1 Si lavora per vivere o si vive per lavorare?
2 Si vive per essere felici o si é felici (pur) di vivere (comunque, in qualsiasi condizione)?
(Ad entrambe le domande la mia personale risposta é "la prima che hai detto").
Ma mi piacerebbe però raccogliere le risposte degli amici del forum, così da stilare una specie di statistica su quel che intendono come mezzi per degli scopi o per scopi da raggiungere con adeguati mezzi.
Mi stupirei se alla prima domanda qualcuno rispondesse che vive per lavorare (vorrebbe dire che é talmente fortunato che il suo lavoro lo appaga pienamente in tutte le sue aspirazioni, che niente altro ha da chiedere alla vita, oltre al fatto di continuare nel suo lavoro, per essere appagato, felice).
Alla seconda mi aspetterei che gli atei rispondano unanimemente ("alla bulgara") come me: lo scopo fondamentale é la felicità, e se la vita la consente la si sceglie come mezzo opportuno; se invece non se ne può ragionevolmente aspettare che infelicità (complessivamente), allora non vale proprio la pena di continuare a viverla.
Dai credenti mi aspetterei diverse risposte.
Risposte che se non temessi di offendere chiamerei "fondamentalistiche" o "integralistiche", secondo le quali la vita, essendo un dono divino (ed essendo Dio infinitamente buono), é un fine in sé, da perseguirsi come tale, quale che sia la sua qualità.
O in alternative risposte che sempre se non temessi di offendere chiamerei "opportunistiche", secondo le quali, volendo Dio (nella sua infinita bontà) la felicità e aborrendo l' infelicità per tutti, se ne asseconderebbero doverosamente e virtuosamente i desideri puntando alla qualità della vita piuttosto che alla sua quantità (durata nel tempo), e dunque che se non se ne potesse ragionevolmente aspettare che infelicità (complessivamente), allora la si dovrebbe per lo meno passivamente lasciar finire, se non anche far cessare attivamente.
(Ricordo due noti credenti morti negli ultimi anni, che a mio parere, un po' ipocritamente entrambi, alla luce di quanto "ufficialmente professato", hanno chiesto di essere lasciati morire, evitando accanimenti terapeutici, e anzi venendo "addormentati" farmacologicamente onde non soffrire; per la cronaca, di uno -don Verzè "del SanRaffaele"- ho una pessima opinione, dell' altro -il card. Martini- un' opinione piuttosto buona).
Ovviamente da parte di chi avesse la compiacenza di rispondermi chiederei che precisasse se é ateo o credente (di alcuni é del tutto evidente, ma di altri no).
Da chi rispondesse "la prima che hai detto" alla prima domanda (se con mia sorpresa ce ne fossero) mi piacerebbe anche sapere che professione svolge e in quali condizioni.
Grazie per l' attenzione.
Iniziamo dalla seconda domanda: NON si vive per la felicità, il grado di felicità non è assolutamente indicativo del valore di una vita e della moralità di una persona, si può essere assolutamente felici e sereni ma anche insensibili al dolore altrui, ingiusti nelle relazioni, egoisti. Il mafioso che riesce ad aver ragione di tutti i boss rivali dopo aver compiuto una strage per dominare il territorio è sicuramente felice, si sente forte e realizzato nel suo desiderio di potere, ma è decisamente peggio delle bestie e la sua esistenza è un disvalore assoluto. Anche ciò che è noioso, brutto, faticoso, persino doloroso, può avere un valore, può aiutarci a crescere, ad essere a lungo termine più forti, meno fragili, più disposti a comprendere gli altri che hanno sofferto come noi, quindi no, la felicità non è tra le cose che ritengo diano senso vero e valore alla vita. Studiare è faticoso ad esempio, ma ti aiuta a sviluppare il sapere e ha applicazioni pratiche, se io avessi impostato la mia vita tenendo conto di questo criterio di felicità e piacere come base di tutto allora avrei preferito tante volte giocare invece di impegnarmi a scuola, non avrei mai fatto attività fisica essendo piuttosto pigro, ma invece ho fatto anche quello per tenermi in forma, invece l'ho fatto. Ciò che dà piacere ed euforia può anche fare malissimo, come il fumo, l'alcol, le droghe pesanti e leggere, quindi il piacere e la felicità non sono un criterio valido per discernere il bene dal male. Io da credente anzi ritengo che il senso della vita sia accettare tutto quello che ci capita come espressione di un progetto divino superiore, io credo che anche il dolore abbia un senso che a noi sfugge e se Dio permette la nostra sofferenza è perché ha un progetto su di noi e tutto quindi va offerto al divino, il bene come la sofferenza, in fondo questo viene detto non solo dai cristiani ma anche da altre religioni come l'islamismo (Sottomissione al volere di Allah), veniva detto dai filosofi stoici secondo cui tutto, anche il dolore, è l'espressione di una provvidenza, di un logos (ragione) che governa la natura ed il mondo e quindi tutto è in fondo benefico, anche ciò che ci sembra malvagio.
Ed alla prima domanda risponda: Sì, in linea molto generale si vive proprio per lavorare! L'inattività totale infatti coincide con la MORTE, ogni essere vivente è attivo quindi lavora, sto lavorando io che sto scrivendo questo post (è un lavoro in fondo), il lavoro inteso come attività tesa al raggiungimento di un fine è ciò che caratterizza la vita nelle sue varie forme, mentre solo i morti ormai, cessando il ciclo vitale, non lavorano più. Come vedi, le risposte che per te sembravano scontate (vivere per la felicità, non per il lavoro, ecc.) non lo sono affatto se si guardano questi problemi con prospettive differenti da quelle comunemente accettate.
cit.Sgiombo:
1 Si lavora per vivere o si vive per lavorare?
Si lavora per vivere.
2 Si vive per essere felici o si é felici (pur) di vivere (comunque, in qualsiasi condizione)?
Si vive pur se non si è felici, perché si spera illusoriamente che, forse, un domani lo saremo.
Paradossalmente si è felici ( ma forse sarebbe più corretto dire 'sereni'...) veramente solo quando cessa ogni speranza illusoria di essere felici ( di una felicità duratura, non effimera)...
Ovviamente da parte di chi avesse la compiacenza di rispondermi chiederei che precisasse se é ateo o credente (di alcuni é del tutto evidente, ma di altri no).
Né l'uno né l'altro...son buddhista (alla buona...) ;D ..!
Da chi rispondesse "la prima che hai detto" alla prima domanda (se con mia sorpresa ce ne fossero) mi piacerebbe anche sapere che professione svolge e in quali condizioni.
Attualmente sono disoccupato (sono stato operaio e poi artigiano ceramista...ma non sto cercando un 'altra occupazione) e curo Villa Sariputra. In questi giorni sto potando il piccolo frutteto...e ho poco tempo ( e tanta stanchezza...) per scrivere cose belle et interessanti et profundissime et sollazzevoli... :(
Tra i molteplici attributi di Homo sapiens, due tra i più importanti sono: faber e ludens. Il lavoro è ciò che ha emancipato l'umano dallo stato di natura. Quando è creativo il lavoro diventa gioco, ludum. Si vive grazie al lavoro. Che può anche diventare una catena. Quindi il problema non è il lavoro, ma la catena. Sono atea, legata ad una visione del mondo che dà molta importanza al lavoro tanto da farlo coincidere con la sua filosofa umanistica. In ciò sta il mio disprezzo per ogni forma, alta o bassa, di parassitismo.
Mi sono occupata professionalmente di salute e sicurezza del lavoro. Quindi il lavoro è materia che ho bazzicato per una vita, proprio per lavoro. Adesso mi godo, con le energie rimaste, la fase ludens. La fase faber comunque non finisce mai ma, rimosse le catene, diventa parte del piacevole gioco di vivere in cui faber e ludens si fondono indissolubilmente.
X Socrate78
Non ho domandato: che cosa dà valore alla vita? O: che cosa rende morale una persona?
Ma invece se si vive per essere felici o se si é felici vivendo a qualsiasi costo, comunque si viva (se si considera la vita come mezzo per altri scopi o come fine a se stessa).
E' evidente che, per dirlo con gli stoici, la virtù, per chi sia virtuoso, é premio a se stessa, ovvero coincide con la felicità.
Ma invece per chi sia vizioso (e ce ne sono) é il vizio ad essere premio a se stesso, e dunque la felicità consiste nella soddisfazione del vizio stesso.
E infatti pensi anche tu che "Il mafioso che riesce ad aver ragione di tutti i boss rivali dopo aver compiuto una strage per dominare il territorio è sicuramente felice, si sente forte e realizzato nel suo desiderio di potere, ma è decisamente peggio delle bestie e la sua esistenza è un disvalore assoluto"
Ho inoltre parlato di felicità o infelicità "complessivamente" intesa.
Dunque anche ciò che è noioso, brutto, faticoso, persino doloroso, può contribuire a rendere complessivamente felice la vita, se consente di crescere, essere a lungo termine più forti, meno fragili, più disposti a comprendere gli altri che hanno sofferto come noi.
E ciò che dà un effimero piacere ed euforia al momento ma anche fa malissimo a in seguito, come il fumo, l'alcol, le droghe pesanti (sulle leggere sospenderei il giudizio), non rende complessivamente felice, ma al contrario complessivamente infelice la vita.
Fatta queste precisazione, credo di poterti "etichettar" come "credente -absit iniuria verbis- fondamentalista", prendendo atto che alla seconda domanda rispondi:
"Io da credente anzi ritengo che il senso della vita sia accettare tutto quello che ci capita come espressione di un progetto divino superiore, io credo che anche il dolore abbia un senso che a noi sfugge e se Dio permette la nostra sofferenza è perché ha un progetto su di noi e tutto quindi va offerto al divino, il bene come la sofferenza, in fondo questo viene detto non solo dai cristiani ma anche da altre religioni come l'islamismo (Sottomissione al volere di Allah), veniva detto dai filosofi stoici secondo cui tutto, anche il dolore, è l'espressione di una provvidenza, di un logos (ragione) che governa la natura ed il mondo e quindi tutto è in fondo benefico, anche ciò che ci sembra malvagio".
Nella tua risposta alla seconda domanda c' é un' evidente fraintendimento:
Per "lavoro" non intendo "attività qualsivoglia", ovvero "vita" (in contrapposizione a "passività totale", ovvero "morte"), ma invece "attività necessaria a campare, a procurarci i mezzi materiali necessari per sopravvivere", svolta a questo scopo (di sopravvivenza), a prescindere dal fatto che ci dia o meno soddisfazione "in sé e per sé" ma invece per quanto dalla vita si può complessivamente ottenere.
Per esempio scrivendo interventi in questo forum non ti guadagni da vivere, ma guadagnandoti in qualche altro modo da vivere (per mezzo di un' attività professionale o "di lavoro"; tua personale, o di chi lo fa per te se troppo giovane o troppo vecchio o altrimenti impedito) puoi ricavare le soddisfazioni che ricavi dal partecipare al forum stesso.
Scrivi che "il lavoro inteso come attività tesa al raggiungimento di un fine è ciò che caratterizza la vita nelle sue varie forme, ma io intendevo per l' appunto chiedere: il lavoro come fine a se stesso (volto a raggiungere un fine che col lavoro stesso si identifica) oppure come mezzo per altri fini (che con il lavoro stesso non si identificano)?
Le prospettive comunemente accettate (ma non da me, che sono anticonformista) di fronte alla vita non c' entrano proprio, come credo ti renderai facilmente conto se cercherai di comprendere ciò su cui invito alla riflessione.
X Sariputra
Se ben capisco riesci a mantenerti lavorando nell' orto e vigneto.
E mi congratulo con te; piacerebbe anche a me riuscire ad essere autosufficiente e a sottostare ai ricatti o comunque condizionamenti del "mercato" molto meno di quel che mi tocca accettare (malgrado cerchi comunque di affrancarmene nei sempre troppo angusti limiti del possibile); per la verità questa considerazione valeva per quando non ero ancora in pensione...
(Lo so, molti penseranno giustamente: "Che culo!", poiché purtroppo oggi quel che fino a qualche decennio fa era un sacrosanto diritto sta diventando una "questione di culo").
Anche nel tuo caso mi sembra che se consideri, come intendevo io nel porre le due domante, la "felicità complessiva" (la "somma algebrica di felicità e infelicità", per così dire; posto che nessuna perfezione esiste di fatto e sicuramente nessuno é mai stato né sarà sempre, comunque incondizionatamente felice; sul contrario sarei soltanto un po' più dubbioso...), allora il fatto di sperare nella felicità "in un domani" faccia parte degli "addendi di segno positivo" (se "illusoriamente", allora compensati almeno in parte ma spesso più che in toto da "addendi di segno negativo" rappresentati dalle inevitabili delusioni).
Se ben capisco, sei buddista agnostico (circa il divino); non avevo preso in considerazione il caso (mi scuso, ovviamente non é per minor rispetto e considerazione che verso credenti e miscredenti).
Buon lavoro e buon ritorno (con più lunghe riflessioni a tempo debito, letteralmente "oziose") fra noi ameni chiacchieratori del forum.
X Ipazia
Nel tuo caso le precisazioni sulle tue convinzioni non erano certo necessarie per i vecchie del forum.
Però hai fatto bene a dichiararle per i sempre auspicabilissimi "nuovi".
Mi sembra di poter dire che confermi quanto mi aspettavo dagli atei.
La tua attuale condizione é molto, molto simile alla mia (mi riconosco molto nelle tue ultime affermazioni).
Circa quanto affermi circa il fatto che il lavoro può anche diventare una catena. Quindi il problema non è il lavoro, ma la catena, come é facile immaginare, concordo pienamente.
Colgo però l' occasione per precisare che in ossequio al sano "naturalismo leopardiano" del mio venerato maestro Sebastiano Timpanaro (ma anche in accordo con altri; per esempio col pure da me compianto Domenico Losurdo) considero le convinzioni di Marx ed Engel sul "comunismo nella sua fase avanzata, quale si sviluppa sulla sua propria base", nel quale vigerebbe il principio "da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni" e "il libero sviluppo di ciascuno sarebbe condizione del libero sviluppo di ciascun altro" un residuo loro malgrado di utopismo non scientifico, non realistico, irraggiungibile (ma casomai da perseguire come "ideale cui asintoticamente tendere").
Anche se si verificheranno le più auspicabili delle sorti di fronte all' umanità, nella vita resterebbe pur sempre inevitabilmente un "residuo insuperabile di sofferenza".
La forza d' animo e la capacità di affrontare sacrifici in una qualche misura sarà sempre necessaria al buon vivere.
Grazie a tutti!
P-S.: Anche a Freedom (come nel caso di Ipazia, risponde nel modo che mi sarei aspettato da un ateo; ma mi viene il dubbio che si sia detto credente in precedenti interventi; in questo caso credente cosiddetto "opportunista"; absit iniuria verbis).
Per la risposta sul lavoro mi associo alla risposta di Ipazia che ha espresso esattamente quello che penso.
Per la risposta sulla felicità: si vive per essere felici. E' lapalissiano! Se ci si guarda dentro si scopre agevolmente che tutto il nostro essere ambisce, anela alla felicità. Totale, assoluta. Nello stesso modo che, spero di non andare fuori tema, si desidera l'immortalità. Questa è l'incontrovertibile verità di noi stessi. Tutti, sempre e comunque.
Bisogna solo spendere due parole sulla felicità. Non è il piacere immediato e nemmeno posticipato. Non è la soddisfazione delle nostre pulsioni malate o dei nostri capricci. La felicità è la gioia eterna. A quello noi tendiamo.
Beato chi l'acchiappa!
Salve. Come mio ormai solito , definiamo il lavoro : "attività produttiva svolta allo scopo di procurarsi mezzi di sussitenza, il cui esercizio impegna tempo, risorse ed energia di chi vi si dedica".
Quindi il lavoro, per risultare tale, deve includere sempre un qualche elemento sia di costrizione che di produttività, non importa se anche solo immateriale. Deve rappresentare quindi sia una necessità individuale (per costrizione) che un'utilità sociale (per produttività).
Chi si diverte (il creativo) oppure persegue finalità personali facoltative (l'ambizioso) non sta lavorando. Al massimo ha una occupazione, un progetto, una missione. Costoro vivono per "lavorare".
Io ho lavorato per 37 anni senza ricavarne alcuna soddisfazione che non fosse incidentale e momentanea (impiegato tecnico -commerciale), quindi ho lavorato per vivere, come avviene per la massa.
Circa la felicità, lasciando da parte il secondo me corretto ed appropriatamente concetto filosofico di esso ("la condizione per la quale risultano soddisfatti - od assenti - tutti i bisogni e tutti i desideri") che risulta puramente utopistico e coincidente con la morte, preferisco - a livello esistenziale - sostituirla con la "serenità" ("la condizione per la quale non si nutrono nè odi nè rimpianti").
Essendo convenzionalmente ateo (ma più precisamente - e sempre filosoficamente - agnostico) considero che si debba vivere per poter essere augurabilmente sereni. Rispettare il mondo e cercare di amarlo attraverso il capirlo. E comprendere vuol dire sia "capire" che "fare parte di....".
Ed il fare parte del mondo, il capirlo (anche limitatamente), il rispettarlo....che sono mai ? L'amarlo. Saluti.
Grazie anche a te, Viator.
Stavolta sono d' accordo (...capita "nelle migliori famiglie", come si suol dire).
Citazione di: viator il 23 Febbraio 2019, 17:35:54 PM
Chi si diverte (il creativo) oppure persegue finalità personali facoltative (l'ambizioso) non sta lavorando. Al massimo ha una occupazione, un progetto, una missione. Costoro vivono per "lavorare".
Io ho lavorato per 37 anni senza ricavarne alcuna soddisfazione che non fosse incidentale e momentanea (impiegato tecnico -commerciale), quindi ho lavorato per vivere, come avviene per la massa.
Su questo non concordo. Fin dall'invenzione della ruota, domesticamento di piante e animali, ... il creativo fu il motore dell'evoluzione sociale umana. Anche oggi ciò che può alleviare la parte sacrificale del lavoro viene dal lavoro creativo di progettazione dell'intelligenza artificiale. Rimarrà forse sempre una parte routinaria, ma si ridurrà a vantaggio del lavoro creativo, non necessariamente correlato alla sopravvivenza, ma al puro piacere dell'homo faber, come nell'arte, educazione e bricolage. Penso anche, nel lavoro tradizionalmente inteso, alla soddisfazione incalcolabile di chi salva vite umane, di chi fornisce servizi importanti o di chi, semplicemente, sa fare bene il suo lavoro, come nella "chiave a stella" di Primo Levi. Rimosse le catene dello sfruttamento mercantile e l'alienazione connessa, il lavoro ritrova la sua natura umana, umanistica e umanizzante.
Salve Ipazia. Tu privilegi costantemente le interpretazioni sociali, collettive, storiche, di costume, ideologiche.
