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L'esperienza del non sè (il trascendimento dell'Io)

di Bernadette Roberts - Ed. Astrolabio-Ubaldini

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Nota:  Bernadette Roberts usa il termine "sé" per indicare l'ego, l'io psicologico.


A questo punto avvertii alla bocca dello stomaco la sensazione di chi precipita per cento piani in un ascensore non-stop e sentii che nella caduta mi veniva aspirato ogni senso di vita. Al momento di toccare terra, la consapevolezza: quando non c’è sé personale, non c’è neppure Dio personale. Vidi chiaramente come i due procedano insieme: quantunque non abbia mai scoperto dove siano andati.
Per un po’ restai lì, mentalmente ed emotivamente senza riflessi. Non riuscivo a pensare a ciò che era accaduto, il mio essere non rispondeva in nessun senso. Attorno a me c’era solo silenzio, e in quel completo silenzio attesi a lungo che si instaurasse un qualche tipo di reazione, che prima o poi accadesse qualcosa: ma non accadde nulla. In me non c’era alcun senso di vita, né movimento o emozione; alla fine mi resi conto che non avevo più un ‘dentro’ in assoluto.
Contemporaneamente alla caduta, s’era fatta una pulizia interiore così completa che non avrei avuto mai più l’impressione di possedere una vita che potessi chiamare mia, o un genere di vita qualsiasi. La mia vita interiore o spirituale era finita. Finita l’introspezione: da allora in poi i miei occhi poterono soltanto guardare fuori. Quando questo accadde, non potevo immaginare le terribili ripercussioni che l’improvviso evento avrebbe avuto. Le avrei apprese poco a poco, ed esclusivamente sul piano dell’esperienza: la mia mente non poteva comprendere cosa fosse accaduto, dal momento che l’evento e tutto quanto gli fece seguito esulavano da qualsiasi schema di riferimento a me noto. Da quel momento in poi, dovetti letteralmente cercare a tentoni il percorso lungo una strada del tutto sconosciuta.
Il primo pensiero che ebbi fu: oh no, non un’altra Notte Oscura! L’esperienza mi aveva abituata a queste sparizioni di Dio ed era piuttosto deprimente pensare che non fossero finite. Ma quando non riconobbi nessuna delle reazioni abituali – qualsiasi cosa dall’ansia al tormento, a voi il definirle – sentii che l’esperienza non aveva nulla a che fare con quanto ha descritto Giovanni della Croce e accantonai il concetto. Fra l’altro, non faceva alcuna differenza: dovevo semplicemente affrontare la realtà del qui e ora, una realtà in cui non avevo senso della vita.
Per cui stavo lì, totalmente lucida, in salute, con le varie facoltà intatte, naturalmente viva; in una parola, con tutto il mio organismo regolarmente funzionante: ma non sentivo la vita. Che fare a questo punto? Decisi che potevo darmi un avvio preparando il pranzo; ma, come mi mossi, tutti i movimenti abituali risultarono a un tratto così meccanici che mi sembrò di essere diventata un robot: non riuscivo più a infondere in ciò che facevo alcuna energia personale. Sbrigai le faccende senza che un filo di vita le sostenesse e ogni gesto fu totalmente meccanico, un semplice riflesso condizionato.
Dopo un po’ la cosa diventa opprimente e si comincia ad avere la pressante necessità di trovare la vita, da qualunque parte. Nella speranza di trovarla, uscii in giardino e restai lì, a guardarmi in giro. Sapevo che intorno a me c’era la vita, ma non riuscivo a sentirla; così mi aggirai come un cieco, toccando ogni cosa: le foglie, i fiori; mi protesi, afferrai i rametti del pino e me li lasciai scivolare fra le dita; chinandomi, affondai le mani nel terreno. Alla fine mi sdraiai sull’erba, a palme in giù, e guardai il cielo attraverso i rami del pino, sentendo il venticello passarmi addosso. Era bello stare lì; era tutto a posto. Intorno a me c’era la vita, anche se dal mio interno era sparita.
Più tardi quel pomeriggio, prima che tramontasse il sole, mi spinsi in un posto dove andavo sempre nei momenti di crisi: il rifugio degli uccelli della zona. Distava solo qualche centinaio di metri da casa mia e il percorso offriva splendidi scorsi sul mare, con le sue ampie spiagge e le colline alte contro il cielo, alle spalle del rifugio. Di regola mi arrampicavo solo per un piccolo tratto: oltre il ceppo su cui mi sedevo, c’era un acquitrino la cui acqua fangosa diventava sempre più profonda, via via che si avvicinava a uno dei laghetti formati dal fiume al momento di sfociare in mare. Ma quel giorno mi tolsi scarpe e calze e mi arrampicai nel cuore del rifugio, finché non trovai una piccola roccia affiorante appena sulla melma. Sedetti qui, fra le alte canne e le piante selvatiche, e sprofondai letteralmente nella vita che mi circondava e che, ben presto, mi sommerse.
Mi ero sempre sentita a casa mia in quel luogo. C’era una grande pace e una misteriosa tranquillità. Sapevo per esperienza che non serve pensare per risolvere i problemi della vita; solo se stavo qui, all’aperto, nel cuore della vita vera, spontaneamente avrei visto separarsi quello che aveva un senso da quello che non ne aveva; e una volta tornata a casa, ogni domanda inutile sarebbe stata spazzata via e avrei distinto chiaramente la strada da seguire. E anche quel particolare giorno sentii di essere a casa, probabilmente lo sentii come non mai fino ad allora. Intorno al masso, la vita era intensa e brulicava e traboccava, compensando la mia mancanza di vita a tal punto che era come se niente fosse accaduto. Non c’era dubbio: era questo il mio posto, circondata e protetta da questa cosa elusiva e onnipervadente chiamata ‘vita’. Dopotutto, forse nessun uomo è meglio degli elementi di cui è composto, dato che questi elementi sono la sua stessa vita, pensavo: anche se non sapevo come potesse essere così. Quel che contava era essere lì, nient’altro.


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