e violenti tipici di chi si trova in posizioni di dominio. Se avessero consapevolezza dell’esito di ogni destino umano sarebbero molto più ragionevoli, molto più sensibili ai valori autentici della vita.

 

5) Sappiamo che siamo nati, sappiamo che moriremo e che in questo spazio temporale viviamo costruendoci un percorso, per alcuni consapevolmente per altri no, quali sono i suoi obiettivi nella vita e cosa fa per concretizzarli?

Il mio obiettivo principale è quello di vivere la vita e non cedere alla tentazione di abbandonarmi alla sopravvivenza. Vivere la vita significa caricarla di senso, saper istituire relazioni umane personali e sociali, iscriversi nei valori etici della libertà, dell’uguaglianza, della giustizia sociale. Vivere la vita è costruire alleanze con le generazioni future in un orizzonte progettuale comune. Se un essere umano accetta di rinchiudersi nel meccanismo sociobiologico di produzione e consumo per lasciare oltre a sé solo spazzatura allora non vive, sopravvive. La vita a mio parere si esprime, attraverso amore, conoscenza, solidarietà, accoglienza, fratellanza, contemplazione e celebrazione.

 

6) Abbiamo tutti un progetto esistenziale da compiere?

Io ritengo di si! Ogni uomo, nei limiti di ciò che è, ha un ruolo insostituibile per una ragione molto semplice, perché è portatore universale, ma anche unico, in forma originale del codice della vita. Noi tutti siamo portatori del Dna, ciò significa che ciascuno di noi ha un ruolo imprescindibile nel disegno dell’universalità iscritto nel proprio destino, dovrebbe averne la consapevolezza e portarne la responsabilità. Di fronte alle grandi questioni che riguardano l’umanità tutti dovrebbero impegnarsi ricordando a loro stessi che ogni contributo è unico e non surrogabile. La condizione dell’essere umano sorge nel quadro dell’universalità e dell’uguaglianza ma anche dell’unicità di ciascun uguale.

 

7) Siamo animali sociali, la vita di ciascuno di noi non avrebbe scopo senza la presenza degli altri, ma ciò nonostante viviamo in un'epoca dove l'individualismo viene sempre più esaltato e questo sembra determinare una involuzione culturale, cosa ne pensa?

Sono assolutamente d’accordo, la monadizzazione degli esseri umani, impedire loro di aggregare società, serve al potere per dominarli meglio, perché insieme gli uomini costituiscono una grande forza, soli sono molto più deboli. Naturalmente l’uomo ha la titolarità delle due dimensioni in cui si esprime quella di persona dotata di dignità individuale e quella di cittadino dotata di facoltà politica e sociale.

Ogni essere umano ha diritto alle due dimensioni per declinarle in tutte le loro opportunità e attraverso di esse migliorare la sua condizione e la sua qualità di individuo, ma anche quelle di essere sociale per partecipare in sinergia con i suoi simili alle attività e alle lotte per trasformare il mondo, per redimerlo e per salvarlo.

 

8) Il bene, il male, come possiamo riconoscerli?

Il bene e il male evidentemente non sono valori assoluti, ma noi non abbiamo che uno strumento per riconoscerli in quanto tali. Nel lungo cammino verso la libertà, verso la conquista di una umanità solidale, l’essere umano è riuscito, al prezzo di tante lotte, di tanto dolore, tanto sangue purtroppo, a elaborare dei principi universali che sono contenuti nella carta dei diritti universali dell’uomo. Quello deve essere il nostro punto di riferimento, perché quella elaborazione collettiva è scaturita dal travaglio di generazioni e generazioni, di battaglie sociali e individuali. Siamo arrivati ad elaborare una visione del mondo in cui tutti gli uomini, credenti e non credenti, di ogni religione, di ogni nazione possano riconoscersi. È stata dura, ma ci siamo riusciti, oggi abbiamo valori universali, ancora molto difficili da applicare, ma se non altro riconosciuti dalla stragrande maggioranza dell’umanità e questi valori sono il risultato di una elaborazione collettiva di milioni e milioni di esseri umani che hanno saputo avere le leadership, crearle, esprimerle, e hanno saputo avere le loro eccellenze che si son messe al servizio dell’umanità intera. Nel 1948 questa umanità, la nostra umanità intera ha accolto la sublime carta che contiene i principi fondanti concepiti e pensati per tutti gli uomini perché sono laici, quindi vanno bene per gli uomini di fede ma anche per gli agnostici e gli atei.

 

9) L'uomo, dalla sua nascita ad oggi è sempre stato angosciato e terrorizzato dall'ignoto, in suo aiuto sono arrivate prima le religioni e poi, con la filosofia, la ragione, cosa ha aiutato lei?

Tutti noi abbiamo una sorta di inquietudine, di angoscia nei confronti dell’ignoto, ma ancora una volta questo sentimento fa parte del gioco. La finitezza, la precarietà e la fragilità dell’essere umano  fa si che ci sia sempre qualcosa che sta oltre ciò che noi sappiamo. Questa  condizione ha il ruolo di spingerci a camminare, a ricercare. Perché l’acquisire conoscenze, il capire noi stessi e indagare il mondo in cui viviamo, studiare e produrre cultura è un modo alto per vivere, se sapessimo tutto, se nascessimo “imparati” ci fermeremmo e finiremmo divenire sterili, cinici. L’ignoto è ciò che ci permette di avere stimoli per continuare a camminare. L’ignoto è come l’orizzonte, come l’utopia, non si raggiungono mai, ma ci sollecitano a metterci in viaggio verso il noi stessi più libero, meno conformista, ci sollecitano a progettare a non sottometterci alla servitù dello status quo. Per quanto mi riguarda questa consapevolezza mi ha aiutato a sentire che c’è qualcosa di me oltre a me e che non c’è un senso chiuso nella vita, ma un senso aperto, questo senso aperto permette a me, come a ogni altra persona, di entrare e di mettermi in cammino. Altrimenti avrei davanti un muro, invece ho una strada e posso viaggiare.

 

10) Qual è per lei il senso della vita?

Io credo che sia un viaggio! È un viaggio che ha diverse tappe e la tappa finale è uguale per tutti. La vita, il senso della vita è dato dalla qualità del viaggio, dalla qualità dei tuoi compagni di viaggio, dalla ragione per cui viaggi, da ciò che fai durante il viaggio, ovvero, se il viaggio stesso è relazione, edificazione di umanità, di società, questo è il senso, almeno per me. Mettersi in viaggio e vivere il viaggio non come turismo, ma come cammino di conoscenza di sé, degli altri e del mondo.


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