Io quelle individuali, personalistiche, esistenziali, psicologiche.
Infatti io mi riferivo alle aspirazioni del singolo e del modo in cui costui tende ad interpretare il proprio ruolo individuale, mentre tu ne sottolinei il ruolo storico e sociale.
Credo allora che avremo ragione entrambi. Saluti.
Vorrei ben vedere chi ammettesse di rispondere la seconda ipotesi alla prima domanda. Sopratutto su un forum di riflessioni! Non vorrei spaventare possibili risposte, anzi sarei ben curioso di sapere come verrebbero articolate, ma conosco parecchie persone che dal mio punto di vista "vivono per lavorare" ma credo che la frase suoni così male nella testa di chiunque che nessuno sarebbe disposto ad ammetterlo certamente agli altri, nondimeno a se stesso. Invero ho incontrato persone che utilizzano il termine "lavoro" come una sorta di principio da cui far discendere a cascata parecchie riflessioni anche fondanti la propria vita, ma se contestualizzato meglio a mio avviso si riferiscono anzichè al lavoro vero e proprio, ad una sorta di "praticità" o "etica derivata dalla prassi" che mi trova tralaltro d'accordo a secondo di come sia declinata. Se d'altro canto come suggerisce Sgiombo questa risposta fosse adeguata a chi avesse trovato un lavoro così stimolante da permettergli una perfetta simbiosi con la propria vita, allora potrei anche ricadere in questa categoria, ma a quel punto avrei cambiato sostantivo. Mi piace distinguere tra "opera" e "lavoro" dove per opera intendo ciò che viene fatto esclusivamente per se stessi o disinteressatamente e lavoro ciò che viene fatto per un interesse personale indiretto (che sia un valore di scambio od altro). In quel caso mi piacerebbe specificare che tento di massimizzare il tempo dedicato alle opere a dispetto del lavoro, credendo, che solo le opere possano entrare in una vera simbiosi con il proprio "Essere". In questi termini, opero tutto l'anno come agricoltore, e lavoro per offrire ospitalità turististica per circa otto mesi l'anno, oltre che "per arrotondare" qualche lavoro appartenente alla mia vecchia professione di cui non sono riuscito a scrollarmi completamente per via ovviamente dei soldi, ma che rappresenta una parte minore della mia esistenza .Sono, come Sariputra, in tempi di frutteto e potatura.
Riguardo alla seconda domanda, penso che non saprei adattarmi a nessuna delle due diciture senza sentirmi in difetto dichiarandolo. Non so di preciso quale sarebbe la dicitura che sceglierei, ma penso qualcosa del tipo "vivo per vedere\trovare la felicità" perchè mi piace pensare che essa possa essere trovata dietro ad ogni angolo(compreso se stessi), e che il non vederla sia solo un problema di "cattiva osservazione", ed in questo penso che l'osservazione, la meditazione, sia fondamentale nel coltivare se stessi. Allo stesso tempo mi piacerebbe organizzare in maniera bipolare questa proposizione includendo anche in qualche modo la "tragedia" che ritengo altrettanto significativa e in certi casi persino "desiderabile". In questo penso che i credenti abbiano una marcia in più (ma come in auto, inserire la marcia è solo il primo passo per partire) ovvero nel non farsi trainare dal terrore dell'infelicità e della tragedia, ma di saperla affrontare riconoscendone il valore. Non aderendo a fedi specifiche non vorrei impossessarmi di simbolismi specifici impropriamente, ma in generale penso che mi piacerebbe concludere che vivo per cercare di rimanere in equilibrio tra chaos e ordine, tra la felicità e la tragedia, tra lo ying e lo yang se proprio devo usare una terminologia abusata ma comprensibile, cercando di seguire questo percorso più come una forma di mantenimento di un equilibrio funambolico che con una sorta di coltivazione con un unico obbiettivo (la felicità). Da quel che ne so e prendendo in considerazione solo le definizione "da vocabolario" riterrei di dire di me stesso di essere ateo e naturalista, anche se riletto appena scritto personalmente mi pare un ossimoro, in quanto trovo nella natura qualcosa di perfettamente aderente alla dimensione del divino, sia tradizionalmente che personalmente.
Alla domanda 1)
Il lavoro è parte integrante del mio vivere, ma questo vivere accoglie in sè, perchè sia tale, la componente "tempo libero", libero appunto dal lavoro, senza il quale il mio mondo della vita ne risulterebbe compromesso in quanto è anche il tempo libero che nobilita e qualifica la nostra vita, non solo il lavoro.
Alla domanda 2)
A premessa, come richiesto, sono dichiaratamente e socialmente aconfessionale, intimamente e filosoficamente agnostica.
Io sono felice di vivere e di averne avuto l'opportunità. E tutte le volte che mi spezzo le gambe e il cuore e tutto il dark side che sale addosso in testa trovo comunque in questa opportunità di vita la ragione della mia felicità.
A me però quelli che affermano di amare la vita non mi convincono.
Quando va tutto bene ma proprio tutto! la vita ci riserva la seguente, ineludibile, sequela: morte dei propri genitori, malattie, vecchiaia e morte finale. E già così mi sembra di aver calato un bel carico da undici.
Inoltre, almeno un pò, ma magari qualcuno dirà che non è decisivo ed è vero, dobbiamo "assaggiare" problemi connessi alle varie età della vita, alle varie stagioni delle esperienze professionali, amorose, etc. A qualcuno poi andrà particolarmente male e si troverà a dover far fronte a disgrazie più o meno grandi.
Ci sono, è vero, rari momenti di gioia e una buona parte dell'esperienza vitale a cavallo tra la serenità, la noia e, più verosimilmente, una stagione, probabilmente quella quantitativamente più rilevante, di vita....come dire.....diciamo "normale". La mia professoressa delle superiori avrebbe definito tale periodo con "senza lode e senza infamia".
Ecco difendere la bellezza di tutto questo, la poesia, il valore inestimabile di tutto questo a me, sbaglierò, ma lascia l'amaro in bocca. Quel sapore acre che qualcuno più antipatico del sottoscritto chiamerebbe auto convincimento.
Non so......io penso che se gioco la partita cerco il bersaglio grosso, cerco di vincere il premio che veramente m'interessa, che mi entusiasma. Altrimenti, vabbè, per carità si gioca lo stesso e si cerca di portare a casa più punti possibili, ma........definire tutto questo come meraviglioso.....boh....a me sembra un accontentarsi. Legittimo, dignitoso, comprensibile ma tutta 'sta poesia nella vita, se non è insaporita da un ideale di quelli grossi, travolgenti, tutta 'sta poesia dicevo, non la vedo. No, non la vedo proprio.
Ma forse è un problema mio. Ricordo la mamma di un mio amico, di origini contadine (scarpe grosse e cervello fine si dice dei contadini!) che diceva della nostra compagnia di amici: "voialtri siete gente che non si accontenta!"
Purtroppo o per fortuna non mi è ancora dato sapere ma so che.....aveva ragione!
Citazione di: sgiombo il 23 Febbraio 2019, 11:34:31 AM
2 Si vive per essere felici o si é felici (pur) di vivere (comunque, in qualsiasi condizione)?
Si vive per vivere. La felicità è una conquista quotidiana. La felicità, come la verità, è plurale. Ogni contesto esistenziale, ogni esperienza vissuta, lunga o breve che sia, ha il suo contenuto di verità/felicità e falsità/infelicità. Quest'ultima potrebbe intendersi anche come errore.
Anche l'operari ha la sua dose di verità, che si vede nel risultato; e felicità nella soddisfazione che ne deriva. Buona abitudine, in tempi incatenati, tenere distinti mentalmente l'operari per un padrone o per soddisfazione personale.
La felicità è plurale: sommatoria di momenti in cui ci siamo sentiti all'altezza delle situazioni che la vita ci ha parato davanti. Alla vita non credo si possa chiedere di più. Ci offre il palcoscenico, spesso meraviglioso come il tramonto di questa sera, e tanto basta.
@Freedom: Io ritengo di amare la vita e ciò che essa mi dà, anche tu potresti tentare di farlo. Potresti ad esempio cercare di vedere anche nelle persone che meno stimi, che ti sembrano o che ti sono ostili degli aspetti positivi, un qualcosa che possa rivalutarle ai tuoi occhi. Potresti cercare di non odiare nessuno, di non giudicare, di perdonare se ricevi un qualche torto, facendo magari tu il primo passo per riconciliarti. Già questo ti porterà ad essere più sereno e ad eliminare pensieri negativi, sentimenti di vendetta, disprezzo, rancore che causano sofferenza. Resta poi il problema della malattia e della morte, molto più difficile da risolvere se non si ha fiducia in una realtà trascendente, ma pensa se ad esempio vivevi anche solo cinquant'anni fa, quando tante malattie non potevano essere curate e guarite, quando c'era molta più povertà e persino miseria, già questo dovrebbe farti considerare la tua esistenza e il periodo in cui vivi come un privilegio rispetto a chi si è dovuto barcamenare in condizioni peggiori.
Mi sembra che praticamente tutti gli intervenuti tranne Socrate78 (per il quale, da credente, per così dire, "Dio garantisce della desiderabilità della vita a prescindere"; almeno questa é l' impressione che mi ha fatto il suo primo intervento; ma se ho dimenticato qualcuno chiedo scusa) siano agnostici o atei (comunque per lo meno non credenti in religioni "in senso forte", inequivocabilmente teistiche; diciamo così, per intenderci: non "tipo cristianesimo"; al massimo "tipo buddismo").
E da parte di questi ultimi mi sembra di notare (ma potrei sbagliare: correggetemi se é il caso) una certa ritrosia ad ammettere che le vita "vale la pena di essere vissuta" solo se (e fintanto che) dà per lo meno complessivamente più felicità che infelicità.
Cioé che si vive per essere felici (e non che si vive ad ogni costo; anche al costo di un complessivo prevalere dell' infelicità rispetto alla felicità.
Quella che ho chiamato forse impropriamente "una certa reticenza" consiste nel fatto che non mi pare lo si affermi esplicitamente, mettendo anche chiaramente in conto l' ipotesi (per quanto auspicabilmente non realistica) dell' "infelicità complessivamente prevalente", che renderebbe per chi vi si venisse a trovare la preferibilità della morte (e ad essere conseguenti del suicidio; o dell' eutanasia).
Piuttosto si tende a rilevare che si é felici (per lo meno in misura nettamente prevalente) e senza vivere non lo si sarebbe; ma senza esplicitare il fatto a mio parere logicamente conseguente che allora probabilmente se non lo si fosse (o per chi purtroppo non lo fosse) sarebbe meglio non vivere.
Spero di non urtare la suscettibilità di nessuno, e sono comunque pronto ad essere smentito e a dare pieno credito alle affermazioni che ciascuno facesse circa se stesso), ma mi viene il dubbio che possa essere per una persistente tendenza, sia pur "latente" (se avessi un minimo di simpatia per la parole direi "inconscia"), a considerare piuttosto negativamente o almeno a "vedere con sospetto" il suicidio e l' eutanasia, possibile conseguenza (credo indesiderata) di un' atavica concezione cristiana largamente preponderante almeno fino a un recente passato nel nostro paese.
Non so se dal mio punto di vista si possa parlare di un retaggio culturale, che pensavo magari ingenuamente di aver deprogrammato. Infatti fino a non tanto tempo fa avrei argomentato in maniera simile alla tua. Oggi invece direi che ciò che più mi affascina della vita e le sue forme è la sua resilienza, la sua ostinatezza, il suo continuo essere orientata verso il sole, verso l'alto. Ancor di più quando essa è ostacolata vividamenta dalla morte, lo vedo nei vegetali, lo vedo negli animali, lo vedo nei funghi, lo vedo persino negli inerti, e lo vedo sopratutto negli esseri umani. Non tutti abbiamo la tempra di Alex Honnold, un uomo capace di scalare a mani nude tre kilometri di roccia in verticale, ma la bella notizia è che geneticamente siamo fatti della stessa pasta, e come lui crediamo che il senso della vita sia scalare verso il sole.
Ma siccome anche il suicidio è una decisione che si prende da vivi, mentre ci arrampichiamo, e non certo da morti, ognuno lasci la testimonianza che crede su questa grande parete universale? Di ciò di cui non si può parlare è meglio tacere, e il suicidio degli altri è sicuramente una di queste cose..
Citazione di: Socrate78 il 26 Febbraio 2019, 19:26:45 PM
@Freedom: Io ritengo di amare la vita e ciò che essa mi dà, anche tu potresti tentare di farlo. Potresti ad esempio cercare di vedere anche nelle persone che meno stimi, che ti sembrano o che ti sono ostili degli aspetti positivi, un qualcosa che possa rivalutarle ai tuoi occhi. Potresti cercare di non odiare nessuno, di non giudicare, di perdonare se ricevi un qualche torto, facendo magari tu il primo passo per riconciliarti. Già questo ti porterà ad essere più sereno e ad eliminare pensieri negativi, sentimenti di vendetta, disprezzo, rancore che causano sofferenza. Resta poi il problema della malattia e della morte, molto più difficile da risolvere se non si ha fiducia in una realtà trascendente, ma pensa se ad esempio vivevi anche solo cinquant'anni fa, quando tante malattie non potevano essere curate e guarite, quando c'era molta più povertà e persino miseria, già questo dovrebbe farti considerare la tua esistenza e il periodo in cui vivi come un privilegio rispetto a chi si è dovuto barcamenare in condizioni peggiori.
Non stai rispondendo a quello che ho scritto ma a ciò che le mie parole evocano in te. Prova a rileggere e rileverai che non ho detto di non amare la vita tout court. Non ho nemmeno affermato di odiare chicchessia, di giudicare qualcuno, di non essere in grado di perdonare, etc. Penso e ho scritto altre cose.
Citazione di: sgiombo il 23 Febbraio 2019, 15:53:46 PMP-S.: Anche a Freedom (come nel caso di Ipazia, risponde nel modo che mi sarei aspettato da un ateo; ma mi viene il dubbio che si sia detto credente in precedenti interventi; in questo caso credente cosiddetto "opportunista"; absit iniuria verbis).
Scusa, lo vedo solo adesso.
Non ho capito perchè dici che ho risposto nel modo che ti saresti aspettato da un ateo. Puoi spiegare per favore? Ti riferisci alla prima o alla seconda domanda?
Citazione di: sgiombo il 23 Febbraio 2019, 11:34:31 AM
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2 Si vive per essere felici o si é felici (pur) di vivere (comunque, in qualsiasi condizione)?
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Ciao Sgiombo, data per scontata la risposta nella prima parte la domanda sorge spontanea, cos'è la felicità? La felicità è una sensazione interiore che noi viviamo dentro in maniera più o meno forte, e che ci spinge a cercare quelle cose o persone che ci danno felicità, in tal senso l'affermazione che si vive per essere felici è tautologica.
Vi è poi un'altra interpretazione della felicità, diciamo più razionale, oggettiva, che può essere definita come soddisfazione socialmente riconosciuta per una certa condizione, per la quale uno "si sente" felice perché magari ha un "buon" lavoro, una "buona" famiglia, tanti amici con cui uscire. Il virgolettato serve a specificare che queste sono valutazioni sociali, che magari l'individuo interiormente non condivide, ma che sostiene perché condizionato dal mondo esterno. Io direi che questa seconda interpretazione potrebbe essere applicata alla seconda parte della domanda, perché un individuo che si forza di "essere" felice lo fa proprio perché reputa che questo comporterà per lui una migliore accettazione sociale da parte degli altri.
Un saluto
Citazione di: sgiombo il 26 Febbraio 2019, 20:21:00 PM
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E da parte di questi ultimi mi sembra di notare (ma potrei sbagliare: correggetemi se é il caso) una certa ritrosia ad ammettere che le vita "vale la pena di essere vissuta" solo se (e fintanto che) dà per lo meno complessivamente più felicità che infelicità.
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Sgiombo, a me sembra che con questa definizione sei fuori dalla domanda originaria.
Una cosa è domandarsi se si vive per essere felici, e cioè cercando il più possibile di costruire la propria felicità, altra cosa è porre una domanda di valore sulla vita stessa, che poi bisogna capire da quale punto di osservazione proviene, con quali pesi assegnati ai singoli accidenti della vita, e con la considerazione che la vita è un evento in gran parte incerto che garantisce la possibilità (ma non la certezza) di fare bilanci soltanto a posteriori, cioè soltanto dopo che l'hai vissuta.
Un saluto, e un augurio di essere felice.
Citazione di: Freedom il 27 Febbraio 2019, 00:06:42 AM
Scusa, lo vedo solo adesso.
Non ho capito perchè dici che ho risposto nel modo che ti saresti aspettato da un ateo. Puoi spiegare per favore? Ti riferisci alla prima o alla seconda domanda?
Perché affermi che
"
Per la risposta sulla felicità: si vive per essere felici. E' lapalissiano!"Che é precisamente quello che mi aspetto da un ateo per il quale non c' é alcun dovere di vivere a prescindere dalla felicità, comunque sia la vita per il fatto che l' ha fatta (o ce l' ha data) una divinità infallibile e comunque onnipotente, cui non é possibile disobbedire se non a carissimo (anzi: infinito) prezzo.E dunque si accetta di di vere solo se "ne vale la pena", se se ne é "complessivamente felici", ovvero se ne trae più felicità che infelicità.Ma piuttosto a me piacerebbe sapere se credente lo sei effettivamente o no (il "come" eventualmente nei limiti del possibile propri di una discussione come questa). Ad InVernoChiederei se possibile di spiegare meglio la metafora della scalata (con le metafore non sono mai andato molto d' accordo, quasi come con i computer), che trovo un po' criptica, in relazione all' affermata "ostinatezza a persistere, perpetuarsi e/o svilupparsi della vita" (noto in proposito che la vita umana ha una peculiarità unicamente sua rispetto a quella di tutte le altre specie: quella di potersi "autorifiutare" col suicidio).
Citazione di: anthonyi il 27 Febbraio 2019, 07:52:44 AM
Ciao Sgiombo, data per scontata la risposta nella prima parte la domanda sorge spontanea, cos'è la felicità? La felicità è una sensazione interiore che noi viviamo dentro in maniera più o meno forte, e che ci spinge a cercare quelle cose o persone che ci danno felicità, in tal senso l'affermazione che si vive per essere felici è tautologica.
La felicità è una sensazione interiore che noi viviamo dentro in maniera più o meno forte, e che ci spinge a cercare quelle cose o persone che ci danno felicità
Citazione
A me tautologica sembra piuttosto con tutta evidenza l' affermazione che "La felicità è una sensazione interiore che noi viviamo dentro in maniera più o meno forte, e che ci spinge a cercare quelle cose o persone che ci danno felicità", dal momento che contiene i concetto da definire come già dato con un suo preteso significato (contiene come preteso definiens il definiendum).
