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Testi per riflettere

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Coscienza e realtà

Da: "Coscienza e realtà" di Riccardo Manzotti e Vincenzo Tagliasco

Ed. Il Mulino - Bologna

 

Sulla libertà

Parlando di coscienza non si può evitare di affrontare il problema della libertà [1]. Se, come abbiamo sottolineato, la mente fenomenica è apparentemente epifenomenica, non responsabile delle nostre azioni, come si può conciliare il nostro sentimento innato di essere soggetti liberi con un mondo fisico determinato da leggi fisiche indipendenti dalla presenza di soggetti coscienti? Come può un mondo causalmente chiuso lasciare spazio alla mia pretesa di determinare il mio futuro? Quale spazio è riservato al libero arbitrio in un universo dominato dalla necessità? Si ritiene che il maggiore ostacolo per la libertà sia rappresentato dal determinismo (vedi glossario) delle leggi fisiche. In questa sede sosterremo che il determinismo è di per sé ininfluente e che il vero problema della libertà deriva dall’accettazione di qualche forma di riduzionismo.
In che cosa consiste la possibilità di essere liberi? Nel fatto di potersi determinare autonomamente o nel fatto di essere liberi da qualunque cosa? Supponiamo, per assurdo, che lo stato di un soggetto non dipenda da nulla, neppure dai suoi stati precedenti: in ogni momento quello che il soggetto è non dipende da nessun stato precedente né suo né del resto della realtà. Immaginiamo che lo stato (e quindi le azioni) di questo soggetto siano legate ad alcune fluttuazioni quantistiche estremamente piccole di alcune particelle. In un certo senso lo stato di un soggetto del genere sarebbe un generatore perfetto di eventi casuali. Il suo stato sarebbe prodotto da un dado ideale, da una roulette quantistica perfettamente bilanciata, che farebbe sì che egli non dipenda da nulla. Ma questo suo "non dipendere neppure da se stesso" farebbe sì che non si possa parlare di una continuità nella sua volontà e nemmeno di una responsabilità in quello che egli decide. Ogni azione sarebbe indipendente dalle altre e, anzi, non sarebbe nemmeno ‘sua’ poiché tutto ciò che lui è non può in alcun modo determinarla. Sarebbe un pazzo, uno schizofrenico completo. La sua libertà sarebbe svanita. La libertà dunque non coincide con l’indeterminazione perché, come abbiamo visto, un sistema del tutto indeterminato è lontano dalla nostra idea di libertà.
 Tuttavia, se un sistema è determinato, è difficile poterlo ritenere libero. Se un soggetto deve obbedire a un altro, non si può dire che sia libero, per lo meno nel corso delle sue azioni. Eppure l’azione libera è classicamente accompagnata da una manifestazione di estrema determinazione: la volontà. Dire ‘io voglio fare x’ implica che io sto determinando x e che il mio volere è un’espressione di quello che io sono, quindi una determinazione di me stesso. Forse siamo vicini a una possibile soluzione. Supponiamo, sempre per assurdo, di avere di fronte un cherubino. Una creatura dotata di libero arbitrio ma fatta di puro spirito, una monade atomica e spirituale. Egli è costituito da un’unica sostanza nella quale è compreso tutto ciò che è, in quanto soggetto: non ha parti e non ha padroni. Egli è libero nel senso che, in ogni istante, diventa (nel senso di determinarsi) ciò che è e ciò che vuole. Anzi, la sua volontà e la sua essenza coincidono necessariamente in quanto, non avendo parti, egli non può essere il risultato dell’interazione di domini diversi. Questa creatura immaginaria è un esempio di convivenza di determinismo e di libertà. Questo cherubino è libero in quanto è l’unico arbitro delle proprie azioni, si determina autonomamente, ma le sue azioni non sono affatto casuali. Egli è ciò che vuole.
Infine un ultimo esempio. Un soggetto umano, una ragazza di nome Sabrina. Poiché manchiamo di una teoria della mente difficilmente possiamo rispondere a domande riguardanti la sua libertà. Supponiamo di accettare una metafisica riduzionista. La sua mente non è altro che il risultato dell’interazione di un insieme di atomi. In quanto unità Sabrina non esiste se non come etichetta da applicare a un insieme di elementi tra loro interagenti. Non è nemmeno libera poiché ogni sua azione è determinata da quell’insieme di parti che abbiamo deciso di chiamare "Sabrina"; insieme che è l’unico depositario reale delle sue relazioni di causa con l’esterno. Non sarà Sabrina a voler allontanarsi da un pericolo, ma un insieme di interazioni tra strutture neurali varie (ipotalamo, amigdala e alcune parti della corteccia). Non è libera perché le sue parti decidono per lei. Se anche qualcuna delle sue parti fosse indeterministica (per esempio perché nella sua corteccia cerebrale si nascondono dei microtubuli che amplificano alcune oscillazioni quantistiche del tutto casuali), Sabrina continuerebbe a non essere libera perché non determinerebbe ciò che fa. Le sue parti lo farebbero per lei, alcune deterministicamente e altre no. Sabrina non sarebbe mai la padrona delle proprie azioni e la prova di ciò deriva dal fatto che aggiungere Sabrina, come etichetta, all’insieme delle sue parti non modifica affatto il corso degli eventi. Sabrina è stata resa succube, in senso riduzionistico, delle sue parti [2].
Supponiamo invece di disporre di una metafisica non riduzionista. Il soggetto-Sabrina sarebbe quindi qualcosa di reale e di distinto dalle parti che lo compongono. Ogni suo stato sarebbe il frutto dei suoi stati precedenti (oltre che degli stimoli che gli si presentano). In tale ottica non riduzionista, il soggetto-Sabrina può fruire di vari livelli di libertà: da un aggregato privo di qualunque unità intrinseca privo di libertà, a una reale unità ricca di senso e contenuto [3]. Se il soggetto-Sabrina fosse, in senso ontologicamente forte, un’unità potrebbe, in questa misura, determinare il proprio corso di azioni. In un certo senso la sua possibilità di essere libero coinciderebbe con la sua possibilità di essere. In altri termini si può dire che Sabrina potrebbe godere di diversi gradi di esistenza. La sua libertà risulterebbe corrispondente a tali gradi di esistenza. Quanto più il soggetto è e tanto più è libero.

