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Riflessioni sul Senso della Vita

Riflessioni sul Senso della Vita

di Ivo Nardi

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Riflessioni sul Senso della Vita
Intervista a Roberto Mordacci

Settembre 2010

Roberto Mordacci insegna Filosofia Morale e Etica e soggettività presso la Facoltà di Filosofia dell’Università San Raffaele di Milano. È docente di Bioetica presso la Scuola di Specializzazione in Neurologia del medesimo ateneo e docente a contratto di Bioetica presso l’Università degli Studi di Trento (laurea specialistica in filosofia). È membro del comitato scientifico della rivista Annuario di etica (Vita e Pensiero). Collabora con il quotidiano Europa e con varie associazioni culturali. È membro del Comitato Nazionale per la Biosicurezza, le Biotecnologie e le Scienze della Vita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. È coordinatore del Centro Studi di Etica Pubblica (CeSEP).

Fra le sue ultime pubblicazioni: Elogio dell'immoralista, Bruno Mondadori, Milano 2009; Ragioni personali. Saggio sulla normatività morale, Carocci, Roma 2008; La vita etica e le buone ragioni, Bruno Mondadori, Milano 2007; Una introduzione alle teorie morali, Feltrinelli, Milano 2003. Ha curato e tradotto W.D. Ross, Il giusto e il bene, Bompiani, Milano 2004. Web: http://theimmoralist.wordpress.com


1) Normalmente le grandi domande sull’esistenza nascono in presenza del dolore, della malattia, della morte e difficilmente in presenza della felicità che tutti rincorriamo, che cos’è per lei la felicità?

La tradizione filosofica ha sempre sottolineato la difficoltà a definire l’idea di felicità. Per Aristotele si trattava del sommo bene, ma quanto poi a dire in che cosa consistesse lui stesso ammetteva che per ogni uomo si tratta di qualcosa di differente. Addirittura, Kant riteneva che fosse sbagliato iniziare la ricerca morale del senso della vita dall’idea di felicità: ci è impossibile trovare un accordo anche minimo su cosa essa sia e, piuttosto, si tratta di rendersi degni della felicità, cioè di vivere secondo quell’accordo di sé con le nostre ragioni più autentiche che non dipende dalla soddisfazione delle nostre aspirazioni, bensì dalla consapevolezza di aver svolto onestamente e pienamente il proprio ruolo. La mia nozione di felicità è affine a quella kantiana, si tratta di fare di sé persone riflessive e libere, più precisamente di attuare la libertà con una spietata onestà verso se stessi e verso gli altri. L’autonomia del volere non significa arbitrio, non ha niente a che fare con soggettivismo e relativismo. E’ la decisione di seguire le nostre migliori ragioni, pronti a confrontarle con le obiezioni che altri possono elevare e che ci devono sempre far riflettere. Quando si è vissuto all’altezza della propria libertà riflessiva, la felicità consiste nella consapevolezza della propria umanità.

 

2) Cos’è per lei l’amore?

La natura dell’amore resta avvolta nel mistero. Ha così tante forme che non bastano arte, letteratura, religione e scienza a spiegarlo. Figuriamoci la filosofia. Se qualcosa si può dire è che è una dimensione che richiede sempre l’intero della persona e che al contempo, quando si realizza nell’equilibrio delle forme appropriate (amore filiale, genitoriale, sponsale, amicale, persino amore per l’umanità in quanto tale), non diminuisce né si logora anche se è distribuito a più persone. Consiste in un approfondimento della sensibilità per l’altro, per la sua identità unica e per la sua storia, ma al contempo tiene sempre davanti la comune appartenenza a una condizione, quella umana, dove la condivisione soltanto rende tollerabile la sofferenza e amplifica la gioia. Lo considero più una dinamica vitale che una realtà spirituale, anche quando si riferisce a Dio: nell’esperienza religiosa intensa la dimensione dell’amore di Dio e per Dio coinvolge sempre il corpo e la vitalità, le forme concrete dell’esperienza: un’esperienza solo intellettuale di Dio è il Dio dei filosofi, che è impossibile amare, al massimo lo si rispetta o lo si teme. Nel Cristianesimo questa dimensione di intimità personale con il divino si è manifestata, nella stessa vicenda di Cristo, con una tale radicalità che è difficile restarvi insensibili. Penso che quella intimità sia l’essenza del cristianesimo e che sia il vero elemento comune anche all’ebraismo e il fattore di distinzione rispetto a tutte le altre tradizioni religiose.