L' affermazione che si vive per essere felice mi sembra casomai scontata, ma solo per chi non creda di avere "doveri a prescindere" verso entità a lui superiori e di cui sia in balia (oppure di cui si possa fidare ciecamente che eventuali anche enormi infelicità presenti verranno di sicuro lautamente compensate in futuro: paradiso).
In sostanza vedo certo estremamente drammatico ma non irragionevole il suicidio di un non credente, mentre il suicidio di un credente (a meno che giunga al punto tale di negare la propria fede, e dunque di non essere più tale) mi sembra un' assurdità: se c' é una divinità immensamente buona che ha creato (e in particolare ci ha dato) la vita, allora distruggere ciò che ha fatto é immensamente cattivo, da non farsi per alcun motivo se ci si vuole comportare bene (anche a prescindere dal fatto che tale divinità commina pene infinite, letteralmente "infernali" a chi, suicidandosi, contravviene i suoi ordini).
https://www.youtube.com/watch?v=LPKSubavxtE
Notare il fatto che l' autore di questo splendido capolavoro che letteralmente strappa le lacrime dagli occhi non era credente (per lo meno "ortodossamente tale"); altrimenti credo che non avrebbe mai potuto scriverlo).
Vi è poi un'altra interpretazione della felicità, diciamo più razionale, oggettiva, che può essere definita come soddisfazione socialmente riconosciuta per una certa condizione, per la quale uno "si sente" felice perché magari ha un "buon" lavoro, una "buona" famiglia, tanti amici con cui uscire. Il virgolettato serve a specificare che queste sono valutazioni sociali, che magari l'individuo interiormente non condivide, ma che sostiene perché condizionato dal mondo esterno. Io direi che questa seconda interpretazione potrebbe essere applicata alla seconda parte della domanda, perché un individuo che si forza di "essere" felice lo fa proprio perché reputa che questo comporterà per lui una migliore accettazione sociale da parte degli altri.
Un saluto
Citazione
Mi sembra che questo discorso possa filare solo per chi desideri fortissimamente un "riconoscimento sociale" e dunque avendone soddisfazione sia felice (ma non tutti necessariamente avvertono una tale aspirazione).
Ciao.
Citazione di: anthonyi il 27 Febbraio 2019, 08:05:10 AM
Sgiombo, a me sembra che con questa definizione sei fuori dalla domanda originaria.
Una cosa è domandarsi se si vive per essere felici, e cioè cercando il più possibile di costruire la propria felicità, altra cosa è porre una domanda di valore sulla vita stessa, che poi bisogna capire da quale punto di osservazione proviene, con quali pesi assegnati ai singoli accidenti della vita, e con la considerazione che la vita è un evento in gran parte incerto che garantisce la possibilità (ma non la certezza) di fare bilanci soltanto a posteriori, cioè soltanto dopo che l'hai vissuta.
Un saluto, e un augurio di essere felice.
Grazie dell' augurio!
Che ricambio di cuore.
Per fortuna finora lo sono (posso ovviamente valutare il passato e il presente, essendo il futuro incerto come affermi anche tu).
Ma proprio perché non sono sicuro che lo sarò sempre (fin che camperò, ovviamente), mi riservo il "diritto" di togliermi la vita qualora non lo fossi più.
Se per me (credo contrariamente che a un credente) la vita ha valore solo se complessivamente felice e non "a prescindere", non "in sé e per sé", come che sia, allora se a un certo punto mi accorgessi che non vale la pena di viverla mi riserverei di non viverla più.
Non è una pecularità umana, è certamente molto più comune tra gli uomini, ma esistono comportamenti assimilabili al suicidio anche negli altri regni, ovviamente si può sempre distinguere dall'autocoscienza e le implicazioni del caso, ma non mi pare di vedere tra uomo e animale e un vero e proprio salto qualitativo ma uno quantitativo. D'altro lato gli esseri umani sembrano incapaci di alcune forme "di suicidio" che invece accadono nel mondo animale, come per quanto vale per i superorganismi (alveari, formicai etc) che sembrano capaci (e molto spesso non conosciamo le cause) di terminare l'esistenza anche a livello "sociale" come quando queste colonie effettivamente collassano da un giorno all'altro. Anche gli esseri umani hanno dato prova di sapere attuare suicidi di massa, ma in questo caso sembra una tendenza preminente del mondo animale e dei superorganismi. Direi quindi che a proposito lascierei delle linee di demarcazione meno nette di quanto fai tu, in attesa che il "vero suicidio" venga definito per poter contare chi vi effettivamente partecipa.
La metafora della scalata ha tante sfacettature, non a caso la "scala" è stato un simbolo molto importante di alcune tradizioni mistiche\simbolico\esoteriche. Io probabibilmente sono l'ultimo a doverne parlare (soffro di vertigini) ma in generale penso che la propria soddisfazione nella vita, e l'eventuale decisione di porvi termine quando il "negativo dovesse prevalere sul positivo" dipende innanzitutto da come si intende la vita stessa nel suo divenire. Se la si intende come una parete verticale da scalare, ogni appiglio, con le unghie e con i denti, ha un valore tale una volta raggiunto e consolidata la propria posizione, che l'idea di lasciarsi andare nel vuoto pare insensata. Se invece, per opposto estremo, si intendesse la vita come uno scivolo verso il basso (cosa che non attribuisco a nessuno in particolare, ma ritengo una tendenza in essere nella nostra cultura, per via di una sempre più comune considerazione edonistica - in senso moderno non filosifico - della vita) allora il valore risiederebbe premimentemente nel raggiungere più velocemente possibile il suolo, anche buttandosi di sotto.
D'altro canto, sempre per parafrasare Wittgenstein (in questi periodi sono in vena) ad un certo punto la scala "va buttata via", e forse una volta in cima alla parete, non si può fare altro che scendere, checchè ne sia il motivo. Se qualcuno mi dicesse che sente di aver terminato la propria scalata, e che non esiste nessun altra mossa possibile a questo punto, che buttarsi di sotto, non saprei effettivamente che obbiettare. Ma questa valutazione mi pare estremamente complessa da fare, anzi dal punto di vista logico praticamente impossibile, in quanto la vetta effettivamente esiste solo nella mente di chi la delimita e nessuno la raggiunge mai davvero.
Si può vivere anche per un altro motivo che non quello di essere felici: quello di far felice l'altro. Se osserviamo la nostra esistenza solo dal nostro punto di vista, e non ci vediamo come esseri in relazione e interdipendenti ,sembra esserci, a mio parere, una sorta di 'manicheismo' di fondo. La vita è bella finchè il godimento supera la sofferenza, dopodiché impugno l'arma quando la sofferenza personale supera il godimento. Ma la sofferenza dell'altro? Di colui che mi sta accanto? Posso pensare che , nonostante la mia vita mi sembri complessivamente ignobile, l'altro che mi sta accanto senta invece la mia presenza, che percepisco personalmente ormai poco sopportabile, come nobile o addirittura come una fonte di gioia, forza, sicurezza e fiducia? E' egoismo il suo, aver cioè bisogno della mia presenza per sopportare la sua di sofferenza? E come posso "impugnare l'arma" sapendo che questo gesto causerà in colui che mi sta accanto, vicino al cuore sofferente per così dire, ancor più dolore, financo da spingere lui stesso a disperarsi?...Gran parte del nostro modo distorto di vedere la vita nasce proprio, secondo me, da questa totale mancanza del senso di interdipendenza. Ci vediamo come monadi assolute che 'brandiscono' il bastone verso l'altro o verso se stessi...verso l'altro quando lo percepiamo come un ostacolo alla nostra supposta e non ben chiara, nemmeno a noi stessi, "felicità" e verso noi stessi quando invece percepiamo la nostra stessa vita (magari sofferente) come un ostacolo a continuare la speranza del miraggio della felicità.
Quante volte invece, proprio nella sofferenza, sentiamo il bisogno dell'altro. Allora sì che ci vediamo come esseri interdipendenti, come veramente siamo. E quanto soffriamo se questa presenza ci viene negata, perché l'altro deve inseguire il suo 'miraggio' di essere felice e la mia sofferenza gli è d'ostacolo...
L'autentica infelicità non è forse proprio la mancanza dell'altro? Ancor più dolorosa quando l'altro ci sta persino accanto, vive con noi, e non si accorge del nostro bisogno di lui?...
Citazione di: sgiombo il 27 Febbraio 2019, 08:40:29 AM
Perché affermi che
"Per la risposta sulla felicità: si vive per essere felici. E' lapalissiano!"
Che é precisamente quello che mi aspetto da un ateo per il quale non c' é alcun dovere di vivere a prescindere dalla felicità, comunque sia la vita per il fatto che l' ha fatta (o ce l' ha data) una divinità infallibile e comunque onnipotente, cui non é possibile disobbedire se non a carissimo (anzi: infinito) prezzo.
E dunque si accetta di di vere solo se "ne vale la pena", se se ne é "complessivamente felici", ovvero se ne trae più felicità che infelicità.
Ma piuttosto a me piacerebbe sapere se credente lo sei effettivamente o no (il "come" eventualmente nei limiti del possibile propri di una discussione come questa).
La mia risposta è, spero di non peccare di superbia, la quintessenza del cristianesimo. Lo è nella sua interezza ma, anche la sola frase che hai citato, è un inno vero e proprio all'essere cristiano. Se vuoi possiamo approfondire, a me farebbe piacere.
Per quanto invece concerne le deduzioni logiche che ne fai conseguire non sono d'accordo ma, a me pare, che non fossero insite nelle due domande che hai posto. E, oltre a non essere d'accordo nella sostanza non sono nemmeno d'accordo sul fatto che siano conseguenze logiche corrette. O meglio, possono sì essere logiche ma non inevitabili. Soggettive direi.
Mi riferisco "
E dunque si accetta di vivere solo se "ne vale la pena", se se ne é "complessivamente felici", ovvero se ne trae più felicità che infelicità". Io accetto di vivere sempre e comunque, (nella normalità della vita, comprese esperienze tutt'altro che piacevoli, discorso a parte farei rispetto ad una gravissima, dolorosissima e mortale malattia, tipo Welby per intenderci) ma sempre e comunque nella prospettiva della ricerca della felicità.
Poi, un'altra deduzione logica che fai discendere, è quella dell'ammissibilità o meno del suicidio e, in ogni caso, non l'hai detto espressamente ma sicuramente ce l'hai in animo, della legittimità dell'eutanasia. Anche queste conclusioni non sono, a mio avviso, logiche conseguenze delle domande in oggetto, ma, opinioni legittime e forse, anche condivisibili.
Per quanto concerne dunque il suicidio e l'eutanasia non mi tiro indietro rispetto a questi scottanti temi. Mi permetto solo di rilevare che sembrerebbero un pò Off Topic e, se ne ravvisi il desiderio, puoi aprire Thread dedicati. Ai quali, lo dico sin da subito, non mancherò di partecipare con entusiasmo.
Credo infine di aver risposto alla tua domanda e cioè se sono cristiano o meno. Non fosse così lo dico chiarissimamente: nonostante uno spirito molto critico verso la chiesa cattolica, nonostante alcune posizioni che a qualcuno potrebbero far venire l'orticaria e farlo gridare "dagli all'eretico!", nonostante tutto questo sì, sono cristiano.
D'altra parte, non lo dico io, l'universo cristiano è di una vastità sorprendente. E di una ricchezza sorprendente aggiungo io.
Il problema, quando si affronta questo tema, è che si guarda solo al famoso albero che cade e non alla foresta che cresce. Ma questo è un altro discorso. Che, se vogliamo affrontare, sono disponibile. :)
Il suicidio è un atto estremo di libero arbitrio caro Sgiombo ;) . La sua essenza, che rimane come resto indelebile, detratti tutti i vincoli deterministici che condizionano tale scelta. Una scelta che credo spetti solo al detentore di quel bene assoluto incontrovertibile che è la sua vita per ogni vivente nel momento in cui quel bene non fosse più sentito tale dal suo legittimo detentore. Ma è comunque una scelta particolare, estrema, che confligge con l'istinto ben più potente della conservazione in vita, di fronte al quale le alternative al suicidio, rimosse le condizioni pescecanine della reale condizione sociologica umana, sono varie e molteplici. Natura permettendo. Perchè alla fine anche la migliore delle società umane i miracoli non li può fare.
Da un punto di vista ateo il valore supremo vita umana viene riconosciuto, analizzato e sostenuto fin dai tempi di Epicuro che fornisce a tal proposito supporti etici importanti, tanto da essere riconosciuti perfino dai credenti intellettualmente onesti. Uno snodo della riflessione tocca al bis-scomunicato Spinoza che nel "Deus sive Natura" rimanda alla natura il senso della vita. Senso della vita che porterà l'ateismo filosofico all'amor fati nicciano, ovvero alla meno caduca teorizzazione di FN, chiudendo il cerchio aperto da Epicuro.
(senza dimenticare, sia chiaro, l'apporto etico dell'umanesimo marxista e dei vari illuminismi)
Quindi direi che noi atei non abbiamo bisogno di scheletri cristiani nascosti nell'armadio per trovare da noi il senso e valore della vita, di cui la morte è inevitabile accidente posto dalla natura e il suicidio una facoltà marginale a cui ricorrere se qualcosa va irrimediabilmente storto.
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Citazione di: Sariputra il 27 Febbraio 2019, 10:55:35 AME' egoismo il suo, aver cioè bisogno della mia presenza per sopportare la sua di sofferenza? E come posso "impugnare l'arma" sapendo che questo gesto causerà in colui che mi sta accanto, vicino al cuore sofferente per così dire, ancor più dolore, financo da spingere lui stesso a disperarsi?...Gran parte del nostro modo distorto di vedere la vita nasce proprio, secondo me, da questa totale mancanza del senso di interdipendenza. Ci vediamo come monadi assolute che 'brandiscono' il bastone verso l'altro o verso se stessi...verso l'altro quando lo percepiamo come un ostacolo alla nostra supposta e non ben chiara, nemmeno a noi stessi, "felicità" e verso noi stessi quando invece percepiamo la nostra stessa vita (magari sofferente) come un ostacolo a continuare la speranza del miraggio della felicità.
La cosa interessante di questa tua metafora, visto che Ipazia parlava di homo ludens, è che almeno ipoteticamente (la certezza è impossibile) si può dire che il bastone sia la prima effettiva "invenzione" umana, il primo "gioco" di homo ludens. La seconda invece, si è ipotizzato sia invece la corda (ovviamente non intesa in senso moderno).L'utilizzo concettuale di questi due giochi è assolutamente diverso, uno viene brandito per dividere e colpire, l'altra viene impugnata per unire, per rendere interdipendenti. In questo senso possiamo riconoscere in tante attività umane (ma anche filosofie) delle propaggini di bastoni e corde, alcune sono effettivamente costruite con lo scopo di dividere e altre di unire. Ma come accade nella realtà fisica, entrambi sono strumenti utili per sopravvivere e su cui il nostro cervello è impalcato, in maniera metaforicamente simile ad una struttura composta di bastoni intrecciati da corde. Per questo non sono convinto che ragionare completamente in termini di interdipendenza possa essere una soluzione totalmente adeguata ai nostri bisogni, quanto un estremo a cui un individuo può ricorrere. Di certo l'attività spirituale è LA Corda per eccellenza, la Religatura che meglio ci rende coscienti della interdipendenza. Ma rimane in fondo a me (eviterò di proposito di affermare "di tutti noi") una dimensione personale e individuale che non si può annulare semplicemente guardando le cose da un angolo più ampio e\o cosmico. Se non ci fosse un senso non-interdipendente, come potremmo affermare di esistere? E nessuno di noi è disposto ad accettare di non esistere..anche perchè ciò equivarrebbe ad un vero e proprio suicidio spirituale.
cit.:Se non ci fosse un senso non-interdipendente, come potremmo affermare di esistere? E nessuno di noi è disposto ad accettare di non esistere..anche perchè ciò equivarrebbe ad un vero e proprio suicidio spirituale.
Esisteremmo ovviamente, ma in senso interdipendente. E' comunque così forte il senso dell'"Io sono colui che gode" nell'uomo che non è un 'pericolo' imminente (tutt'altro...) ;D ;D
Non lo vedrei proprio come un 'suicidio spirituale' , anzi...una rottura della dualità...
cit.InVerno:La cosa interessante di questa tua metafora, visto che Ipazia parlava di homo ludens, è che almeno ipoteticamente (la certezza è impossibile) si può dire che il bastone sia la prima effettiva "invenzione" umana, il primo "gioco" di homo ludens.
"Dal bastone brandito nasce la paura,guarda la gente che fa vittime:
Io voglio narrare la commozione, come è stata da me sperimentata.
Vedendo la gente brulicare, come pesci in poca acqua,
Vedendo l'uno ostacolare l'altro, un terrore mi è sorto." :(
Buddha-Attadanda sutta (il discorso sull'uso del "bastone")
Citazione di: Sariputra il 27 Febbraio 2019, 12:12:17 PM
cit.:Se non ci fosse un senso non-interdipendente, come potremmo affermare di esistere? E nessuno di noi è disposto ad accettare di non esistere..anche perchè ciò equivarrebbe ad un vero e proprio suicidio spirituale.
Esisteremmo ovviamente, ma in senso interdipendente. E' comunque così forte il senso dell'"Io sono colui che gode" nell'uomo che non è un 'pericolo' imminente (tutt'altro...) ;D ;D
Non lo vedrei proprio come un 'suicidio spirituale' , anzi...una rottura della dualità...
Se rompendo la dualità quel che viene a mancare è il tuo senso del sé, il tuo Essere nel Tempo, non c'è nessuno ad esperire questa rottura Se viene a mancare il senso di sé non c'è preposizione che tenga..Così come nessuno "muore" davvero, e nessuno può aver esperito la morte, come puoi dire che continueremmo ad esistere "non dualmente"? Qualche dottrina potrebbe aver lavorato a sufficienza sul problema da averlo addirittura ridotto ad un "problema per principianti" ma a me pare più che altro il principio di tutti i problemi.
X InVerno
Non vedo in quale altra specie vivente vi sia chi si tolga la vita deliberatamente (ma il libero arbitro non c' entra per nulla, cara Ipazia: può benissimo darsi che nell' uomo ciò accada deterministicamente! E se non accade deterministicamente, allora la conoscenza possibile del mondo materiale del quale ' uomo fa parte non é possibile).
Al massimo fra gli altri animali c' é chi, in preda alla depressione, smette di alimentarsi e magari di bere e conseguentemente muore; ma non decide (sia che l' uomo faccia questo liberoarbitrariamente oppure deterministicamente) di morire, semplicemente non prova più appetito e sete in quanto troppo oppresso dal dolore (mi aspetto le solite agguerrite e forse offese obiezioni di chi ha avuto o ha animali domestici ai quali é affezionatissimo, come me, e inoltre contrariamente a me pretende di attribuire loro caratteristiche umane; e preannuncio in proposito il mio dissenso, così da non doverlo manifestare a posteriori).
