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La morale e le norme di comportamento

Cerchio di Firenze 77

da: "Oltre l'illusione. Dalle apparenze alla realtà" Ed. Mediterranee
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Scommetto che non tutti siete d'accordo con me, è inevitabile. Seguite la norma che crea le norme. E' insito nella natura egoistica di ogni uomo stigmatizzare gli altri per innalzare se stessi; naturalmente il giudizio di condanna deve trovare riferimento in qualcosa, nel comportamento degli altri, che sia condannabile da un qualunque punto di vista. Perciò si passa in rassegna la loro vita, la si confronta con la propria e, dal confronto, si pongono in evidenza quelle azioni che - così a freddo e ben lontane dalla contingenza - si crede non facciano parte della propria natura, dimenticando che l'occasione fa l'uomo ladro. Ne consegue che certe azioni che rimangono singole rispetto al comportamento generale, vengono bollate col marchio dell'infamia e così la regola è creata. Sicché la regola non individua certi valori assoluti, non ha un valore in sé, ma è tale in quanto rispecchia il comportamento generale degli individui di una società. Una questione statistica, insomma, ed il giudizio di condanna che subisce chi la viola non deriva dal bisogno del giudice di erigersi a tutore di supposti valori morali, ma unicamente dall'istinto di ognuno di trovare nel comportamento degli altri qualcosa di condannabile da un qualunque punto di vista, perché mostrando il fango che si è gettato sugli altri si crede di nascondere il proprio. Abbassando gli altri si è convinti di innalzare se stessi. La conclusione di questo discorso, e cioè la relatività delle norme morali di una società, è fin troppo scontata. Ma che cosa succede quando queste norme sono credute comandamenti dettati da Dio? E qua ci riallacciamo ancora una volta al discorso religioso che abbiamo avviato all'inizio; anche senza entrare nel merito della "dettatura", è chiaro che il valore rimane egualmente relativo. Se infatti ancora una volta - e questa volta per nostra comodità - ci rifacciamo alla natura, osserviamo come ogni specie abbia le sue regole di vita, che sono quelle e vanno bene per quella specie e non per un'altra. In modo analogo, dunque, i comandamenti di Mosé, per esempio, non possono contenere tutta la moralità o la più alta moralità; è evidente che si tratta di principi quanto meno riferibili ad un dato tipo di società, ad una fase della evoluzione degli esseri. Infatti per la fase dell'evoluzione che voi dovete compiere, il "non uccidere" di Mosé è l'inizio di un discorso che si concluderà col superare la visione egoistica della vostra esistenza. - Quanta strada, eh fratelli?
Allora sorge una domanda: nell'ambito di questo discorso, c'è una regola che sia valida in senso assoluto per ogni uomo, dal selvaggio al Santo che sta per lasciare la ruota delle incarnazioni umane? Evidentemente no, perché ciò che è "ideale morale" del Santo, applicato al selvaggio ne paralizzerebbe ogni moto vitale. Non solo, c'è dell'altro. Guardate: nelle società umane una legge è un insieme di principi generali ed astratti che dovrebbero vigere per ogni uomo che si trovi nell'ambito territoriale di quella società. Chi è preposto alla promulgazione delle leggi, cura che queste divengano di pubblica conoscenza. Una volta, quando gli uomini non sapevano leggere e scrivere, v'erano le "grida", cioè gli "editti" gridati dai banditori e in quel modo portati a conoscenza dei sudditi. Oggi, invece, le vostre leggi sono pubblicate nell'intesa che ogni cittadino sappia leggere. E fino a che non è assolta la formalità della pubblicazione, la legge non entra in vigore. Questo, ripeto, nel difettoso e lacunoso mondo umano.
Ora, se lo scopo della vita dell'uomo fosse quello di fare la volontà di Dio, cioè di seguire le Sue leggi, come si dice, queste dovrebbero essere eguali per ogni uomo, non solo, ma dovrebbero essere conosciute da tutti gli uomini, cosa che non è in assoluto. Gli indios - o amerindi - per esempio non conoscono i comandamenti di Mosé, né è vero che abbiano delle regole morali innate che li sostituiscano; sicché quelle che dovrebbero essere leggi divine, non hanno quel carattere di universalità che dovrebbero avere, primo perché non sono eguali per tutti gli uomini, secondo perché non tutti gli uomini le conoscono o, quanto meno, hanno l'occasione di conoscerle e ciò esclude che lo scopo della vita dell'uomo sia quello di seguire e di osservare le leggi di Dio.
Noi diciamo che lo scopo della vita dell'uomo è quello di superare l'egoismo che in lui nasce dal senso di separatività. Questo scopo è raggiunto attraverso a molteplici incarnazioni, durante le quali l'uomo, passo su passo, volge verso quella mèta. Ma per raggiungerla ha valore tanto il "non uccidere" di Mosé quanto la dottrina di Marx.
Nelle varie fasi dell'evoluzione umana, l'ideale morale che l'uomo deve raggiungere e fare propria natura acquisita, potrà essere il "non uccidere" e poi il "non fare agli altri quello che non si vorrebbe fosse fatto a sé" ed infine "l'amare gli altri come se stessi". Ne consegue che il giudizio che si può dare, si può fare di un uomo - ammesso che sia lecito giudicare - deve essere rapportato alla sua fase di sviluppo.
Il problema non si esaurisce qui. Rimane infatti la questione della "conoscenza". Chi trasgredisce, inconsapevole, la norma morale che deve fare propria natura acquisita, è colpevole?

 

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