 

3) Come spiega l’esistenza della sofferenza in ogni sua forma?

E’ il mistero assoluto. Il male radicale, lo chiamava Kant. Soprattutto, è un aspetto della vita che non vogliamo accettare. Non tanto quando siamo noi a subirla, ma soprattutto quando siamo noi a infliggerla. Sapere di poter far del male, sapere che inevitabilmente lo si farà, per poco o tanto che sia, è l’essenza dell’umiltà umana. Nietzsche non celebrò mai la sofferenza o il dolore come qualcosa che gli spiriti forti, o la vita stessa, infligge con gioia. Al contrario, la più radicale e ultima delle passioni umane è la compassione. Ma Nietzsche si opponeva a coloro che pretendono di non aver nulla a che fare con il male, con i presunti puri, con chi ha l’arroganza di pensare che si possa vivere senza causare, per il solo fatto di vivere, sofferenza. Questa pretesa assoluta purezza è il grande inganno con cui ci si rende falsi, totalmente falsi. La sofferenza accade a causa della struttura stessa della vita e noi ne siamo coinvolti. La nostra responsabilità si ferma alla sofferenza intenzionalmente e deliberatamente inflitta, ma non possiamo fingere di non vedere quella che accade contro il nostro volere e tuttavia, in parte, anche a causa nostra. Questi effetti sono scusati, non sono colpe, ma appartengono alla natura del vivere. Chi pretende di non aver parte alcuna nella sofferenza del mondo, se non è Dio stesso (il quale nel Cristianesimo si è spogliato di sé fino a condividere proprio la sofferenza), è semplicemente un falso.

 

4) Professore Mordacci cos’è per lei la morte?

Il rapporto che il nostro tempo intrattiene con la morte è fortemente ambiguo. La si combatte, naturalmente, e la si espunge dal quotidiano, per una necessaria difesa dall’angoscia. E al tempo stesso la si espone, la si sfrutta in ogni suo lato, soprattutto quello spettacolare, per scopi spesso non nobili. La memoria dei morti è diversa dalla commercializzazione dei miti pubblici.
A livello individuale la morte ha soprattutto il significato della fine del tempo vissuto: in ciò che vuoi fare, ogni giorno deve bastare a se stesso o, anche se ci si proietta nel futuro, il piccolo passo del giorno è tutto ciò che conta. Fa più rabbia che dolore pensare che ti si chiuda l’orizzonte del futuro. La morte richiede l’umiltà di riconoscere che ciò che accadrà non dipende solo da noi. Per il nostro amor proprio, come diceva Rousseau, è un colpo fortissimo. L’unico modo per fronteggiarla è pensare alla vita e agire. E lasciar agire.

 

5) Sappiamo che siamo nati, sappiamo che moriremo e che in questo spazio temporale viviamo costruendoci un percorso, per alcuni consapevolmente per altri no, quali sono i suoi obiettivi nella vita e cosa fa per concretizzarli?

Gli obiettivi possono essere diversi. Credo che vi siano vite che si perdono ma non tanto per ciò che cercano di realizzare – vi sono certo anche i casi della vita malvagia, del male di altri cercato come scopo, ma si tratta di casi che si riconoscono subito – bensì per come lo realizzano. Una buona opera d’arte è l’esempio ricorrente nella tradizione filosofica e religiosa per parlare della vita riuscita. Scegliendo di fare lo studioso e l’insegnante e l’intellettuale attivo nel proprio tempo mi sono messo su un percorso che richiede molto lavoro, molta onestà con se stessi e una certa capacità di adattamento. Finora ho avuto molta fortuna ad accompagnare il mio lavoro. Posso solo dire che lo scopo essenziale del mio studio è la condivisione di qualcosa che, dopo un’accurata analisi, meriti di essere voluto.

 

6) Abbiamo tutti un progetto esistenziale da compiere?

Certamente sì. La vita umana si disegna in un arco che va da una partenza piuttosto indistinta, dove siamo soltanto “una persona fra le altre” come dice Thomas Nagel, a un percorso che, più o meno lungo, traccia un’identità personale unica e irripetibile. Come individui siamo la nostra storia, come persone siamo un tipo di viventi che deve costruire storie. Il progetto esistenziale si realizza secondo quelle che io chiamo pratiche di personalizzazione: noi personalizziamo l’esistenza, così come si rende unica una dotazione comune a molti; esistere è solo l’inizio, personalizzare il mondo è il nostro compito.