In particolare non credo proprio sia minimamente plausibile l' ipotesi dell' esistenza di una coscienza collettiva dell' alveare nell' ambito della quale é emersa la decisione di "suicidarsi" (né che ciò accada a livello di ciascuna coscienza individuale di ogni ape dell' alveare stesso).
Fra l' altro con che mezzi si darebbero la morte?
Non credo in alcun modo attivo.
A questo proposito (di autocoscienza e di decisione se continuare a vivere o finire di farlo attivamente, "di propria mano") la differenza fra uomo e altri animali mi sembra nettissima (e il concetto di "suicidio" di una chiarezza cristallina).
Purtroppo, malgrado il tuo encomiabile tentativo di spiegarmela, la metafora della scalata (o della discesa) mi é ancora più oscura di prima (credo che avrei bisogno di una "traduzione" dalla metafora in linguaggio letterale, non di ulteriori orpelli o sviluppi metaforici, che nel mio caso (nel tentativo fi farmi comprendere) tendono ad essere controproducenti.
X Sariputra
D' accordo; non mi era venuto in mente, ma per chi sia particolarmente altruista e generoso la felicità degli altri può essere un motivo per vivere.
Fra l' altro l' agire in questo senso (o anche solo il tentarlo, il fare il possibile per ottenerlo), per chi sia talmente generoso, costituisce la soddisfazione di un profondo e forte desiderio o aspirazione, e dunque anche un motivo di appagamento, ovvero di contentezza, di felicità: come giustamente dicevano gli Stoici, la virtù é premio a se stessa.
Io stesso (ne avevo anche accennato nel forum) circa un anno fa, essendo uscito da un' influenza che, data la mia età, mi aveva fatto correre il serio rischio di morire, mi ero reso conto che i miei doveri verso chi mi é vicino e mi vuole bene mi impedirebbero di suicidarmi (a meno che non si trattasse di eutanasia volta ad evitare dolori assolutamente soverchianti e non minimamente compensati da soddisfazione alcuna, nel qual caso credo cha anche i miei cari, che mi vogliono bene, desidererebbero la fine di tale mia condizione, anche a costo di perdere ma mia presenza; sarebbero egoisti, se così non facessero).
X Freedom
Veramente a me (che ne ho discreta conoscenza essendo nato in un famiglia cristiana praticante che me lo ha insegnato con impegno ed amore, ed essendo stato convinto cristiano praticante io stesso fino all' età di quindici anni) pare che non sia affatto cristiano vivere alla condizione di essere felice (e dunque, del tutto conseguentemente togliersi la vita se non lo si é); ma casomai accettare qualsiasi cosa la vita "terrena" comporti, fossero anche i peggiori tormenti, essendo tutto ciò volontà divina, fra l' altro destinato ad essere lautamente compensato nell' aldilà.
Il tuo dissenso dalla chiesa cattolica, il tuo essere eretico mi sono a questo punto ben chiari.
Ma mi sembra coerente la posizione cattolica ufficiale e contraddittoria la tua (se credi comunque che Dio sia infinitamente buono e onnipotente).
Mi sembra che tu confonda felicità o infelicità complessiva della propria vita con felicità o infelicità relativa, momentanea: é ovvio che nessuna persona dotata di buon senso si toglierebbe la vita per una mezzoretta o anche per un giorno o una settimana di dolore fisico o di pena psichica se avesse davanti a sé la prospettiva futura di una vita soddisfacente.
Non così una persona non credente che sapesse di essere affetta da un male incurabile tale da procurargli incessanti sofferenze fisiche e magari anche psichiche per tutto quel poco che gli concedesse di vivere!
E sono propenso a sospettare che in tali circostanze anche qualche credente cercherebbe qualche modo ipocrita di dissimulare un' eutanasia se potesse.
Casi come una gravissima, dolorosissima e mortale malattia, tipo Welby sono proprio per l' appunto la questione che ho inteso sollevare: che chi é felice o anche ha sufficienti speranze e sufficiente ottimismo circa auspicabili motivi di felicità futuri si guardi bene dal suicidarsi mi sembra qualcosa di molto banalmente ovvio.
Per chi non sia credente e si trovasse affetto da un male incurabile tale da procurargli incessanti sofferenze fisiche e magari anche psichiche per tutto quel poco che gli concedesse di vivere quella di procurarsi l' eutanasia sarebbe la conclusione più ovvia e certa, la più "logica" di qualsiasi ragionamento circa la propria esistenza.
E vietarglielo o impedirglielo sarebbe quanto di più abbietto e crudele e malvagio potrebbe darsi, qualcosa di degno del Santo Uffizio!
Dove si parla di compatibilità della sopravvivenza in vita a costo dell' infelicità o meno la questione dell' eutanasia mi sembra "perfettamente in tema".
X Ipazia
Il fatto é che purtroppo ci sono anche casi nei quali "la natura", tenuto anche conto che "alla fine anche la migliore delle società umane i miracoli non li può fare" non consente alcuna "varia e molteplice le alternativa al suicidio".
Concordo ovviamente su Epicuro e Spinoza, sull' illuminismo e sul marxismo, altrettanto ovviamente per niente affatto su Nietzche.
(Sul libero arbitrio vedi sopra quanto obietto a InVerno).
L'animale che si lascia morire dopo la morte del padrone non lo fa per amore, ma soltanto perché si rende conto confusamente che non potrà vivere senza quella figura che egli considera il capobranco. La morte del padrone è quindi per lui una rovina, perché senza di lui non avrà cibo, cure, sicurezza. Si tratta di servilismo, opportunismo animale, dipendenza, ma non amore. L'"amore" del cane verso il padrone è solo un affidarsi ad una figura che gli serve per vivere, per sostentarsi e da cui riceve in cambio sicurezza e anche gratificazioni, ma non c'è amore in quanto egli lo fa per un tornaconto preciso, per la propria sicurezza e incolumità. Ma se l'animale, per ipotesi, dovesse per qualche motivo (anche da semplici gesti, sensazioni, ecc.) iniziare a percepire che il padrone non gli è più utile per la sicurezza, per il piacere e che anzi rappresenta una minaccia, ecco che anche tutto l'amore apparente va a farsi benedire e magari il cane finirà per aggredire senza apparente motivo il padrone percepito come una minaccia e non più come una guida. L'animale quindi non è in grado di superare gli istinti di conservazione (di sé e della specie) per elevarsi ad una forma di amore più puro, è determinato dalla materia e proprio per questo non potrà mai decidere intenzionalmente di uccidersi, il suicidio ironicamente è proprio un indizio molto lampante secondo me del fatto che solo l'uomo è dotato di un'anima e del libero arbitrio, infatti con questo gesto tragico dimostra di poter spezzare il determinismo dell'istinto di conservazione.
Citazione di: sgiombo il 27 Febbraio 2019, 20:04:46 PM
Non vedo in quale altra specie vivente vi sia chi si tolga la vita deliberatamente (ma il libero arbitro non c' entra per nulla, cara Ipazia: può benissimo darsi che nell' uomo ciò accada deterministicamente! E se non accade deterministicamente, allora la conoscenza possibile del mondo materiale del quale l' uomo fa parte non é possibile).
E' possibile una conoscenza filosofica dell'uomo nella cui fenomenologia ci sta pure la libertà, cara ad entrambi, di decidere della propria vita e della propria morte.
Citazione di: sgiombo il 27 Febbraio 2019, 20:04:46 PM
Veramente a me (che ne ho discreta conoscenza essendo nato in un famiglia cristiana praticante che me lo ha insegnato con impegno ed amore, ed essendo stato convinto cristiano praticante io stesso fino all' età di quindici anni) pare che non sia affatto cristiano vivere alla condizione di essere felice
La domanda che hai post è diversa:
2 Si vive per essere felici o si é felici (pur) di vivere (comunque, in qualsiasi condizione)?
Ed io ho coerentemente risposto (anche dal punto di vista cristiano) che si vive per essere felici ed la sacrosanta verità (cristiana). Il cristiano non è felice di vivere in qualsiasi condizione. Ad essere sinceri solo uno sciocco è felice di vivere in qualsiasi condizione. Quindi anche il non cristiano dovrebbe dare la stessa risposta. Tutti dovrebbero dare questa risposta. Quello che affermi e che non era presente nel tuo quesito iniziale è la condizione. Cioè vivere alla condizione di essere felici. Questa è tutta un'altra cosa. Quindi vivere, sempre e comunque, ricercando la felicità. Vivere insomma per essere felici. Semmai dovremmo approfondire cosa è la felicità per un cristiano. Questo è un aspetto che merita indubbiamente un approfondimento. Ma non mi pare fosse presente nella domanda che hai posto.
Citazione di: sgiombo il 27 Febbraio 2019, 20:04:46 PM(e dunque, del tutto conseguentemente togliersi la vita se non lo si é);
Questa è una conseguenza logica soggettiva che nulla ha a che fare con la prospettiva logica umana oggettiva e cristiana e nemmeno, credo, con qualsiasi altra prospettiva se non quella, personalissima, di chi la voglia esprimere.
Citazione di: sgiombo il 27 Febbraio 2019, 20:04:46 PM
ma casomai accettare qualsiasi cosa la vita "terrena" comporti, fossero anche i peggiori tormenti, essendo tutto ciò volontà divina,
Questo è un punto che già si avvicina alla logica cristiana ma bisogna fare qualche precisazione. I peggiori tormenti diciamo comuni, esteriori, insomma quelli che tutti noi, ahimè, direttamente o indirettamente sperimentiamo, se cristianamente vissuti ed elaborati conducono, misteriosamente, segretamente, misericordiosamente, alla felicità. Qui e ora. Non più tardi. E', ripeto, un grandissimo mistero ma è cristianesimo puro. Non mie elucubrazioni.
Citazione di: sgiombo il 27 Febbraio 2019, 20:04:46 PM
fra l' altro destinato ad essere lautamente compensato nell' aldilà.
Questo è un altro aspetto ancora della logica cristiana e riguarda, in effetti, il premio assoluto che è la gioia eterna. Molti, anche cristiani, lo ritengono il premio tout court ma è semplicemente il grande (ma non l'unico!) premio: la vittoria finale ed assoluta della partita.
Citazione di: Socrate78 il 27 Febbraio 2019, 20:52:18 PM
L'animale che si lascia morire dopo la morte del padrone non lo fa per amore, ma soltanto perché si rende conto confusamente che non potrà vivere senza quella figura che egli considera il capobranco. La morte del padrone è quindi per lui una rovina, perché senza di lui non avrà cibo, cure, sicurezza. Si tratta di servilismo, opportunismo animale, dipendenza, ma non amore. L'"amore" del cane verso il padrone è solo un affidarsi ad una figura che gli serve per vivere, per sostentarsi e da cui riceve in cambio sicurezza e anche gratificazioni, ma non c'è amore in quanto egli lo fa per un tornaconto preciso, per la propria sicurezza e incolumità. Ma se l'animale, per ipotesi, dovesse per qualche motivo (anche da semplici gesti, sensazioni, ecc.) iniziare a percepire che il padrone non gli è più utile per la sicurezza, per il piacere e che anzi rappresenta una minaccia, ecco che anche tutto l'amore apparente va a farsi benedire e magari il cane finirà per aggredire senza apparente motivo il padrone percepito come una minaccia e non più come una guida. L'animale quindi non è in grado di superare gli istinti di conservazione (di sé e della specie) per elevarsi ad una forma di amore più puro, è determinato dalla materia e proprio per questo non potrà mai decidere intenzionalmente di uccidersi, il suicidio ironicamente è proprio un indizio molto lampante secondo me del fatto che solo l'uomo è dotato di un'anima e del libero arbitrio, infatti con questo gesto tragico dimostra di poter spezzare il determinismo dell'istinto di conservazione.
Secondo me le questioni dell' autocoscienza e del comportamento altruistico / egoistico sono diverse.
Contrariamente a tanti altri amici del forum sono convinto che l' autocoscienza (contrariamente alla coscienza) sia una caratteristica unicamente umana.
Ma credo che anche altre specie animali (un po' tutte, almeno in qualche misura), ma soprattutto quella canina, siano spesso estremamente altruiste, talora fino all' abnegazione e all' eroismo (ci sono stati cani che sono morti per salvare vite umane, canine e altri animali).
Da qui, in naturalissima conseguenza dell' evoluzione biologica per mutazioni genetiche "casuali" (cioé deterministiche ma di fatto imprevedibili) e selezione naturale, credo sia sorta e si sia sviluppata l' etica umana, universale nei suoi caratteri più generali - astratti, socialmente condizionata in quelli più particolari -concreti.
Citazione di: Ipazia il 27 Febbraio 2019, 22:18:18 PM
E' possibile una conoscenza filosofica dell'uomo nella cui fenomenologia ci sta pure la libertà, cara ad entrambi, di decidere della propria vita e della propria morte.
Certamente la libertà umana
di decidere della propria vita e della propria morte é carissima ad entrambi.
Tu pensi che sia esercitata per libero arbitrio, io deterministicamente (quando non é coartata da coercizioni estrinseche, cosa contro la quale lottiamo).
Citazione da: sgiombo - 27 Febbraio 2019, 20:04:46 pmCitazione
CitazioneVeramente a me (che ne ho discreta conoscenza essendo nato in un famiglia cristiana praticante che me lo ha insegnato con impegno ed amore, ed essendo stato convinto cristiano praticante io stesso fino all' età di quindici anni) pare che non sia affatto cristiano vivere alla condizione di essere felice
La domanda che hai post è diversa: 2 Si vive per essere felici o si é felici (pur) di vivere (comunque, in qualsiasi condizione)?
Ed io ho coerentemente risposto (anche dal punto di vista cristiano) che si vive per essere felici ed la sacrosanta verità (cristiana). Il cristiano non è felice di vivere in qualsiasi condizione. Ad essere sinceri solo uno sciocco è felice di vivere in qualsiasi condizione. Quindi anche il non cristiano dovrebbe dare la stessa risposta. Tutti dovrebbero dare questa risposta. Quello che affermi e che non era presente nel tuo quesito iniziale è la condizione. Cioè vivere alla condizione di essere felici. Questa è tutta un'altra cosa. Quindi vivere, sempre e comunque, ricercando la felicità. Vivere insomma per essere felici. Semmai dovremmo approfondire cosa è la felicità per un cristiano. Questo è un aspetto che merita indubbiamente un approfondimento. Ma non mi pare fosse presente nella domanda che hai posto.
Citazione
Ritengo non coerente con la credenza nel cristianesimo e in generale nelle religioni "monoteistiche provvidenzialistiche" ritenere che si vive per essere felici (e conseguentemente se non si può essere felici si preferisce non vivere).
Ma prendo atto che, da cristiano per quanto non troppo """ortodosso""", la pensi diversamente (ho espresso una curiosità e non posso che verificarla rilevando quanto mi si dice).
Non credo proprio che uno sciocco (per quanto sciocco sia, sciocco =/= masochista) sarebbe felice di vivere fra atroci dolori nell' impossibilità di curarseli.
Il problema che ho posto non é se si debba vivere cercando la felicità o meno (ovvio e banalissimo che sì), ma invece se, qualora si constati che non si può vivere felicemente si debba ugualmente accettare di continuare a vivere "ad ogni costo" oppure no.
Quello che ho chiesto é proprio questo.
Citazione da: sgiombo - 27 Febbraio 2019, 20:04:46 pm
Citazione(e dunque, del tutto conseguentemente togliersi la vita se non lo si é);
Questa è una conseguenza logica soggettiva che nulla ha a che fare con la prospettiva logica umana oggettiva e cristiana e nemmeno, credo, con qualsiasi altra prospettiva se non quella, personalissima, di chi la voglia esprimere.
Citazione da: sgiombo - 27 Febbraio 2019, 20:04:46 pm
Citazione
Questa é una conseguenza logica punto e basta: per chi come scopo abbia la felicità e creda che la vita sia un mezzo, in caso di acclarata infelicità insuperabile consegue logicamente il togliersi la vita.
Invece per chi (come suppongo generalmente credenti; ma constato che non si tratta del tuo caso) ha per scopo essere grato comunque Dio per la vita (e dimostrarlo praticamente, coi fatti), allora credo che la conclusione logica sia continuare a vivere a qualsiasi costo.
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Citazionema casomai accettare qualsiasi cosa la vita "terrena" comporti, fossero anche i peggiori tormenti, essendo tutto ciò volontà divina,
Questo è un punto che già si avvicina alla logica cristiana ma bisogna fare qualche precisazione. I peggiori tormenti diciamo comuni, esteriori, insomma quelli che tutti noi, ahimè, direttamente o indirettamente sperimentiamo, se cristianamente vissuti ed elaborati conducono, misteriosamente, segretamente, misericordiosamente, alla felicità. Qui e ora. Non più tardi. E', ripeto, un grandissimo mistero ma è cristianesimo puro. Non mie elucubrazioni.
Citazione
Per me "mistero" == "elucubrazione illogica, autocontraddittoria" (1 == 3; Dio == uomo; peggiore toemento == felicità), ecc.
Citazione di: sgiombo il 27 Febbraio 2019, 20:04:46 PMRitengo non coerente con la credenza nel cristianesimo e in generale nelle religioni "monoteistiche provvidenzialistiche" ritenere che si vive per essere felici (e conseguentemente se non si può essere felici si preferisce non vivere).
Ma prendo atto che, da cristiano per quanto non troppo """ortodosso""", la pensi diversamente (ho espresso una curiosità e non posso che verificarla rilevando quanto mi si dice).
Non so, forse è questione di lana caprina però il catechismo della Chiesa cattolica dice così:
II. Il desiderio della felicità
1718 Le beatitudini rispondono all'innato desiderio di felicità. Questo desiderio è di origine divina: Dio l'ha messo nel cuore dell'uomo per attirarlo a sé, perché egli solo lo può colmare.
Noi tutti certamente bramiamo vivere felici, e tra gli uomini non c'è nessuno che neghi il proprio assenso a questa affermazione, anche prima che venga esposta in tutta la sua portata [Sant'Agostino, De moribus ecclesiae catholicae, 1, 3, 4: PL 32, 1312].
Come ti cerco, dunque, Signore? Cercando Te, Dio mio, io cerco la felicità. Ti cercherò perché l'anima mia viva. Il mio corpo vive della mia anima e la mia anima vive di Te [Sant'Agostino, Confessiones, 10, 20, 29].
Dio solo sazia [San Tommaso d'Aquino, Expositio in symbolum apostolicum, 1].
