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Messaggi - Jothin Cook

#1
Tematiche Filosofiche / Re:NIZZA
19 Luglio 2016, 15:08:48 PM
A me sembra, Eutidemo, che il punto relativo a questa triste problematica degli attentati, non sia da porsi semplicisticamente e genericamente nei termini del rapporto che l'uomo debba avere con la morte, né in quelli della maggiore o minore sofferenza che questa comporti. Infatti, come giustamente affermava Seneca, siamo liberi in ogni momento di andarcene come meglio crediamo. Invece, la questione centrale da affrontare e risolvere è se sia più o meno giusto e legittimo che qualcuno si arroghi il diritto di togliere deliberatamente la vita ad un altro o addirittura, come nel caso trattato, ad una miriade di esseri umani, vigliaccamente, senza una ragione tangibile e inerente una determinata situazione di effettivo contrasto e/o conflitto dovuto ad interessi personali, infierendo così su degli inermi ed indifesi, anche in tenera età, con la freddezza e la spietatezza propria ad un assassino incallito! Non trovo affatto appropriato, inoltre, il paragone con il vaso che cade dal balcone, per quanto anche una incuria, da parte di quell'imprudente inquilino che non si accerti della sicura sistemazione sul davanzale del suo balcone del vaso che cadendo uccide un uomo, rappresenta un atto colposo che, come tale, viene giustamente punito dalla legge. Ecco, dunque, che la morte, in sé e per sé, rappresenta davvero l'ultimo dei problemi, laddove è il significato del gesto, l'atto impietoso, efferato ed arrogante, oltre che vile, a costituire l'oggetto di una riflessione che voglia davvero cogliere l'essenza di eventi simili a quelli accaduti a Nizza. L'istinto di conservazione dovrebbe qui indurci a riflettere ed a immedesimarci più da vicino sia con le vittime che con i parenti e gli amici di costoro, e questo vale non solo per coloro che vengono colpiti qui, in occidente, nella "civile" Europa, ma anche in Medioriente, in Africa, Asia e dappertutto! Se, in maniera rassegnata e fatalistica, dovessimo rinunciare a mettere in atto qualsiasi strumento di attenuazione, contenimento e difesa, che sia risolutivo, rispetto a tali questioni, coerentemente anche qualsiasi lotta condotta dagli esseri umani per conservare valori, civiltà e, insomma, la vita stessa, come ad es. la ricerca medica o qualsiasi opera ed intervento umani utili a migliorare le condizioni di vita, sarebbero inutili e vane, e tutto precipiterebbe subitaneamente nella barbarie e nell'incuria più devastanti e desolanti! Inoltre l'uso della ragione ed ogni sapere, compresa la filosofia, sarebbero assolutamente inutili, perché ritenuti inadeguati e superflui. Nessuno è immortale, ma non per questo ognuno si precipita senza motivo nel fuoco oppure si affoga in mare! La limitatezza della vita ne acuisce il valore, anziché detrarlo... Il tuo ragionamento, onestamente, ricorda molto più le tesi di Egesia, che non quelle, seppur sofistiche di Eutidemo: i sofisti, anche Gorgia nel suo discorso sul non essere in cui tramite la reductio ad absurdum dimostra che nulla è, erano comunque fedeli alla vita, e persino un Eraclito, il quale affermava che vivere o morire gli era indifferente, interrogato a tal proposito sul perché allora non optasse per la morte, rispose: "...ma perché mi è indifferente, appunto!"
#2
Citazione di: Jothin Cook il 15 Maggio 2016, 05:16:23 AM
Citazione di: paul11 il 02 Maggio 2016, 18:26:04 PMPersonalmente ritengo che storicamente l'orientale è legato più a come il pensiero ha pensato il reale, noi occidentali ci siamo invece approcciati alla realtà fisica mettendo in dubbio i nostri pensieri: per noi il focus è la realtà fisica poiché è descrivibile e logicamente falsa o vera e scientificamente dimostrabile nelle sue reiterazioni fenomeniche. Quindi per noi il razionale e vero equivale al mondo là fuori, per l'orientale il vero equivale al suo pensiero ed è falsa la realtà. E di nuovo ritorna la filosofia del reale metafisico greco contro il reale sperimentale della scienza moderna , il mondo del deduttivo contro l'induttivo.