 

Sulla natura della coscienza

C’è un motivo di fondo per cui le teorie della mente non riescono a collocare la coscienza nel mondo: si basano su una visione della realtà fissata, oggettivista e dementalizzata [4]. É nostra convinzione che per comprendere la natura della coscienza si debba comprendere la natura della realtà: la coscienza è, per noi, una parte della realtà e, di conseguenza, qualunque visione della realtà che non implichi la coscienza è incompleta. Per questo motivo la prima mossa verso la formulazione di una teoria della mente, in cui la visione della realtà implichi la coscienza, sarà quella di analizzare la struttura della realtà. [...]

Tre sono le manifestazioni fondamentali della realtà: l’esistenza, la rappresentazione e la relazione-con. Un’utile metafora potrebbe venire dalla fisica. Il fotone si manifesta o come una particella o come un’onda. Il fotone non è mai oggetto di un’esperienza diretta ma è il supporto ontologico soggiacente. Ogni sua manifestazione assume le due forme citate anche se una risulta sempre dominante dal punto di vista del particolare osservatore. Così la realtà è il supporto ontologico delle sue tre manifestazioni (fondamento di ontologia, fenomenologia ed epistemologia nella tradizione del pensiero occidentale). Sempre facendo uso della metafora del fotone, l’essere onda e l’essere particella, sono due manifestazioni di un’unica realtà o manifestazioni di due realtà diverse? Se le due forme del fotone fossero mutuamente esclusive si potrebbe ipotizzare l’esistenza di due entità diverse: il fotone-onda e il fotone-particella. Tuttavia non è così. Ogni fotone è sia onda sia particella. Parimenti, ogni manifestazione della realtà è contemporaneamente esistenza, rappresentazione e relazione-con. In questo modo non solo si afferma la contemporaneità delle tre manifestazioni ma anche il passaggio da queste categorie al loro supporto ontologico. La motivazione di ciò risiede nel fatto che ognuna delle tre forme citate non esaurisce e non è sufficiente a descrivere la realtà così come non erano, nell’esempio del fotone, la forma ondulatoria o quella corpuscolare. Inoltre sono sempre tutte e tre contemporaneamente presenti.
Queste tre categorie, in apparenza incommensurabili, hanno un supporto naturale, un’unità logicamente necessaria e fondante (analoga al fotone). Il ragionamento di base è che, a un livello elementare, niente può essere definito, in modo intelligibile, come privo di una qualunque di queste tre categorie fondamentali: non esistono esempi di presenza pura di nessuna delle tre e pertanto non ha senso immaginarle come proprietà/categorie elementari e soprattutto diverse. La conclusione è che il livello elementare della realtà non vede come suoi costituenti elementari le tre accennate categorie ma un unico costituente. Per questo costituente coniamo un neologismo: onfene [5]. In alternativa, si potrebbe pensare di usare un nome che indichi la natura relazionale di questo costituente e che ne mostri la tensione verso l’altro da sé, qualcosa come relazione teleologica. Anche questo termine però potrebbe essere frainteso dato il suo riferimento a una finalità i cui confini potrebbero suscitare qualche affinità pericolosa. Vi è un altro termine che potrebbe esprimere quello che intendiamo con onfene e, se pure è un termine rischiosamente ricco di connotazioni, lo useremo per l’ovvio richiamo a Brentano: relazione intenzionale. Il dominio delle relazioni intenzionali è quello dell’intenzionalità [6]. [...]
A livello elementare, ossia prima che si sia proceduto con delle astrazioni a restringere l’esperienza o a considerare isolatamente alcuni aspetti piuttosto di altri, possiamo concludere che