Beh chiariamoci, il termine suicidio è un albero di natale addobato di immagini antropiche, dal romanticismo ai kamikaze, non è un termine che si può adattare all'etologia senza uno sforzo immaginitavo, se non altro di liberarlo da queste immagini. La stessa parola "depressione" che tu usi per gli animali, se messa in campo umano cambia totalmente di tono. Non penso che disponiamo delle parole per descrivere precisamente quello che accade in altri regni, perciò non possiamo rinunciare ad un certo grado metaforico. Se come dici sai affrontare l'argomento in campo deterministico senza necessità di autocoscienza, tanto meglio, dovremo concordare che il suicidio di cui parliamo è diverso per non essere autocosciente. Nel caso volessimo continuare questo discorso, dovremmo perlomeno concordare che intendiamo il suicidio come qualosa di più che l'azione di costringere se stessi ad una morte violenta, ma un percorso di autodistruzione che termina nella morte prematura e non accidentale, il risultato di una "depressione" (così come è anche negli esseri umani).
Ci sarebbero diversi esempi per dimostrare che quello che potremmo chiamare "stress" o "depressione" causa fenomeni autodistruttivi sia negli individui che nelle colonie, accellerandone bruscamente la dipartita, certo senza l'uso di pistole ne silenziatori. Non è il caso di soffermarsi sui dettagli, ma mi preme dire che non volevo resuscitare Jung e le coscienze collettive, tuttavia il problema menzionato è ampliamente documentato, e nessuno (purtroppo) conosce le dinamiche precise del problema (gli spetterebbe in tal caso il nobel). Così come è conosciuto che i recettori che regolano la "depressione" sono così antichi e simili tra le specie viventi, che il proxac funziona tanto sugli esseri umani quanto su animali preistorici come i crostacei, e non sorprendentemente.
Citazione di: Freedom il 28 Febbraio 2019, 09:51:31 AM
Non so, forse è questione di lana caprina però il catechismo della Chiesa cattolica dice così:
II. Il desiderio della felicità
1718 Le beatitudini rispondono all'innato desiderio di felicità. Questo desiderio è di origine divina: Dio l'ha messo nel cuore dell'uomo per attirarlo a sé, perché egli solo lo può colmare.
Noi tutti certamente bramiamo vivere felici, e tra gli uomini non c'è nessuno che neghi il proprio assenso a questa affermazione, anche prima che venga esposta in tutta la sua portata [Sant'Agostino, De moribus ecclesiae catholicae, 1, 3, 4: PL 32, 1312].
Come ti cerco, dunque, Signore? Cercando Te, Dio mio, io cerco la felicità. Ti cercherò perché l'anima mia viva. Il mio corpo vive della mia anima e la mia anima vive di Te [Sant'Agostino, Confessiones, 10, 20, 29].
Dio solo sazia [San Tommaso d'Aquino, Expositio in symbolum apostolicum, 1].
Ma che tutti cerchino la felicità mi sembra perfettamente ovvio e perfino un po' banale.
Poiché un conto é desiderare e cercare, un altro conto (non sempre coincidente, purtroppo!) trovare, la questione interessante é se,
***in caso non ci sia di fatto felicità presente e nemmeno ragionevole speranza di felicità futura***, sia preferibile continuare a vivere comunque (perché per esempio, Dio lo vuole e a Dio non si deve disobbedire, oppure perché Dio lo vuole e Dio é infinitamente buono e in un' altra vita ci premierà con abbondanza dell' infelicità presente e prevedibilmente insuperabile in questa vita, o per qualsiasi altro motivo); oppure se sia preferibile cessare di vivere e soffrire.
Possibile che non riesca a spiegare una cosa così semplice, come il fatto che la questione de me posta é puramente e semplicemente questa (e non ad esempio se -molto ovviamente e banalmente- si cerchi o meno di essere felici) ? ? ?
Citazione di: InVerno il 28 Febbraio 2019, 09:52:13 AM
Beh chiariamoci, il termine suicidio è un albero di natale addobato di immagini antropiche, dal romanticismo ai kamikaze, non è un termine che si può adattare all'etologia senza uno sforzo immaginitavo, se non altro di liberarlo da queste immagini. La stessa parola "depressione" che tu usi per gli animali, se messa in campo umano cambia totalmente di tono. Non penso che disponiamo delle parole per descrivere precisamente quello che accade in altri regni, perciò non possiamo rinunciare ad un certo grado metaforico. Se come dici sai affrontare l'argomento in campo deterministico senza necessità di autocoscienza, tanto meglio, dovremo concordare che il suicidio di cui parliamo è diverso per non essere autocosciente. Nel caso volessimo continuare questo discorso, dovremmo perlomeno concordare che intendiamo il suicidio come qualosa di più che l'azione di costringere se stessi ad una morte violenta, ma un percorso di autodistruzione che termina nella morte prematura e non accidentale, il risultato di una "depressione" (così come è anche negli esseri umani).
Ci sarebbero diversi esempi per dimostrare che quello che potremmo chiamare "stress" o "depressione" causa fenomeni autodistruttivi sia negli individui che nelle colonie, accellerandone bruscamente la dipartita, certo senza l'uso di pistole ne silenziatori. Non è il caso di soffermarsi sui dettagli, ma mi preme dire che non volevo resuscitare Jung e le coscienze collettive, tuttavia il problema menzionato è ampliamente documentato, e nessuno (purtroppo) conosce le dinamiche precise del problema (gli spetterebbe in tal caso il nobel). Così come è conosciuto che i recettori che regolano la "depressione" sono così antichi e simili tra le specie viventi, che il proxac funziona tanto sugli esseri umani quanto su animali preistorici come i crostacei, e non sorprendentemente.
Per me il suicidio si può praticare in tanti modi e per tanti motivi, ma pur sempre chiarissimamente, inequivocabilmente suicidio (concetto facilissimamente comprensibile) comunque resta.
Sia che sia dovuto a depressione patologica oppure fisiologica, sia che venga attuato con metodi rapidi e/o violenti, sia che venga attuato con metodi lenti e/o "dolci").
Il determinismo non é affatto incompatibile con l' autocoscienza.
Penso anzi che gli uomini siano autocoscienti ma che agiscano non liberoarbitrariamente bensì deterministicamente.
Dunque il suicidio é accompagnato da autocoscienza, pur non essendo liberoarbitrario; e infatti é unicamente umano proprio come l' autocoscienza.
Nelle colonie di insetti mi é difficile, anzi impossibile immaginare un' autocoscienza collettiva, e in particolare nel suo ambito "stress" o "depressione", nonché la decisione di togliersi la vita.
@Inverno: Il prozac non sempre funziona a meraviglia e come dovrebbe, anzi, spesso e volentieri è successo che proprio il farmaco ha fatto insorgere tendenze suicide in soggetti depressi che non avevano prima mai contemplato l'idea di uccidersi. Secondo me non ci sono evidenze scientifiche sul fatto che la depressione dipenda veramente da carenza di serotonina, perché potrebbe essere semmai la dopamina il neurotrasmettitore implicato nella sindrome oppure il tutto essere molto più complesso dipendere da qualcos'altro, come una comunicazione più lenta del cervello depresso tra le diverse aree della corteccia, con l'effetto quindi di deprimere l'umore, la concentrazione, la volontà e tutte le funzioni nobili cerebrali. Non a caso il depresso tipico non ha appetito, non riesce a concentrarsi nelle attività di ogni giorno ed è apatico, quindi è come se vi fosse una comunicazione troppo lenta tra i neuroni. Ci sono anzi studi opposti che dicono addirittura che alcune depressioni nascerebbero proprio dall'eccesso di serotonina, che in eccesso agirebbe come un depressivo delle funzioni cerebrali e quindi il Prozac non farebbe altro in quei casi che far deprimere ancora di più! Ad esempio un recente studio dell'Università svedese di Uppsala dice che la fobia sociale e la conseguente depressione sarebbero causate dall'eccesso di serotonina, la troppa serotonina renderebbe ipersensibili alle critiche e al giudizio altrui, inclini alla depressione e all'isolamento sociale, ed ecco spiegato perché questi soggetti socialmente fobici non vedono affatto migliorare la loro ansia con i normali antidepressivi e continuano ad avere attacchi di panico quando devono stare con gli altri, per forza, i farmaci aumentano la serotonina e quindi aggravano il problema.
Citazione di: Socrate78 il 28 Febbraio 2019, 17:13:33 PM
@Inverno: Il prozac non sempre funziona a meraviglia e come dovrebbe, anzi, spesso e volentieri è successo che proprio il farmaco ha fatto insorgere tendenze suicide in soggetti depressi che non avevano prima mai contemplato l'idea di uccidersi.
CitazioneNon é esattamente così.
Te lo dico come medico che ha sostenuto un interessante esame di psichiatria (anche se ahimé molti anni fa): fra le tendenze comportamentali più tipiche della depressione (patologica) ci sono sia la tentazione di suicidarsi, sua una certa "fiacchezza", "passività" o scarsa propensione ad agire (in generale).
Gli antidepressivi sono farmaci difficili da "maneggiare", da somministrare con cautela e se appena possibile a pazienti "sorvegliati" (non soli) perché possono talora avere un più precoce effetto inibente la propensione alla passività piuttosto che quella al suicidio, favorendo la messa in pratica di propositi solitamente già in precedenza "coltivati" (o considerati) dal paziente depresso, ma non attuati.
Secondo me non ci sono evidenze scientifiche sul fatto che la depressione dipenda veramente da carenza di serotonina, perché potrebbe essere semmai la dopamina il neurotrasmettitore implicato nella sindrome oppure il tutto essere molto più complesso dipendere da qualcos'altro, come una comunicazione più lenta del cervello depresso tra le diverse aree della corteccia, con l'effetto quindi di deprimere l'umore, la concentrazione, la volontà e tutte le funzioni nobili cerebrali.
Citazione
La patologia (umana e animale) é estremamente complessa in generale.
E quelle psichiatriche solitamente più della media della altre.
La carenza e/o l' eccesso di serotonina in certe aree cerebrali e/o di dopamina /oo di altri mediatori chimici trans-sinaptici in certe altre sono solo due dei tanti fattori in gioco in buona parte sconosciuti.
Come nel resto della medicina spessissimo ricercatori di scarsa serietà e case farmaceutiche sparano presunte notizie di presunte "scoperte rivoluzionarie"di singoli farmaci "miracolosi" che curerebbero le più svariate patologie; ma si tratta quasi sempre e quasi integralmente di vergognose bufale a fine di lucro (sulla pelle di pazienti e congiunti dei pazienti) .
Non a caso il depresso tipico non ha appetito, non riesce a concentrarsi nelle attività di ogni giorno ed è apatico, quindi è come se vi fosse una comunicazione troppo lenta tra i neuroni.
Citazione
Vi sono però anche casi di depressione con bulimia, come ce ne sono con insonnia e con letargia (a conferma della estrema complessità di questa patologia; o più verosimilmente patologie).
Ci sono anzi studi opposti che dicono addirittura che alcune depressioni nascerebbero proprio dall'eccesso di serotonina, che in eccesso agirebbe come un depressivo delle funzioni cerebrali e quindi il Prozac non farebbe altro in quei casi che far deprimere ancora di più! Ad esempio un recente studio dell'Università svedese di Uppsala dice che la fobia sociale e la conseguente depressione sarebbero causate dall'eccesso di serotonina, la troppa serotonina renderebbe ipersensibili alle critiche e al giudizio altrui, inclini alla depressione e all'isolamento sociale, ed ecco spiegato perché questi soggetti socialmente fobici non vedono affatto migliorare la loro ansia con i normali antidepressivi e continuano ad avere attacchi di panico quando devono stare con gli altri, per forza, i farmaci aumentano la serotonina e quindi aggravano il problema.
Citazione
Diciamocela tutta: la psichiatria é ben lontana dal padroneggiare bene, con buona sicurezza, la patologie che tratta.
Scusa mi sono spiegato male, con "funziona" non intendevo che curasse ne le persone ne i crostacei, semplicemente che c'è una risposta neurolobiologica e comportamentale simile almeno in termini immediati di cui io più che altro mi interesserei dei fattori comportamentali, come ha fatto notare J.Peterson particolarmente riguardo alla postura del corpo, e delle implicazioni che questo avrebbe anche sulla vita sociale\territoriale etc.. Il semplice atto di "camminare a testa alta" può essere molto importante nell'immediato, ma questo non prova a mio avviso che possa curare patologie così complesse come descrive Sgiombo. Non c'è nulla di sorprendente, dalle aragoste abbiamo ereditato anche lo stomaco!
@Sgiombo, la nostra incomprensione è molto probabilmente dovuta al fatto che mentre io tendo di diminuire il peso che do all'autocoscienza tu lo mantieni saldo come dirimente. Io ho poca simpatia per l'autocoscienza nelle preposizioni, ha l'effetto di una tautologia, non mi porta molto avanti col discorso, sopratutto se a differenza tua, preferisco - se non altro come ipotesi filosofica - tentare un approccio più olistico alla vicenda. Il che non significa antromorfizzare gli animali, ma nemmeno dimenticarsi che qualunque sia il salto di qualità che ha fatto l'essere umano, facendolo non ha sconvolto la natura, l'ha semmai ampliata e quindi dobbiamo prestare l'orecchio agli echi profondi delle nostre origini. Lascio invece le discussioni prettamente etologiche ad un altro ipotetico topic.
Citazione di: InVerno il 28 Febbraio 2019, 21:35:46 PM
@Sgiombo, la nostra incomprensione è molto probabilmente dovuta al fatto che mentre io tendo di diminuire il peso che do all'autocoscienza tu lo mantieni saldo come dirimente. Io ho poca simpatia per l'autocoscienza nelle preposizioni, ha l'effetto di una tautologia, non mi porta molto avanti col discorso, sopratutto se a differenza tua, preferisco - se non altro come ipotesi filosofica - tentare un approccio più olistico alla vicenda. Il che non significa antromorfizzare gli animali, ma nemmeno dimenticarsi che qualunque sia il salto di qualità che ha fatto l'essere umano, facendolo non ha sconvolto la natura, l'ha semmai ampliata e quindi dobbiamo prestare l'orecchio agli echi profondi delle nostre origini. Lascio invece le discussioni prettamente etologiche ad un altro ipotetico topic.
Ma nemmeno io dimentico che
che qualunque sia il salto di qualità che ha fatto l'essere umano, facendolo non ha sconvolto la natura, l'ha semmai ampliata e quindi dobbiamo anche prestare l'orecchio agli echi profondi delle nostre origini. Lo ripeto anzi piuttosto spesso esplicitamente.
Credo che per suicidarsi in maniera lucida (cioè con un gesto di 'impugnare l'arma' non dettato da qualche depressione grave...) sia necessaria una fede nell'annientamento totale dell'infelicità, dato dalla morte fisica, almeno pari alla fede di un credente in Dio nel proseguimento dell'esistenza in una dimensione ultraterrena di felicità...
Forse anche maggiore perché, se si è in errore di valutazione, si rischia di cadere dalla padella nella brace (letteralmente... ;D ), mentre per il credente , nel caso di oblio totale dato dalla morte corporale, il rischio è quello di soffrire inutilmente in questa vita, però sicuramente per un tempo determinato...che diciamocela tutta, di solito questo tempo viene artificiosamente prolungato dalla medicina che spesso , con l'illusione di curare (in realtà di solito dando solo il famoso "tacòn" di contadina memoria. I quali contadini, che avevano poca scienza ma parecchia saggezza, solevano dire anche in proposito: "Xe peso il tacòn chel sbrego", che tradotto per i non nativi della Contea fa: "E' peggio la riparazione che il danno" e quanto è vero questo nel caso di malattie gravissime ... :( ), non fa altro che prolungare l'infelicità ( in natura la sofferenza intensa è piuttosto di breve durata...).
Se il tema sotteso era il suicidio avrei risparmiato tempo e fatica ;D e sarei intervenuto in modo più mirato.
Comunque il suicidio è una patologia. Lo prova il fatto che ne esce vincente nella battaglia contro il più potente dei nostri istinti: quello della sopravvivenza. E come tale va combattuto. Sia da un punto di vista morale che legale. Ricordo che indurre o anche solo aiutare qualcuno al suicidio è un fatto di grave rilevanza penale. Secondo eminenti penalisti, se non fosse, per ovvi motivi, inefficace, il C.P. lascia intendere che punirebbe il suicidio stesso.
Discorso a parte merita l'eutanasia ma, se questo è il tema sotteso, allora bisogna che si faccia uno sforza di chiarezza e proporre, con maggiore chiarezza, gli argomenti di discussione.
Secondo me a volte ci si può purtroppo perfino trovare in condizioni di sofferenza talmente estrema da giustificare il suicidio anche nel dubbio di reincarnazione (o da non consentire nemmeno di fatto di prendere in considerazione l' ipotesi; una sorta di "insopportabilità assoluta della propria condizione).
Inoltre nell' ipotesi che le sue convinzioni siano errate (cioé la stessa per la quale il non credente potrebbe rischiare di cadere dalla padella nella brace), nessuno garantisce nemmeno il credente dal rischio di una reincarnazione ancor più dolorosa della vita sopportata fino alla sua fine naturale (o meglio: "spontanea").
Sì, sicuramente spesso inappropriate cure mediche prolungano condizioni di sofferenza indesiderabili.
Ma questo anche e soprattutto (almeno qui in Italia) perché é vietata l' eutanasia a causa del prepotere della chiesa cattolica che impone indebitamente anche a chi non crede di comportarsi come i credenti.
Citazione di: Freedom il 01 Marzo 2019, 11:05:18 AM
Se il tema sotteso era il suicidio avrei risparmiato tempo e fatica ;D e sarei intervenuto in modo più mirato.
Comunque il suicidio è una patologia. Lo prova il fatto che ne esce vincente nella battaglia contro il più potente dei nostri istinti: quello della sopravvivenza. E come tale va combattuto.
Sia da un punto di vista morale che legale.
Citazione
Beh, questo non dimostra nulla, anche perché é una deduzione da una affermazione per lo meno discutibile, decisamente soggettiva e arbitraria, quella per la quale quello della sopravvivenza sarebbe il più forte dei nostri istinti (per me lo é quello della felicità, o per lo meno dell' assenza di infelicità).
Ricordo che indurre o anche solo aiutare qualcuno al suicidio è un fatto di grave rilevanza penale. Secondo eminenti penalisti, se non fosse, per ovvi motivi, inefficace, il C.P. lascia intendere che punirebbe il suicidio stesso.
Citazione
Sì, é illegale a causa di una vergognosa e immorale pretesa della chiesa cattolica di imporre anche ai non credenti di comportarsi secondo le sue regole contro la loro propria volontà
Una cosa decisamente vergognosa, obbrobriosa!
Discorso a parte merita l'eutanasia ma, se questo è il tema sotteso, allora bisogna che si faccia uno sforza di chiarezza e proporre, con maggiore chiarezza, gli argomenti di discussione.
Citazione
E' quello che stiamo cercando di fare.