Già... ma Eraclito, il cui pensiero sicuramente era scevro da concezioni metafisiche, - visto che la  μετά τα Φυσικά deriva dal nome di una trattazione aristotelica che veniva catalogata in testi collocati, appunto, dopo la Fisica, - poiché di molto precedente a queste, diceva, riferendosi alla sua riflessione e studio della Natura: "Ho indagato me stesso!". E questa semplice affermazione, la dice lunga su "cosa" fondamentalmente si voglia significare quando si parla di realtà: la parabola temporale che va dagli empiristi, attraverso Berkeley, Locke, col suo saggio sull'intelletto umano, fino a Kant e poi gli idealisti e infine Schopenhauer e Nietzsche, non sono altro che un immenso corollario o commento a quell'aforisma eracliteo... Nietzsche chiude questa parabola, negando qualsiasi organicità, e quindi ordinamento, oggettiva al reale, riducendolo a puro caos cui l'uomo imprime un significato, un ordine razionale e, quindi, una valutazione che scaturisce dalla sua volontà di potenza intesa come conoscenza, che attribuisce significato alle cose soltanto per poter vivere, annullando in un sol colpo mortale tutte le illusioni e le "favole" del passato, tramite le quali ci si era baloccati nella speranza in verità assolute che deprivavano la sua coscienza della consapevolezza della loro natura eminentemente antropocentrica. Questa concezione, squisitamente protagorea, viene pervicacemente rimossa, dal pensiero che segue, il quale fugge dal riconoscimento della "rivelazione" nietzschiana, per tornare, proprio con Heidegger, anche se in maniera davvero magistrale, a quel senso nascosto dell'essere che invece rimane tutta opera dell'uomo e del suo tentativo di attribuire un significato, anziché, come si vorrebbe credere, di ritrovarlo nelle cose stesse. Sicché, ancora riecheggia nella nostra civiltà straziata dalla "morte di dio", il detto di Eraclito: "Ho indagato me stesso"!
#3
Citazione di: maral il 06 Maggio 2016, 16:59:30 PM
Citazione di: acquario69 il 06 Maggio 2016, 04:54:41 AMsi questo lo avevo appunto capito e posso solo dire e concludere che la tua concezione e' agli antipodi da cio che penso io,perché lo avvertirei come un ribaltamento,anche in riferimento allo stesso zen a cui si sarebbe fatto riferimento..(il "vuoto" delle dottrine Tradizionali,di cui lo zen,non e' secondo me immanente,ma trascendente dove scompare l'individuale e il soggetto stesso,) dunque per me sarebbe il post-umano,il puro meccanismo e la cesura totale. una reductio ad unum come un punto privato di estensione (sia spaziale che temporale) e dove nessun orizzonte può essere più possibile,proprio perché reso ormai inconcepibile. Ad una rilettura mi sembra pure Che Le due versioni risultino per certi versi concordanti e pero non capisco perche allora avresti fatto riferimento in precedenza al corpo e alle sue sensazioni individuali se poi da questo tuo ultimo commento escluderesti l'Io e nulla Che possa definirsi...per l'appunto cio Che lo rende possibile e' il trascendere l'individualita e non la sua ipertrofia
La concezione che ho presentato (a cui non necessariamente sento di aderire, anzi come ho detto, soprattutto in un ambito filosofico occidentale, la trovo contraddittoria, per quanto interessante), è opposta alla tua quanto la via della trascendenza è opposta alla via dell'immanenza, anche se entrambe conducono al medesimo punto (che ritengo comunque metafisico). La prima pare salire teleologicamente, la seconda scendere, ma questo salire e scendere forse è solo apparente, dato che l'individuale (l'io) scompare in ogni caso, nella prima l'io è punto di partenza (come per Cartesio) per andare oltre l'esperienza, nella seconda è una sorta di punto virtuale da cui occorre discendere per ritrovare il fondamento esperenziale autentico, non quindi un cammino verso il post umano, ma un ritorno al pre umano che sta a fondamento dell'umano e di tutto ciò che esiste: un'esperienza di niente e di nessuno, puro atto che accade solo per se stesso, senza progetto che lo sovrasti e lo indirizzi. Questo consente ad esempio a Ronchi di intendere la tecnica non come alienazione dell'umano (come ad esempio nell'esistenzialismo umanistico), né come realizzazione poietica umana (come nel positivismo), ma come sfondo naturale originario che l'umano reca comunque con sé. La tecnica è intesa come natura naturans, sempre in divenire. Ed è proprio in questo senso che mi appare l'analogia con certe pratiche orientali volte all'assoluto secondo un tecnicismo gestuale perfettamente immanente all'accadere (per citare alcuni esempi: l'arte del tiro con l'arco, del servire il tè, di tracciare ideogrammi, la tecnica della respirazione, tutti atti come non portano per nulla fuori dalla esperienza immanente in cerco di altro da essa: l'atto di scagliare la freccia o anche di respirare è l'assoluto). Come rientra il corpo in tutto questo? Il corpo non vi rientra come mio o tuo corpo, come corpo soggettuale, ma come mezzo privo di proprietà soggettiva per un'esperienza pura da cui inizia l'ontogenesi continua di un individuo che è solo un processo in atto.