 

ciò che esiste rappresenta,
ciò che rappresenta è in relazione-con,
ciò che è in relazione-con esiste
.

 

Si osservi che questa non è una ipostatizzazione di tre categorie generali in un’unica entità: è la rivendicazione dell’identità del principio originario dell’intenzionalità (od onfeneità). Tale identità si riflette nella contemporanea presenza delle tre categorie in ogni istanza del reale. Tali categorie sarebbero, in sostanza, proiezioni distinte della stessa realtà, tre modi di vedere la stessa cosa in contesti diversi. Ciò non significa che esse siano la stessa cosa.
Oltre all’esempio del fotone si potrebbe citare il caso dell’elettromagnetismo dove due forze elementari (storicamente studiate in modo separato, la forza elettrica e quella magnetica) sono state sostituite da una sola (la forza elettromagnetica) [7]. Definiamo questa contemporaneità di relazione-con, di rappresentazione e di esistenza con il termine onfeneità o intenzionalità.
[...]

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NOTE

[1] Per noi il problema della libertà coincide con il problema del libero arbitrio, ovvero il problema della possibilità che i soggetti d’azione determinino se stessi. Altri aspetti etico-morali della libertà non saranno trattati.
[2]
E’ significativo il fatto che qualunque modello del mentale che lo scomponga in una serie di parti tra loro interagenti finirà con il privare i soggetti della propria libertà. Tra gli esempi si potrebbero citare molti modelli della mente di stampo psicologico, molti modelli funzionalistici, la totalità dei modelli cognitivi.
[3]
In questo esempio i termini senso e contenuto sono usati facendo appello al loro uso comune.
[4]
Tale visione della realtà, che non è la nostra, deriva dalla scissura cartesiana responsabile della creazione di un mondo meccanicista privo di unità, di contenuto e della capacità di rappresentare.
[5]
Etimologicamente, on-fen-e è il composto delle abbreviazioni delle radici di ontologia, fenomenologia ed epistemologia. In italiano il nome non ha plurale ed è femminile. In inglese il termine si traduce con onphene e fa il plurale normalmente (onphenes).
[6]
Il termine ‘intenzionalità’ ha una lunga storia e ha assunto significati tra loro molto diversi. Da un lato vi è chi, come Fodor, nega che l’intenzionalità costituisca uno dei componenti originari della realtà. Per Fodor «presto o tardi i fisici completeranno il catalogo che stanno compilando delle cose ultime e irriducibili delle cose. Quando l’avranno fatto, concetti come spin, charm, carica e simili appariranno forse nel loro elenco; l’aboutness [intenzionalità], però, certamente no; e l’intenzionalità semplicemente non arriva a questa profondità» (Fodor 1990, p. 157) . Non potrebbe essere più diversa la posizione di Searle per il quale «Qualunque progetto che miri a naturalizzare i contenuti intenzionali è destinato al fallimento, perché pretende di ridurre l’intenzionalità a qualcosa di non mentale significa privarsi della possibilità di renderne conto in maniera adeguata. L’aboutness (cioè l’intenzionalità) è reale» (Searle 1992 p. 66, trad. it.) . Infine è doveroso un riferimento a Dennett (Dennett 1987) per il quale l'intenzionalità non è altro che un atteggiamento, uno schema interpretativo di alcuni fenomeni (il comportamento degli individui). Per una storia dettagliata dell'evoluzione del termine si veda (Gozzano 1997) .
[7]
Vi è un altro esempio famoso che si può prendere a prestito dal mondo fisico. Le particelle elementari classiche (protoni e neutroni e gli adroni in genere) si pensa siano costituite da particelle ancora più elementari (i quark) che per motivi vari sono inosservabili singolarmente. Tuttavia la scienza ne accetta l’esistenza in quanto tale ipotesi consente di unificare una serie di fenomeni altrimenti distinti.


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