Ma per me "eutanasia" == suicidio in condizioni di minor sofferenza possibile in caso di sopravvivenza irrimediabilmente dolorosa (é una caso particolare del genere "suicidio").
Ciò che risulta più stridente nelle battaglie "pro-vita" dei cristiani, è che dimostrano evidentemente quanto si siano dimenticati che il loro profeta preferito, quello che più correttamente chiameremmo un "martire", sia molto vicino ad un suicida.Senza avvallare ipotesi "eretiche" come quelle del Vangelo di Giuda (dove Gesù attivamente mette in opera il suo martirio), qualunque essere umano che avesse girovagato la galilea affermando quello che andava, ipoteticamente, dicendo il Cristo, non parrebbe avere un grande rispetto per la propria vita. E Cristo ne aveva certamente coscienza, visto che al suo tempo le strade di ingresso delle città brulicavano di crocifissi.
Lo stesso peraltro vale per i "martiri" cristiani. Il percorso verso il martirio della maggior parte dei prima cristiani viene descritto generalmente in tre modi: come il risultato di un esilio, per atto deliberato, o per eccesso di "eroismo", dove le ultime due ipotesi sono le più documentate. Per fare un esempio a caso, quando il vescovo Pionio venne catturato (250dc) egli ricordò agli amici che Cristo aveva perso la vita per sua scelta, e procedette oltre per essere torturato ed ucciso. Il fatto che questo sia o non sia un suicidio dipende da che definizione si da del suicidio, quello che è sicuro è che si tratta di morte volontaria. La chiesa e i vangeli sono imperniati sull'idea che un uomo possa sacrificare anche la sua stessa vita, ma in qualche modo questa possibilità viene fornita con il contagocce a determinate persone, mentre ad altre vengono quasi considerate "indegne" e incapaci di capire l'atto che stanno per fare.
La religione cambia, le persone riflettono, ma di tutte le religioni "pro-vita" il cristianesimo, almeno viste le sue origini, parrebbe quello che dovrebbe pontificare meno a riguardo.
Citazione di: Sariputra il 01 Marzo 2019, 10:46:09 AM
Credo che per suicidarsi in maniera lucida (cioè con un gesto di 'impugnare l'arma' non dettato da qualche depressione grave...) sia necessaria una fede nell'annientamento totale dell'infelicità, dato dalla morte fisica, almeno pari alla fede di un credente in Dio nel proseguimento dell'esistenza in una dimensione ultraterrena di felicità...
E' una fede molto fondata del tipo che domani il sole sorgerà di nuovo. Molto più difficile sul piano della sensatezza razionale avere fede in una realtà ultraterrena. Tant'è che perfino i pro-life supremi, giunti alla fine della loro vita, hanno rifiutato l'accanimento terapeutico e chiesto di por fine alla loro sofferenza impotente e definitiva.
Citaz. InVerno:
Ciò che risulta più stridente nelle battaglie "pro-vita" dei cristiani, è che dimostrano evidentemente quanto si siano dimenticati che il loro profeta preferito, quello che più correttamente chiameremmo un "martire", sia molto vicino ad un suicida.Senza avvallare ipotesi "eretiche" come quelle del Vangelo di Giuda (dove Gesù attivamente mette in opera il suo martirio), qualunque essere umano che avesse girovagato la galilea affermando quello che andava, ipoteticamente, dicendo il Cristo, non parrebbe avere un grande rispetto per la propria vita. E Cristo ne aveva certamente coscienza, visto che al suo tempo le strade di ingresso delle città brulicavano di crocifissi.
Lo stesso peraltro vale per i "martiri" cristiani. Il percorso verso il martirio della maggior parte dei prima cristiani viene descritto generalmente in tre modi: come il risultato di un esilio, per atto deliberato, o per eccesso di "eroismo", dove le ultime due ipotesi sono le più documentate. Per fare un esempio a caso, quando il vescovo Pionio venne catturato (250dc) egli ricordò agli amici che Cristo aveva perso la vita per sua scelta, e procedette oltre per essere torturato ed ucciso. Il fatto che questo sia o non sia un suicidio dipende da che definizione si da del suicidio, quello che è sicuro è che si tratta di morte volontaria. La chiesa e i vangeli sono imperniati sull'idea che un uomo possa sacrificare anche la sua stessa vita, ma in qualche modo questa possibilità viene fornita con il contagocce a determinate persone, mentre ad altre vengono quasi considerate "indegne" e incapaci di capire l'atto che stanno per fare.
La religione cambia, le persone riflettono, ma di tutte le religioni "pro-vita" il cristianesimo, almeno viste le sue origini, parrebbe quello che dovrebbe pontificare meno a riguardo.
Risposta di Sgiombo:
Scusa, ma non sono per niente d' accordo.
Per me l' eroismo fino al "supremo" sacrificio della vita é ben altra cosa dell' eutanasia in particolare e del suicidio ingenerale.
Chi sacrifica eroicamente la sua vita non é un disperato alla ricerca di una fine purchessia di sofferenze e/o infelicità insopportabili.
Al contrario, é uno che sceglie di vivere fino in fondo la sua propria vita virtuosa (per le meno se martire di una causa giusta), e dunque é felice "fino in fondo", essendo, per chi sia "virtuoso", la virtù premio a se stessa.
_____________________
Siamo con tutta evidenza fuori tema: ai moderatori l' incombenza di un eventuale trasferimento di queste battute in un altra discussione.
Citazione di: sgiombo il 01 Marzo 2019, 11:38:01 AM
Beh, questo non dimostra nulla, anche perché é una deduzione da una affermazione per lo meno discutibile, decisamente soggettiva e arbitraria, quella per la quale quello della sopravvivenza sarebbe il più forte dei nostri istinti (per me lo é quello della felicità, o per lo meno dell' assenza di infelicità).
A me pare sotto gli occhi di tutti che l'istinto di sopravvivenza prevale su tutto. Prendo atto della tua negazione.
Citazione di: sgiombo il 01 Marzo 2019, 11:38:01 AM
Sì, é illegale a causa di una vergognosa e immorale pretesa della chiesa cattolica di imporre anche ai non credenti di comportarsi secondo le sue regole contro la loro propria volontà Una cosa decisamente vergognosa, obbrobriosa!
A me pare tu stia scambiando il suicidio con l'eutanasia. Temi attigui ma non coincidenti. Comunque il C.P. è stato scritto dallo Stato italiano e non dalla Chiesa cattolica.
Citazione di: sgiombo il 01 Marzo 2019, 11:38:01 AM
Ma per me "eutanasia" == suicidio in condizioni di minor sofferenza possibile in caso di sopravvivenza irrimediabilmente dolorosa (é una caso particolare del genere "suicidio").
Credo che tu sbagli: "
L'eutanasia, letteralmente buona morte è il procurare intenzionalmente e nel suo interesse la morte di un individuo la cui qualità della vita sia permanentemente compromessa da una malattia, menomazione o condizione psichica."
Consentimi tuttavia una domanda atta a sondare il tuo concetto di suicidio accettabile: chi decide se il suicidio è consentito o meno? In altre parole: se un tuo amico dichiara di volere la morte perché è stato lasciato da sua moglie (anche per avvenuta morte) e dichiara che non sopravvivrà a questo evento come si fa a decidere se è vero o meno? Cioè se, magari tra qualche mese, sarà in condizioni di superare l'evento luttuoso?
E' difficile per un ateo avere fede in una realtà ultraterrena che esista dopo la vita fisica, ma perché l'ateo ha il pregiudizio che la realtà si esaurisca nella "materia" e che quindi una volta finito il ciclo materiale tutto termini. Invece l'ateo NON sa niente riguardo all'esistenza o meno di una realtà trascendente, egli è ignorante nel senso più deteriore del termine, perché crede di sapere spacciando il pregiudizio per verità. In realtà la nostra ragione ha dei limiti e ciò che sembra insensato o improbabile razionalmente può anche essere vero. Molte delle nostre certezze, su cui basiamo la nostra vita, non è detto che siano nemmeno vere, ad esempio noi diamo per certa l'esistenza della solidità della materia, ma se si guarda il mondo in una prospettiva infinitamente piccola si nota come tutto sia energia, anche la materia stessa lo è: infatti alcuni fisici quantistici parlano di illusione della materia, sottolineando il fatto che la realtà potrebbe essere diversa da come ci appare. Quindi se non possiamo nemmeno essere certi della verità della realtà che ci circonda, come possiamo escludere che esista un'altra dimensione ultraterrena? Se tutto è energia allora anche la nostra mente potrebbe sopravvivere al campo energetico del corpo.
Citazione di: sgiombo il 01 Marzo 2019, 14:06:40 PMScusa, ma non sono per niente d' accordo.
Per me l' eroismo fino al "supremo" sacrificio della vita é ben altra cosa dell' eutanasia in particolare e del suicidio ingenerale.
Chi sacrifica eroicamente la sua vita non é un disperato alla ricerca di una fine purchessia di sofferenze e/o infelicità insopportabili.
Al contrario, é uno che sceglie di vivere fino in fondo la sua propria vita virtuosa (per le meno se martire di una causa giusta), e dunque é felice "fino in fondo", essendo, per chi sia "virtuoso", la virtù premio a se stessa.
Non a caso abbiamo elaborato il concetto di "martire" che tuttavia a mio avviso è semplicemente una "sottocategoria" di quel che più in generale può essere considerato morte volontaria. Rimando in tal caso alle distinzioni fatte da Émile Durkheim, padre della sociologia moderna, riguardo al suicidio egoistico, anomico, e altruistico. L'eroismo (o il martirio) difende un bene superiore anche con la vita, ma chi è in grado di definire chi sia esattamente un eroe od un pezzente? Se una persona sente profondamente di essere "il peccato originale della propria vita", e considera la sua dipartita un bene per tutti (suicidio anomico) chi
sarebbe di preciso che dovrebbe valutare la correttezza della sua posizione? La chiesa? La storia? Gli amici? Bah.Non a caso gli ebrei non hanno mai considerato Cristo un martire, quanto magari uno sciocco.
C'è una distinzione tra suicidio e martirio, ma per quanto ho capito io del cristianesimo delle origini, l'idea che la "vita venga prima di tutto sempre e comunque" mi pare che sia BEN LUNGI dall'essere una posizione storicamente credibile per quanto riguarda Cristo e i suoi discepoli vicini e lontani, quanto un modernismo a-la "volemose bene" di cui la chiesa moderna è cosi tronfiamente campionessa. E' una questione di coerenza interna alla religione, più che del valore da dare all'eroismo, che può essere dibattuto.
L'energia non è nient'altro che la manifestazione fenomenica di una differenza di potenziale tra due stati fisici. La fisica, con le sue grandezze immateriali, purtroppo si presta ad ogni genere di cantonate spiritualistiche. La chimica e la biologia sono meno idealisticamente adulterabili. La differenza ontologica tra ciò che è empiricamente percepibile/dimostrabile e ciò che è fantasticabile è alla base della civiltà umana e di tutte le cure che essa ci ha messo a disposizione. Non è una differenza ideale/ideologica ma realmente esperibile.
Aaah!...Come è caduto in disuso l'esercizio della prudentia nel mondo..."da la prudentia vegnono li buoni consigli, li quali conducono sé e altri a buono fine ne le umane cose e operazioni (Dante)...
Rammento che l'invito a non fantasticare troppo su quello che potrebbe esserci e a concentrare l'attenzione su quello che può essere dimostrato esistere viene da un monaco francescano del XIV secolo era cristiana.
@Ipazia: Io continuo a credere che esista un mondo ultraterreno e che la nostra ragione abbia dei limiti e non possa escludere il trascendente in linea assoluta. Non siamo portatori di una verità assoluta su ciò che esiste, immagina ad esempio la mente di un cane, egli vede una lampadina che si accende ma non potrà mai concepire l'esistenza dell'energia elettrica, perché la sua mente limitata non può comprendere e descrivere un tale concetto, è al di sopra delle sue possibilità. Così è secondo me per Dio e la realtà ultraterrena, noi con la nostra ragione non possiamo descrivere una realtà simile e siamo tendenzialmente portati a negarla da una prospettiva puramente razionale, tuttavia potrebbe essere come l'energia elettrica per il cane, qualcosa che la nostra mente non può comprendere appieno.
Citazione da: sgiombo - Oggi alle 11:38:01CitazioneSg.:
Beh, questo non dimostra nulla, anche perché é una deduzione da una affermazione per lo meno discutibile, decisamente soggettiva e arbitraria, quella per la quale quello della sopravvivenza sarebbe il più forte dei nostri istinti (per me lo é quello della felicità, o per lo meno dell' assenza di infelicità).
Fr,:A me pare sotto gli occhi di tutti che l'istinto di sopravvivenza prevale su tutto. Prendo atto della tua negazione. Citazione
Sgiombo:
Ma chi l' ha detto che sarebbe sotto gli occhi di tutti ? ! ? ! ? !
A me sembra evidente che per "istinto di sopravvivenza" possano essere intesi vari istinti atti a sopravvivere (mangiare, bere, riprodursi, ripararsi dalle intemperie e dai predatori, ecc.).
E allora negli animali privi di autocoscienza può essere considerato il più forte.
Ma negli uomini l' autocoscienza fa la differenza, in modo tale da farlo passare in subordine rispetto a quello alla felicità (o per lo meno auspicabile non eccessiva infelicità): é ben per questo che fra gli uomini accade anche il suicidio, per il fatto che in conseguenza dell' autocoscienza, l' istinto a cercare al felicità ed evitare l' infelicità supera per "forza", "potenza", "intensità" quello stesso alla sopravvivenza.
Citazione da: sgiombo - Oggi alle 11:38:01CitazioneSg.:
Sì, é illegale a causa di una vergognosa e immorale pretesa della chiesa cattolica di imporre anche ai non credenti di comportarsi secondo le sue regole contro la loro propria volontà Una cosa decisamente vergognosa, obbrobriosa!
Fr.:
A me pare tu stia scambiando il suicidio con l'eutanasia. Temi attigui ma non coincidenti. Comunque il C.P. è stato scritto dallo Stato italiano e non dalla Chiesa cattolica. Citazione
Sgiombo:
Bella scoperta!
Come se la chiesa cattolica non esercitasse il suo potere e la sua prepotenza sullo stato italiano ! ! !
Per dirlo con Aristotele, l' "eutanasia" é una specie nell' ambito del genere "suicidio".
Citazione da: sgiombo - Oggi alle 11:38:01CitazioneSg.:
Ma per me "eutanasia" == suicidio in condizioni di minor sofferenza possibile in caso di sopravvivenza irrimediabilmente dolorosa (é una caso particolare del genere "suicidio").
Fr:Credo che tu sbagli: "L'eutanasia, letteralmente buona morte è il procurare intenzionalmente e nel suo interesse la morte di un individuo la cui qualità della vita sia permanentemente compromessa da una malattia, menomazione o condizione psichica."Citazione
Sgiombo:
Questa definizione é alquanto equivoca e maliziosa lasciando falsamente intendere che chi vuole legalizzare l' eutanasia intenda affidare ad altri che al diretto interessato (medici o "tutori") la decisione in proposito.
Se correttamente intesa come dai proponenti, cioé come eventuale buona morte procurata intenzionalmente e nel suo interesse a se stesso (e a nessun altro, nè per decisione di alcun altro) da parte di individuo la cui qualità della vita sia permanentemente compromessa da una malattia, menomazione o condizione psichica, allora, come volevasi dimostrare, si tratta di un caso particolare nella più generale casistica del "suicidio".
Fr.:Consentimi tuttavia una domanda atta a sondare il tuo concetto di suicidio accettabile: chi decide se il suicidio è consentito o meno?Citazione
Sgiombo:
Ovviamente, se non si é spregevoli fondamentalisti religiosi intolleranti e che prepotentemente e iniquamente pretendono di imporre le proprie norme di comportamento agli altri anche se questi non le vogliono seguire, la risposta a questa domanda é ineqivocabilmente:
Chiunque per se stesso e per nessun altro!
Fr.: In altre parole: se un tuo amico dichiara di volere la morte perché è stato lasciato da sua moglie (anche per avvenuta morte) e dichiara che non sopravvivrà a questo evento come si fa a decidere se è vero o meno? Cioè se, magari tra qualche mese, sarà in condizioni di superare l'evento luttuoso?CitazioneSgiombo:
Se togliersi la sua propria vita o meno lo decide unicamente l' amico stesso e nessun altro, a meno di essere perfidi fondamentalisti religiosi coartatori dell' altrui libertà (da coercizioni estrinseche =/= libero arbitrio, amica Ipazia).
Tra qualche mese si saprà se (anzi: che) sarà stato in condizioni di superare l'evento luttuoso, solo se non si sarà suicidato.
Se invece purtroppo si sarà suicidato, allora nessuno potrebbe rispondere a una simile domanda, fondata sul presupposto contraddittorio che sia ancora in vita tra qualche mese, ovvero che -essendosi suicidato. non si é suicidato).
Citazione di: Socrate78 il 01 Marzo 2019, 16:01:53 PM
E' difficile per un ateo avere fede in una realtà ultraterrena che esista dopo la vita fisica, ma perché l'ateo ha il pregiudizio che la realtà si esaurisca nella "materia" e che quindi una volta finito il ciclo materiale tutto termini. Invece l'ateo NON sa niente riguardo all'esistenza o meno di una realtà trascendente, egli è ignorante nel senso più deteriore del termine, perché crede di sapere spacciando il pregiudizio per verità. In realtà la nostra ragione ha dei limiti e ciò che sembra insensato o improbabile razionalmente può anche essere vero. Molte delle nostre certezze, su cui basiamo la nostra vita, non è detto che siano nemmeno vere, ad esempio noi diamo per certa l'esistenza della solidità della materia, ma se si guarda il mondo in una prospettiva infinitamente piccola si nota come tutto sia energia, anche la materia stessa lo è: infatti alcuni fisici quantistici parlano di illusione della materia, sottolineando il fatto che la realtà potrebbe essere diversa da come ci appare. Quindi se non possiamo nemmeno essere certi della verità della realtà che ci circonda, come possiamo escludere che esista un'altra dimensione ultraterrena? Se tutto è energia allora anche la nostra mente potrebbe sopravvivere al campo energetico del corpo.
In realtà nessuno (né ateo, né credente) può dire con sicurezza se la sua vita (esperienza cosciente) proseguirà dopo la sua morte.
Ma trovo molto più ragionevole credere che cesserà, dal momento che di esperienze coscienti abbiamo esperienza solo e unicamente in presenza di cervelli vivi e funzionanti (non in coma): il credente é per lo meno altrettanto ignorante e in maniera per lo meno altrettanto deteriore del miscredente perché crede altrettanto indimostrabilmente qualcosa che é per lo meno altrettanto "a rischio falsità".