 

7) Siamo animali sociali, la vita di ciascuno di noi non avrebbe scopo senza la presenza degli altri, ma ciò nonostante viviamo in un’epoca dove l’individualismo viene sempre più esaltato e questo sembra determinare una involuzione culturale, cosa ne pensa?

Non so se sia vera questa litania dell’individualismo contemporaneo. Tendiamo a denigrare il nostro tempo e sono stanco di sentir dire che siamo individualisti, egoisti e che in quanto occidentali saremmo per questo al tramonto, che l’economia e la tecnica ci spersonalizzano, che il declino è morale e spirituale. Personalmente non lo credo affatto. Un certo pezzo della modernità si è rivelato un’illusione: quello di cui è il simbolo l’idealismo tedesco, Fichte ed Hegel, la pretesa di un Io assoluto che ha generato i mostri del totalitarismo. Ma questo NON è il soggetto che tipicamente cercavano di capire i filosofi del Settecento, i veri moderni, autori come Rousseau, Smith, Kant, Hume e il cuore della modernità.
Non credo alle diagnosi disperate del postmoderno. La modernità è ancora il nostro futuro e si tratta di lasciarci alle spalle una peculiare patologia del moderno: il delirio idealistico e il suo pendant, quello scientistico. La comprensione dell’uomo come soggetto anzitutto pratico, volto a realizzare un’esistenza personale limitata ma aperta al mondo e alla relazione è ancora una risorsa per il mondo occidentale e per il mondo intero. Il suo fulcro è l’idea di libertà personale, NON come mero arbitrio, ma come volere ragionevole, come desiderio che riflette e si confronta, come irriducibilità della persona a meccanismi impersonali. Tutto questo parlare di Destino, Tecnica, Occidente, tutti con la maiuscola, è una filosofia morta che ancora non si toglie di torno solo perché sono ancora vivi alcuni dei suoi antichi sostenitori.

 

8) Il bene, il male, come possiamo riconoscerli?

Con la ragione che interpreta la sensibilità naturale. Si distingue ciò che vale se io posso volere che sia una legge di natura viverlo: così interpreto il pensiero morale di Kant, un autore troppo spesso frainteso e ridotto a mere formule razionalistiche. Se si legge il Kant dell’Antropologia pragmatica, ad esempio, si vede quanta profondissima sensibilità morale e sociale animasse tutta la sua filosofia. L’errore con Kant è di leggerlo solo nelle parti più astratte: il suo pensiero è molto più complesso di quanto ci fecero credere i suoi epigoni e in particolare proprio, di nuovo, i suoi critici idealisti.

 

9) L’uomo, dalla sua nascita ad oggi è sempre stato angosciato e terrorizzato dall’ignoto, in suo aiuto sono arrivate prima le religioni e poi, con la filosofia, la ragione, cosa ha aiutato lei?

Un misto. L’esperienza religiosa, ma da un certo punto in poi l’onesta ricerca filosofica. Non ho mai avuto un rapporto dogmatico con la religione. Accolgo la Parola cristiana come una promessa che apre la speranza e la gioia, ma come filosofo non mi sognerei mai di ragionare solo per ribadire una verità rivelata. La filosofia ha il suo irriducibile spirito di ricerca e imporle una verità qualsiasi è contrario alla sua natura. In etica, poi, mi pare semplicemente ipocrita scegliere di seguire un codice di comportamento dogmatico invece di rischiare in proprio e riflettere in modo radicale. La religione rivelata non può essere ridotta a un codice morale: ne contiene uno, ma come un indirizzo che è affidato poi all’esperienza e alla critica di ognuno. Il filosofo morale, dal canto suo, non prende alcun codice per definitivamente buono; abita il proprio e ne cerca le ragioni, ma anche i limiti e le contraddizioni, e offre solo agli altri uomini strumenti e idee per riflettere a propria volta.

 

10) Qual è per lei il senso della vita?

La parola senso evoca qualcosa che eccede la filosofia. Se devo dirlo in modo semplice direi che il senso è la ricerca dei modi in cui il senso può apparire nelle vite delle persone. Le vite personali sono come trasparenze su ciò che vale, lo scopo essenziale è non offuscarle, non mentire a se stessi, mantenere per quanto possibile chiaro lo sguardo. Questo apre all’attesa di ciò che salva, il senso ultimo. Se verrà, chi è trasparente sarà in grado di accoglierlo.


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