Questo in generale, a prescindere in particolare dalle plateali contraddizioni logiche che rendono del tutto assurde le religioni "abramitiche": esistenza di un Dio onnipotente e immensamente buono e pure del male.
Il fatto che la nostra ragione ha dei limiti non é un buon motivo per credere a "di tutto e di più" (men che meno a insiemi di di credenze complessivamente contraddittori e dunque assurdi, senza senso).
Energia e fisica quantistica non c' entrano per nulla con l' ipotesi indimostrabile di qualsiasi eventuale sopravvivenza delle esperienze coscienti alla morte fisica dei cervelli con i quali inevitabilmente le constatiamo coesistere- codivenire.
Citazione di: InVerno il 01 Marzo 2019, 16:03:44 PM
Non a caso abbiamo elaborato il concetto di "martire" che tuttavia a mio avviso è semplicemente una "sottocategoria" di quel che più in generale può essere considerato morte volontaria. Rimando in tal caso alle distinzioni fatte da Émile Durkheim, padre della sociologia moderna, riguardo al suicidio egoistico, anomico, e altruistico. L'eroismo (o il martirio) difende un bene superiore anche con la vita, ma chi è in grado di definire chi sia esattamente un eroe od un pezzente? Se una persona sente profondamente di essere "il peccato originale della propria vita", e considera la sua dipartita un bene per tutti (suicidio anomico) chi
sarebbe di preciso che dovrebbe valutare la correttezza della sua posizione? La chiesa? La storia? Gli amici? Bah.Non a caso gli ebrei non hanno mai considerato Cristo un martire, quanto magari uno sciocco.
Citazione
Ma c' é morte volontaria e morte volontaria.
E non distinguere fra morte eroicamente accetta con pieno appagamento delle proprie aspirazioni e suicidio (da disperazione) é un bell' esempio dell' hegeliana "notte in cui tutte le vacche sembrano nere".
Chiunque non sia accecato da pregiudizi sa benissimo constatare se una morte é un atto di eroismo o un suicidio. Il suicida non riesce più a sopportare la vita, mentre l' eroe la vive fino in fondo.
Ognuno trova innanzitutto nella propria coscienza il giudice della propria condotta.
E questo in base a principi etici che ritengo universalmente diffusi nell' umanità nelle loro caratteristiche più generali astratte, variamente declinati nel corso della storia nei loro aspetti più particolare concreti (non dimostrabili in alcun modo, ma bene spiegabile dall' evoluzione biologica).
C'è una distinzione tra suicidio e martirio, ma per quanto ho capito io del cristianesimo delle origini, l'idea che la "vita venga prima di tutto sempre e comunque" mi pare che sia BEN LUNGI dall'essere una posizione storicamente credibile per quanto riguarda Cristo e i suoi discepoli vicini e lontani, quanto un modernismo a-la "volemose bene" di cui la chiesa moderna è cosi tronfiamente campionessa. E' una questione di coerenza interna alla religione, più che del valore da dare all'eroismo, che può essere dibattuto.
Citazione
Dunque ne devo dedurre che secondo te il cristianesimo (correttamente inteso, non caricaturalmente deformato da un modernismo a-la "volemose bene" di cui la chiesa moderna è cosi tronfiamente campionessa) ammette suicidio ed eutanasia!
Citazione di: Ipazia il 01 Marzo 2019, 16:34:18 PM
Rammento che l'invito a non fantasticare troppo su quello che potrebbe esserci e a concentrare l'attenzione su quello che può essere dimostrato esistere viene da un monaco francescano del XIV secolo era cristiana.
Un grande razionalista!
La prudenza, caro
Sari, non dovrebbe solo indurci a lasciare sempre aperta la porta al dubbio su quanto ci sembra di constatare, ma ancor di più a non lasciarci andare a presunte certezze circa quanto nemmeno ci sembra di constatare.
Secondo me il "male" è tale solo se visto da un certo punto di vista, cambia la prospettiva e non è più un male. Mettiamo il caso di un uomo che perde il lavoro che gli serviva per vivere e finisce in miseria, tutti direbbero che se si tratta indubbiamente di un male molto grave, ma noi non sappiamo che cosa gli poteva capitare in seguito con quel lavoro, forse sarebbe stato in futuro mobbizzato con grandi sofferenze e quindi la perdita del lavoro diventa quasi un bene in questa prospettiva più ampia. Non possiamo quindi stabilire in assoluto che cosa sia davvero bene e che cosa male, perché non conoscendo il futuro e le diverse possibilità non possiamo sapere che cosa sarebbe accaduto SE quella cosa ritenuta cattiva non fosse successa. Ma andiamo oltre. Mettiamo il caso di un bambino che muoia in tenera età, ovviamente tutti direbbero che è un male gravissimo, forse il peggiore dei mali che possano capitare, ma è davvero così? Io da credente penso che Dio abbia permesso quel male per prenderlo con sé quando ancora era innocente e gli ha evitato di macchiarsi di peccati forse anche gravissimi in vita, forse se non moriva sarebbe diventato un criminale o comunque un uomo spietato ed arido, senza coscienza e quindi la sua anima si sarebbe dannata. Forse quel bambino aveva semplicemente esaurito il compito che Dio gli aveva dato in questa vita e quindi la sua morte, ben lungi dall'essere una disgrazia terribile, diventerebbe in questa prospettiva addirittura un dono che Dio gli ha fatto, poiché essendo morto ancora innocente non dovrà espiare nessuna colpa nell'al di là. Il peccato secondo me più grave che si può fare è proprio il suicidio, perché se io deciso di mettere fine alla mia vita è come se mi ribellassi (anche inconsapevolmente) a Dio che me l'ha data, è come se dicessi a Dio che ha creato e concepito un errore umano, che ha sbagliato tutto, e quindi con il suicidio l'anima muore in stato di opposizione alla fonte della vita, e la conseguenza non può che essere, dal mio punto di vista, devastante, il suicida continuerà a soffrire di un'angoscia indicibile per l'eternità, resterà per sempre in quella condizione di sconforto e solitudine in cui si trovava quando ha commesso l'atto.
Citazione di: sgiombo il 01 Marzo 2019, 17:52:48 PMDunque ne devo dedurre che secondo te il cristianesimo (correttamente inteso, non caricaturalmente deformato da un modernismo a-la "volemose bene" di cui la chiesa moderna è cosi tronfiamente campionessa) ammette suicidio ed eutanasia!
Che intendi per "ammette"? Se è suggerisce, invoglia, premia, giustifica il suicidio la risposta è NO. Se intendi che non lo condannasse, direi che fino a S.Agostino non si trova nessuna ingiunzione nettamente contraria a questa pratica, e al contempo si trovano caterve di "martiri" con diverse motivazioni (alcuni si buttavano anche dai crepacci, ma non so se fossero eroi, anche se tu dici che è facile distinguerli)..
Il cristianesimo certamente era, ma non è più almeno in seno alla chiesa cattolica, una dottrina apocalittica e lo rimane in parte per molte confessioni protestanti. E da questo punto di vista non si differenzia da tanti altri culti apocalittici anche moderni. Non è difficile capire perchè di fronte all'ipotesi della fine del mondo, alcuni individui "maggiormente integrati" prendano la decisione di voler raggiungere l'aldilà qualche giorno prima, sono quelli che non ci sperano più che hanno scoperto di essere incredibilmente attaccati alla vita!
Citazione di: Socrate78 il 01 Marzo 2019, 18:06:17 PM
Secondo me il "male" è tale solo se visto da un certo punto di vista, cambia la prospettiva e non è più un male. Mettiamo il caso di un uomo che perde il lavoro che gli serviva per vivere e finisce in miseria, tutti direbbero che se si tratta indubbiamente di un male molto grave, ma noi non sappiamo che cosa gli poteva capitare in seguito con quel lavoro, forse sarebbe stato in futuro mobbizzato con grandi sofferenze e quindi la perdita del lavoro diventa quasi un bene in questa prospettiva più ampia. Non possiamo quindi stabilire in assoluto che cosa sia davvero bene e che cosa male, perché non conoscendo il futuro e le diverse possibilità non possiamo sapere che cosa sarebbe accaduto SE quella cosa ritenuta cattiva non fosse successa. Ma andiamo oltre. Mettiamo il caso di un bambino che muoia in tenera età, ovviamente tutti direbbero che è un male gravissimo, forse il peggiore dei mali che possano capitare, ma è davvero così? Io da credente penso che Dio abbia permesso quel male per prenderlo con sé quando ancora era innocente e gli ha evitato di macchiarsi di peccati forse anche gravissimi in vita, forse se non moriva sarebbe diventato un criminale o comunque un uomo spietato ed arido, senza coscienza e quindi la sua anima si sarebbe dannata. Forse quel bambino aveva semplicemente esaurito il compito che Dio gli aveva dato in questa vita e quindi la sua morte, ben lungi dall'essere una disgrazia terribile, diventerebbe in questa prospettiva addirittura un dono che Dio gli ha fatto, poiché essendo morto ancora innocente non dovrà espiare nessuna colpa nell'al di là. Il peccato secondo me più grave che si può fare è proprio il suicidio, perché se io deciso di mettere fine alla mia vita è come se mi ribellassi (anche inconsapevolmente) a Dio che me l'ha data, è come se dicessi a Dio che ha creato e concepito un errore umano, che ha sbagliato tutto, e quindi con il suicidio l'anima muore in stato di opposizione alla fonte della vita, e la conseguenza non può che essere, dal mio punto di vista, devastante, il suicida continuerà a soffrire di un'angoscia indicibile per l'eternità, resterà per sempre in quella condizione di sconforto e solitudine in cui si trovava quando ha commesso l'atto.
Si può "rigirare" come si vuole l' esistenza del male e considerare che dal male può anche nascere il bene (ma pure viceversa!), ma resta comunque insuperata la contraddizione (il-) logica delle tre proposizioni:
Esiste Dio
onnipotente (e non: "quasi onnipotente".)
Il quale é
immensamente buono (e non "molto buono, ma anche con qualche elemento di cattiveria").
Ed esiste anche il male (per quanto limitato, tale che ne può anche nascerne del bene, ecc.).
Le ultime affermazioni mi confermano nella convinzione (negata da altri cristiani a mio parere meno ortodossi) che la religione cristiana -e pure ebraica e musulmana- considera che si deve vivere comunque a qualsiasi costo e non alla condizione di esserne felici.
Citazione di: InVerno il 01 Marzo 2019, 18:50:16 PM
Che intendi per "ammette"? Se è suggerisce, invoglia, premia, giustifica il suicidio la risposta è NO. Se intendi che non lo condannasse, direi che fino a S.Agostino non si trova nessuna ingiunzione nettamente contraria a questa pratica, e al contempo si trovano caterve di "martiri" con diverse motivazioni (alcuni si buttavano anche dai crepacci, ma non so se fossero eroi, anche se tu dici che è facile distinguerli)..
Citazione
Il martirio é una cosa, il suicidio é ben altra cosa!
Se mi dici, come infatti mi dici (é un copia-incolla) che:
l'idea che la "vita venga prima di tutto sempre e comunque" mi pare che sia BEN LUNGI dall'essere una posizione storicamente credibile per quanto riguarda Cristo e i suoi discepoli vicini e lontani, quanto un modernismo a-la "volemose bene" di cui la chiesa moderna è cosi tronfiamente campionessa,
Allora ne deduco che il cristianesimo (secondo te) ammette suicidio ed eutanasia: il conservare la vita può ben "venire dopo" (fra l' altro) l' esigenza di evitare l' infelicità!
Il cristianesimo certamente era, ma non è più almeno in seno alla chiesa cattolica, una dottrina apocalittica e lo rimane in parte per molte confessioni protestanti. E da questo punto di vista non si differenzia da tanti altri culti apocalittici anche moderni. Non è difficile capire perchè di fronte all'ipotesi della fine del mondo, alcuni individui "maggiormente integrati" prendano la decisione di voler raggiungere l'aldilà qualche giorno prima, sono quelli che non ci sperano più che hanno scoperto di essere incredibilmente attaccati alla vita!
Citazione
Ma non mi sembra che negli Atti degli apostoli o in altri documenti sulla vita dei primi cristiani ci sia alcun esempio, men che meno approvato e consigliato come da imitare, di suicidio per "anticipare l' apocalissi".
scopro il topic in colpevole ritardo, chiedo scusa se mi inserisco rischiando di interferire in una discussione che, noto, ha già preso una tendenza che va al di là della semplice risposta alle domande di apertura
Per quanto riguarda il rapporto tra vivere e lavorare, penso sia necessario chiarire la motivazione primaria del "lavoro", nella misura in cui il lavoro si intende solo come attività che ha in una retribuzione economica il suo fine, allora certamente il lavoro ha senso solo in funzione della vita, e non viceversa. Questo perché il denaro è un mezzo e non un fine, il suo valore si riduce al permettere di acquistare degli oggetti di cui avvertiamo un bisogno. Per questo sono profondamente in disaccordo col principio che "chi non lavora, non mangia", chi pretende di misurare la dignità di un'esistenza sulla base del successo economico ottenuto tramite il lavoro, non è certo quello l'unico parametro per valutare il significato di una vita, nonché dello stesso lavoro, sarebbe come, esempio che avevo già utilizzato in altre discussioni, se uno scrittore di libri su oroscopi o libri di barzellette destinato a vendere molto di più rispetto a un autore di saggi su Platone o sull'astrofisica dovesse considerare per questo il suo lavoro come più nobile e dignitoso del secondo, anche se il suo successo commerciale è dato proprio dal trattare temi più banali e superficiali, di minor spessore culturale. Se invece si intende il lavoro come attività che, al di là della finalità economica, procura un piacere, una soddisfazione personale (la soddisfazione di rendersi utile alla società, di veder nei propri prodotti l'espressione delle proprie idee, o valori, sentirsi parte di una comunità di colleghi a cui affezionarsi ecc.) allora il lavoro non è più solo mezzo, ma come valore in sé, fermo restando che anche in questo caso non può mai esaurire la totalità degli interessi di una persona, cioè la persona mantiene un valore anche al di là del suo ruolo sociale, che sia piacevole o meno, fintanto che ha pensieri e sentimenti non rivolti solo all' attività lavorativa a cui si dedica.
Sono convinto che si viva per essere felici, e non si viva indipendentemente dalla felicità, ma questo vale per noi esseri umani, che in virtù del pensiero astratto che ci contraddistingue, non ci accontentiamo di soddisfare i bisogni primari, legati alla sopravvivenza biologica, ma sappiamo valutare la nostra vita in modo critico, relativizzandola sulla base del giudizio di aderenza a un ideale di felicità, e nel caso si riconosca un livello di distanza ampio oltre un certo limite tra vita reale e ideale regolativo di felicità, si ha disposizione la possibilità del suicidio, Tutto ciò, a condizione di non identificare il concetto di felicità con quello di "piacere sensibile". Identificandoli, la felicità non potrebbe essere assunto come ideale distinto dall'effettiva condizione materiale in cui si vive, al contrario noi poniamo, tramite l'immaginazione, uno scarto fra la vita come è e l'ideale di vita come vorremmo fosse, in quanto l'immaginazione implica sempre un'astrarsi dall'esperienza sensibile immediata diretta ai fatti.
è vero che il cristianesimo condanna il suicidio e l'eutanasia, ma questo non implica che l'idea di vivere in funzione della felicità sia prerogativa unicamente degli atei/materialisti, son infatti convinto che nel porre la preservazione della vita biologica come un valore assoluto, in qualche modo il cristianesimo sconti una certa componente "materialista" consistente nella credenza in un Dio che si fa carne, per la quale forse si hanno delle ritrosie a considerare ragione e volontà individuale come facoltà legittimate a mettere in discussione il corso biologico dell'esistenza, come per un timore ad attribuire allo "spirito" una libertà e superiorità troppo nette sul corpo. Se da un lato è vero che il cristianesimo esalta e santifica i martiri che hanno accettato di sacrificare la loro vita pur di non abiurare alla loro fede, è anche vero che in questo caso non si può parlare di "suicidio" in senso autentico, in quanto il martire non desidera morire, ma in linea teorica, pur anteponendo alla propria vita un valore superiore, resta pur sempre speranzoso, fino all'ultimo, di un miracolo, cioè l'intervento divino che li salva dalla morte, senza bisogno di salvarsi commettendo peccato, è una sfumatura importante. Per quanto mi riguarda, trovo che la vita sia un valore relativo a un ideale di felicità di fronte al quale sarebbe anche legittimo scegliere di smettere di vivere, quindi mi distanzio dalla posizione cristiana in merito, ma non da un punto di vista ateo, ma, al contrario da uno ancora più "spiritualistico" di quello cristiano: si potrebbe definire un "deismo", credo nell'esistenza di un Principio puramente spirituale, che però non può essere rappresentato in una rivelazione umana, e dunque in alcuna confessione storica organizzata, condizionata dall'esperienza sensibile, e quindi in base a ciò riconoscere che la componente della persona che elabora aspettative di senso e ideali di realizzazione debba avere la priorità rispetto al puro corso biologico della vita, e quindi accettare la possibilità di sospendere quest'ultimo (la materia) quando troppo in contrasto con l'ideale esistenziale (lo "spirito")
Citazione di: sgiombo il 01 Marzo 2019, 19:28:59 PMAllora ne deduco che il cristianesimo (secondo te) ammette suicidio ed eutanasia: il conservare la vita può ben "venire dopo" (fra l' altro) l' esigenza di evitare l' infelicità!
Il cristianesimo (o meglio il cattolicesimo) attualmente è in una situazione così confusa che i suoi prelati sono assolutamente inflessibili su questioni che nel vangelo non vengono nemmeno menzionate di striscio (dalle questioni sessuali al suicidio). Mentre invece sono dispostissimi a discutere anche per anni, dell'unica cosa a cui Cristo ha fornito una soluzione precisa, pragmatica, e per niente rispettosa della vita: cosa farsene dei pedofili. Trovare la quadra in questo bailamme non spetta certamente a me, anche i culti commettono "suicidio" in un certo senso. Mi fa semplicemente sorridere che l'unica religione al mondo, passato e presente, che ha come nodo gordiano un sacrificio umano, con tutto ciò che ne consegue (nel bene e nel male, anche MOLTO di bene) vada poi a pontificare sulle ragioni degli altri. Il mondo va così, è bizzarro, e ce ne dobbiamo far ragione.
Citazione di: Socrate78 il 01 Marzo 2019, 16:53:03 PM
@Ipazia: Io continuo a credere che esista un mondo ultraterreno e che la nostra ragione abbia dei limiti e non possa escludere il trascendente in linea assoluta. Non siamo portatori di una verità assoluta su ciò che esiste, immagina ad esempio la mente di un cane, egli vede una lampadina che si accende ma non potrà mai concepire l'esistenza dell'energia elettrica, perché la sua mente limitata non può comprendere e descrivere un tale concetto, è al di sopra delle sue possibilità. Così è secondo me per Dio e la realtà ultraterrena, noi con la nostra ragione non possiamo descrivere una realtà simile e siamo tendenzialmente portati a negarla da una prospettiva puramente razionale, tuttavia potrebbe essere come l'energia elettrica per il cane, qualcosa che la nostra mente non può comprendere appieno.
Non intendo negare a nessuno la possibilità che la natura gli concede di immaginarsi la realtà oltre le colonne d'Ercole del mondo conosciuto, ma l'esempio da te portato non è esente da una contraddizione interna: per superare i limiti cognitivi del cane è necessario un uomo in carne ed ossa, non semplicemente postulato, che sappia di elettricità. Quello stesso uomo che spiega scientificamente i terremoti attribuiti un tempo agli dei e gli uragani attribuiti ai kami. Spiegazioni che il monaco medioevale sopra citato ritiene più esaustive di quelle sovrannaturali.
Quindi l'ipotesi di un
cane uomo che non sa, in assenza di un nume che sa (non verificabile, ma solo ipotizzabile), resta, per così dire, leggermente sospesa per aria.
Citazione di: davintro il 01 Marzo 2019, 20:03:24 PM
Per quanto mi riguarda, trovo che la vita sia un valore relativo a un ideale di felicità di fronte al quale sarebbe anche legittimo scegliere di smettere di vivere, quindi mi distanzio dalla posizione cristiana in merito, ma non da un punto di vista ateo, ma, al contrario da uno ancora più "spiritualistico" di quello cristiano: si potrebbe definire un "deismo", credo nell'esistenza di un Principio puramente spirituale, che però non può essere rappresentato in una rivelazione umana, e dunque in alcuna confessione storica organizzata, condizionata dall'esperienza sensibile, e quindi in base a ciò riconoscere che la componente della persona che elabora aspettative di senso e ideali di realizzazione debba avere la priorità rispetto al puro corso biologico della vita, e quindi accettare la possibilità di sospendere quest'ultimo (la materia) quando troppo in contrasto con l'ideale esistenziale (lo "spirito")
Caro davintro la tua filosofia è espressione di una hybris intellettuale estrema perché quel
Principio puramente spirituale non puoi che essere tu, ovvero una tua emanazione, che si erge ad arbitro unico e indiscusso della tua vita a partire da una visione valoriale (ideale esistenziale) che non può rimandare che a te, su cui tu misuri tutte le cose come dovrebbero essere.
Ci vuole davvero molto "spirito" per una hybris così radicale.
Citazione di: davintro il 01 Marzo 2019, 20:03:24 PM
Questo perché il denaro è un mezzo e non un fine, il suo valore si riduce al permettere di acquistare degli oggetti di cui avvertiamo un bisogno. Per questo sono profondamente in disaccordo col principio che "chi non lavora, non mangia", chi pretende di misurare la dignità di un'esistenza sulla base del successo economico ottenuto tramite il lavoro, non è certo quello l'unico parametro per valutare il significato di una vita, nonché dello stesso lavoro,
Citazione
Però la dignità di un' esistenza non si identifica nemmeno con il diritto a mangiare senza lavorare.
Questo, in un ordinamento sociale giusto dovrebbe essere subordinato alla produzione dei mezzi di sussistenza (con cui fra l' altro alimentarsi), salvo "casi di forza maggiore", e non sull' indebita appropriazione di mezzi prodotti da altri al nostro posto.
è vero che il cristianesimo condanna il suicidio e l'eutanasia, ma questo non implica che l'idea di vivere in funzione della felicità sia prerogativa unicamente degli atei/materialisti,
Citazione
Però implica che sia prerogativa unicamente degli atei (non necessariamente materialisti) il considerarsi in diritto di togliersi la vita in caso di eccessiva infelicità.
Sul resto di quanto scrivi o sono pienamente d' accordo o comunque, malgrado divergenze (in particolare: da "mi distanzio dalla posizione cristiana in merito, ma non da un punto di vista ateo, ma, al contrario da uno ancora più "spiritualistico" di quello cristiano: si potrebbe definire un "deismo", credo nell'esistenza di un Principio puramente spirituale, che però non può essere rappresentato in una rivelazione umana, e dunque in alcuna confessione storica organizzata, condizionata dall'esperienza sensibile"), non ho obiezioni da opporre.
Grazie per aver accetto l' invito al confronto di opinioni.
Per Ipazia
Riconoscere l'esistenza di un principio puramente spirituale non è una proiezione di me stesso, dato che quel principio non sono certo io, che come essere umano finito, ammetto la presenza di uno "spirito" come unito alla materia, impossibilitato a porsi come "spirito puro". Anzi, se si vuole, troverei più forte espressione di hybris l'idea di valutare i limiti di possibilità dell'esistenza di categorie come appunto "spirito" usando come metro di misura il modo in cui tale categorie esistono all'interno di un contesto determinato particolare come l'essere umano. Cioè, trovo più indice di antropocentrismo negare la possibilità di esistenza di un principio puramente spirituale sulla base del fatto che l'unica spiritualità di cui abbiamo umana esperienza non esiste in forma pura e nella sua pienezza, piuttosto che riconoscere una trascendenza proprio sulla base della percezione del limite della nostra visuale: senso del trascendente e del limite sono sempre connessi: proprio il riconoscere la nostra limitatezza avvertiamo la presenza di un "oltre" in relazione a cui siamo limitati: tutto l'opposto della hybris
Per davintro
Ogni sensazione personale è legittima, inclusa quella di uno spirito indipendente dalla materia. Ma il problema nasce dal fatto che questo spirito ha bisogno della materia umana per manifestarsi e far valere le sue ragioni, lasciandoci sempre nel dubbio di quale sia la farina del suo o del nostro sacco.
Per Davintro (anche da parte mia)
L' esistenza di limiti non significa necessariamente che oltre di essi sia reale qualcosa anziché (non esista il) nulla.
E se si parla di limiti della nostra conoscenza l' atteggiamento per me preferibile (più razionalistico) é la sospensione del giudizio, dal momento che quasiasi affermazione é per definizione una congettura del tutto infondata, non ha alcuna garanzia di verità.
State usando il concetto di hybris nella sua concezione cattolica che lo intende come "peccato della ragione che vuole equipararsi a dio"
La hybris greca è diversa e si concretizza nell'arroganza, nell orgoglio e nella prepotenza dell'uomo sull uomo preferibilmente greco, preferibilmente prestante, preferibilmente proprietario di greggi.
La hybris cattolica è invece quella che ci rende quel che siamo.
Macchine biologiche per pensare.
La hybris di Prometeo non è molto diversa da quella dei progenitori della Genesi. In entrambi i casi suscita la vendetta dei numi di fronte alla hybris umana desiderosa di emanciparsi dal loro potere attraverso la conoscenza e le sue applicazioni tecnologiche. Più metafisica la versione giudaico-cristiana, più esplicita e concreta quella greca, ma psicologicamente analoghe nell'indurre il Timor Dei di fronte al desiderio blasfemo di superare le colonne d'Ercole.
Prometeo non era umano ma un titano.
Si pone al di fuori della hybris, o meglio a lui non può essere applicato il concetto di hybris.
La hybris appartiene agli uomini (greci, aitanti e proprietari di greggi, solo a loro, come il lion's club dei tempi ).
La dimensione di Prometeo è mitologica (e in ogni caso "più mitologica" di quella di Agamennone, scolastico esempio di hybris) e in comune con gli umani subisce la nemesis degli dei ma non per hybris, per tradimento nei loro confronti, proprio lui che aveva combattuto assieme a zeus.
Anche Adamo Eva è Lucifero sono mitologici. La hybris è in tutti i casi narrazione della contrapposizione tra divino ed umano. Violazione del diritto imposto dalla divinità.
per Sgiombo
mi è impossibile accettare il principio del "chi non lavora non mangia" perché figlio di una mentalità collettivista, che riduce la persona a semplice strumento e ruota dell'ingranaggio sociale, lontano anni luce da me. Vincolare il benessere al lavoro vuol dire ridurre il valore della persona a quanto si rende utile nel suo agire sociale, non considerando tutta la sfera interiore, di pensieri e sentimenti che si possiede indipendentemente dall'avere un lavoro o meno. Per me è sufficiente che si dia questa sfera per poter parlare di dignità e conseguentemente diritto di vivere, cioè per me la dignità è un dato ontologico, naturale, non il frutto di uno scambio, per cui in cambio di come ci si rende utili alla società si ottiene dignità e rispetto. Pensare a uno scambio presupporebbe un rapporto alla pari tra individui e società, cosa assurda, in quanto mentre gli individui sono esseri concreti, in carne e ossa, datati di bisogni vitali e di sentimenti, la società è solo un sistema di mezzi funzionale all'esaudimento dei bisogni degli individui che la istituiscono, al di fuori di tale strumentalità non ha alcun significato. Pensare che sia la società, tramite il lavoro ad assegnare dignità alle persone vuol dire attribuire ad essa un'autorità etica del tutto incompatibile con la sua accezione di mero strumento. Come mero strumento la società dovrebbe limitarsi a cercare di garantire a un numero più ampio di persone possibile un livello massimo di benessere, e questo va in controtendenza con l'imposizione di un ricatto per cui la garanzia dell'esistenza viene vincolata ad accettare qualunque tipo di lavoro, anche il più sgradevole e lontano dalle nostre aspirazioni. Tutto l'opposto della funzione fondamentale della società, quella di rimuovere il più possibile ostacoli alla libera realizzazione di ogni persona a vivere in base alle sue diverse inclinazioni. Insomma, condivido l'imperativo kantiano di agire trattando ogni persona come fine e non come mezzo (anche se, probabilmente non condividendo in toto le premesse teoriche kantiane a partire da cui questo pensiero è nato). E anche, ammesso e non concesso, di concepire l'utilità sociale come fattore necessitante la dignità e il diritto all'esistenza, trovo molto limitante ridurre l'utilità alla produzione di mezzi di sussistenza, come se il lavoro creativo e intellettuale, quello di insegnanti, artisti, scrittori, non producenti beni materiali ma idee e emozioni non fosse considerato un vero lavoro, ma solo un hobby da parassiti fannulloni. Tramite il loro lavoro offrono un contributo alla società non meno importante di quello materiale e al contempo realizzano se stessi in coerenza con le loro inclinazioni e interessi, che non sono certo gli stessi (e non si vede perché debbano esserlo per forza) di chi svolge un lavoro manuale o di gestione aziendale. La nostra stessa costituzione repubblicana, che pure da al valore del lavoro così tanta centralità accosta al progresso materiale il progresso spirituale (morale, recita lletteralmente) nell'elencare i fini del contributo dei cittadini.
Trovo l'esistenza del limite necessariamente implicante l'esistenza di un "oltre" positivo, altrimenti il nostro limite non ci sarebbe, dato che ci sarebbe, appunto, nulla oltre esso, senza il nulla oltre di noi saremmo tutto e non ci riconosceremmo come limitati. Riconoscere la positività di questo oltre non vuol dire avere la pretesa di averne una conoscenza razionale esaustiva. Questa pretesa implicherebbe la caduta dell'immanentismo, cioè l'idea che tutta la realtà coincida con le nostre possibilità conoscitive, e questo, come evidente, è in contraddizione con la premessa del limite, il mio pensiero coinciderebbe con la totalità degli aspetti del reale. Non c'è invece alcuna contraddizione nel riconoscere, da un lato l'esistenza di questa realtà trascendente i nostri limiti, dall'altro la sua irriducibilità rispetto le possibilità di averne una conoscenza esaustiva, a meno di non pensare assurdamente che l'esistenza di un ente sia l'unica proprietà che lo caratterizzi, e che dunque riconoscendo che qualcosa esiste solo per questo sapremmo tutto di esso
Citazione di: davintro il 05 Marzo 2019, 21:36:52 PM
per Sgiombo
mi è impossibile accettare il principio del "chi non lavora non mangia" perché figlio di una mentalità collettivista, che riduce la persona a semplice strumento e ruota dell'ingranaggio sociale, lontano anni luce da me. Vincolare il benessere al lavoro vuol dire ridurre il valore della persona a quanto si rende utile nel suo agire sociale, non considerando tutta la sfera interiore, di pensieri e sentimenti che si possiede indipendentemente dall'avere un lavoro o meno.
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Non é affatto vero!
Vuol dir solo pretendere una giusta produzione e distribuzione dei beni necessari a vivere.
Il collettivismo é il miglior modo per promuovere il libero sviluppo di ciascuno in armonia con (e non a discapito de-) il libero sviluppo di ciascun altro.
Per me è sufficiente che si dia questa sfera per poter parlare di dignità e conseguentemente diritto di vivere, cioè per me la dignità è un dato ontologico, naturale, non il frutto di uno scambio, per cui in cambio di come ci si rende utili alla società si ottiene dignità e rispetto. Pensare a uno scambio presupporebbe un rapporto alla pari tra individui e società, cosa assurda, in quanto mentre gli individui sono esseri concreti, in carne e ossa, datati di bisogni vitali e di sentimenti, la società è solo un sistema di mezzi funzionale all'esaudimento dei bisogni degli individui che la istituiscono, al di fuori di tale strumentalità non ha alcun significato.
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Se anche fosse, ammesso e non concesso, non ci sarebbe proprio nulla di assurdo: si ottiene dagli altri rispetto e riconoscimento di dignità nella mistura in cui si contribuisce al benessere proprio e altrui e non si campa parassitariamente sul lavoro altrui (in caso di "cause di forza maggiore" -invalidità di variabile misura- non di parassitismo ma di buon diritto si tratterebbe ovviamente).
Pensare che sia la società, tramite il lavoro ad assegnare dignità alle persone vuol dire attribuire ad essa un'autorità etica del tutto incompatibile con la sua accezione di mero strumento.
Come mero strumento la società dovrebbe limitarsi a cercare di garantire a un numero più ampio di persone possibile un livello massimo di benessere, e questo va in controtendenza con l'imposizione di un ricatto per cui la garanzia dell'esistenza viene vincolata ad accettare qualunque tipo di lavoro, anche il più sgradevole e lontano dalle nostre aspirazioni. Tutto l'opposto della funzione fondamentale della società, quella di rimuovere il più possibile ostacoli alla libera realizzazione di ogni persona a vivere in base alle sue diverse inclinazioni.
Insomma, condivido l'imperativo kantiano di agire trattando ogni persona come fine e non come mezzo (anche se, probabilmente non condividendo in toto le premesse teoriche kantiane a partire da cui questo pensiero è nato).
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Mi dispiace per te e per l' abominevole Thatcher, ma la società esiste come imprescindibile caratteristica innanzitutto naturale - biologica e poi storica - culturale degli uomini (e limitatamente al suo aspetto naturale - biologico anche di tante altre specie animali).
E non come mero strumento al servizio degli individui.
E anche, ammesso e non concesso, di concepire l'utilità sociale come fattore necessitante la dignità e il diritto all'esistenza, trovo molto limitante ridurre l'utilità alla produzione di mezzi di sussistenza, come se il lavoro creativo e intellettuale, quello di insegnanti, artisti, scrittori, non producenti beni materiali ma idee e emozioni non fosse considerato un vero lavoro, ma solo un hobby da parassiti fannulloni.
Tramite il loro lavoro offrono un contributo alla società non meno importante di quello materiale e al contempo realizzano se stessi in coerenza con le loro inclinazioni e interessi, che non sono certo gli stessi (e non si vede perché debbano esserlo per forza) di chi svolge un lavoro manuale o di gestione aziendale. La nostra stessa costituzione repubblicana, che pure da al valore del lavoro così tanta centralità accosta al progresso materiale il progresso spirituale (morale, recita lletteralmente) nell'elencare i fini del contributo dei cittadini.
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E chi avrebbe mai considerato il lavoro creativo e intellettuale, quello di insegnanti, artisti, scrittori, non un vero lavoro, ma solo un hobby da parassiti fannulloni ? ! ? ! ? !
Si tratta di lavori producenti eccome, anche se indirettamente, beni materiali, oltre che idee e emozioni (senza questo lavoro di fatto da millenni non sarebbe possibile produrre beni materiali: sarebbe per assurdo possibile solo nelle ideologiche fantasticherie "robinsoniane" dell' individualismo borghese capitalistico).
Peraltro (per lo meno nel capitalismo) per me quello di "gestione aziendale", che é quanto di più differente dal lavoro creativo e intellettuale, quello di insegnanti, artisti, scrittori che offrono un contributo alla società non meno importante di quello materiale, non é affatto lavoro ma parassitismo e sfruttamento del lavoro altrui.
Trovo l'esistenza del limite necessariamente implicante l'esistenza di un "oltre" positivo, altrimenti il nostro limite non ci sarebbe, dato che ci sarebbe, appunto, nulla oltre esso, senza il nulla oltre di noi saremmo tutto e non ci riconosceremmo come limitati.
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Appunto: oltre il limite del tutto c' é proprio (il) nulla.
Riconoscere la positività di questo
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significa cadere in contraddizione: affermare che oltre il limite del tutto "positivamente" reale" ci sarebbe qualcos' altro di ulteriormente "positivamente" reale (tutto il reale == parte del reale ! ! !).
oltre non vuol dire avere la pretesa di averne una conoscenza razionale esaustiva. Questa pretesa implicherebbe la caduta dell'immanentismo, cioè l'idea che tutta la realtà coincida con le nostre possibilità conoscitive, e questo, come evidente, è in contraddizione con la premessa del limite, il mio pensiero coinciderebbe con la totalità degli aspetti del reale.
Citazione
Di ciò che eccede il reale può veracemente (ma tautologicamente) conoscersi solo che non esiste/accade realmente.
Non c'è invece alcuna contraddizione nel riconoscere, da un lato l'esistenza di questa realtà trascendente i nostri limiti, dall'altro la sua irriducibilità rispetto le possibilità di averne una conoscenza esaustiva, a meno di non pensare assurdamente che l'esistenza di un ente sia l'unica proprietà che lo caratterizzi, e che dunque riconoscendo che qualcosa esiste solo per questo sapremmo tutto di esso
Citazione
Realtà trascendente i nostri limiti percettivo e/o conoscitivi =/= non realtà (nulla di reale).
Invece che della Realtà trascendente i nostri limiti conoscitivi non possa aversi conoscenza é una tautologia.
Salve davintro. Ma tu l'espressione che hai citato : "Tutto l'opposto della funzione fondamentale della società, quella di rimuovere il più possibile ostacoli alla libera realizzazione di ogni persona a vivere in base alle sue diverse inclinazioni.".........l'hai orecchiata da qualche parte (lasciamo perdere i Sacri Testi Resistenzial-Buonistici) o l'hai meditata ?
Una società che si fa paladina degli estri individuali (l'inclinazione spontanea di milioni di persone è l'ozioso parassitismo) !!!!!!! Saluti.